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Pappano inaugura la nuova stagione dell'Auditorium Parco della Musica

Mario Leone

È una prima in tempi Covid. Molte meno macchine, molte meno persone. Pochi vip e pochi fotografi. Le imperfezioni non mutano il giudizio su un’ottima prova musicale che va molto al di là della semplice performance

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La stagione si è inaugurata. Come potrà proseguire è inimmaginabile vista l’imprevedibile situazione epidemiologica. Siamo tra gli ampi spazi dell’Auditorium di Renzo Piano dove riapre la Sala Santa Cecilia. Il tempio della musica romano prova a ripartire proprio quando a Milano, al Teatro alla Scala, rinviano la conferenza di presentazione della nuova stagione “in considerazione dell’evoluzione dell’epidemia e dell’incertezza del quadro normativo”. Per quanto tempo si andrà avanti è un mistero. Come si va avanti, ora, lo sa bene il pubblico che inizia a popolare ordinatamente viale de Coubertin. Quella di venerdì 16 ottobre è una prima in tempi Covid. Molte meno macchine, molte meno persone. Pochi vip e pochi fotografi. Pure gli anziani appassionati, quelli che non lasciano una sola nota al vento, sembrano meno numerosi. Più che agli abiti di gala si guarda alle mascherine. Di vario tipo. Le donne, quelle più à la page, le indossano coordinate alla borsa e alle scarpe. Tutto intorno grida la fragilità e la variabilità del momento. Anche il cielo alterna brusche piogge a sprazzi di luce pennellando arcobaleni che colorano i plumbei nuvoloni.

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La stagione si è inaugurata. Come potrà proseguire è inimmaginabile vista l’imprevedibile situazione epidemiologica. Siamo tra gli ampi spazi dell’Auditorium di Renzo Piano dove riapre la Sala Santa Cecilia. Il tempio della musica romano prova a ripartire proprio quando a Milano, al Teatro alla Scala, rinviano la conferenza di presentazione della nuova stagione “in considerazione dell’evoluzione dell’epidemia e dell’incertezza del quadro normativo”. Per quanto tempo si andrà avanti è un mistero. Come si va avanti, ora, lo sa bene il pubblico che inizia a popolare ordinatamente viale de Coubertin. Quella di venerdì 16 ottobre è una prima in tempi Covid. Molte meno macchine, molte meno persone. Pochi vip e pochi fotografi. Pure gli anziani appassionati, quelli che non lasciano una sola nota al vento, sembrano meno numerosi. Più che agli abiti di gala si guarda alle mascherine. Di vario tipo. Le donne, quelle più à la page, le indossano coordinate alla borsa e alle scarpe. Tutto intorno grida la fragilità e la variabilità del momento. Anche il cielo alterna brusche piogge a sprazzi di luce pennellando arcobaleni che colorano i plumbei nuvoloni.

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Il Presidente dall’Ongaro fa gli onori di casa, sorride, parla, accoglie. Conosce i suoi ospiti a uno a uno. Lo staff mette ordine, cerca di evitare assembramenti, si affanna, ritira fogli con i numeri di telefono del pubblico. Tutti si impegnano affinché questa sia solo una serata di musica e non un rigido protocollo che ti faccia arrivare esausto all’inizio delle prime note. La musica. Quanto è attesa e desiderata. La normale eccezionalità di un concerto. E’ mancata nei tempi del primo lockdown (sembra un’era fa), rischia di essere messa a tacere con un secondo. Il futuro si vedrà. Ora c’è Antonio Pappano, la sua orchestra, il coro e i solisti (il mezzosoprano Gerhild Romberger e il tenore Clay Hilley) e un programma scelto non a caso. La prima parte con il “Te Deum” di Bruckner e la seconda con “Das Lied von der Erde di Mahler”. Protagonista è l’uomo. Quello che chiede, grida e prega. La persona che riflette sulla vita e sulla morte. In tempi così complessi come non sentirsi descritti da queste armonie? Pappano e la sua orchestra lo fanno con la forza dirompente della musica. L’orchestra su leggii singoli e mascherine in viso. Il coro distanziato in galleria. Tutto così logisticamente complesso eppure tutto miracolosamente umano, splendido. Le imperfezioni non mutano il giudizio su un’ottima prova musicale che va molto al di là della semplice performance.

 

Accade qualcosa di difficilmente descrivibile. In platea qualche mascherina è inumidita dal respiro. Le mani schioccano applausi affettuosi e convinti per la grande cattedrale di suoni che è il “Te Deum” con la sua forza fonica: gli ottoni che squillano al cielo e il coro che declama “In Te, Domine, speravi, non confundar in aeternum”. Quando nel 1892 Mahler diresse la partitura bruckneriana, subito dopo il concerto scrisse all’amico: “Ieri (Venerdì Santo) ho diretto il vostro splendido e potente Te Deum. Non solo l’intero pubblico, ma anche gli esecutori sono stati profondamente toccati dalla possente architettura e dalle nobili idee, e alla fine dell’esecuzione ho sperimentato quello che considero il maggior trionfo possibile di un lavoro; il pubblico è rimasto seduto in silenzio, senza muovere nemmeno un muscolo, e solo quando il direttore e gli interpreti hanno lasciato i loro posti si è scatenata una tempesta di applausi”. Gli stessi che hanno salutato Pappano e i suoi artisti. Un po’ troppo affrettati (vizio italiano) quelli dopo il flebile sussurro del mezzosoprano che, chiudendo il lied mahleriano, intona: “Ewig, ewing”, “eternamente, eternamente”. Canta il nostro desiderio: quelle note, quelle parole, possano vivere per sempre. E noi con loro.

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