PUBBLICITÁ

I colori del ballo

Marinella Guatterini

Vaslav Nijinskij, il coreografo e ballerino più importante del Novecento, è stato anche un grande pittore. E il mondo dell’arte riscopre il suo genio

PUBBLICITÁ

Sto sfogliando il programma, qui alla Biennale Danza 2020 iniziata il 13 ottobre (e in corso sino al 25), la quarta e ultima firmata, tra sospiri di rimpianto o di sollievo, da Marie Chouinard, e intitolata “AnD NoW!” con la solita, fiera, grafia bizzarra cara a questa direttrice canadese di Québec City, e la mia attenzione si è posata laddove forse non avrebbe dovuto. Ho infatti tralasciato i due Leoni d’oro e d’argento, orgoglio di ogni Biennale, rispettivamente attribuiti alla coreografa ispano-elvetica La Ribot e alla nostra geniale Claudia Castellucci, per assistere a un “Sacre du printemps” di Xavier Le Roi con la Biennale College e annotare l’imminente “Faun” di Matteo Carvone, con il suo titolo contratto da “L’Après-midi d’un Faune”.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Sto sfogliando il programma, qui alla Biennale Danza 2020 iniziata il 13 ottobre (e in corso sino al 25), la quarta e ultima firmata, tra sospiri di rimpianto o di sollievo, da Marie Chouinard, e intitolata “AnD NoW!” con la solita, fiera, grafia bizzarra cara a questa direttrice canadese di Québec City, e la mia attenzione si è posata laddove forse non avrebbe dovuto. Ho infatti tralasciato i due Leoni d’oro e d’argento, orgoglio di ogni Biennale, rispettivamente attribuiti alla coreografa ispano-elvetica La Ribot e alla nostra geniale Claudia Castellucci, per assistere a un “Sacre du printemps” di Xavier Le Roi con la Biennale College e annotare l’imminente “Faun” di Matteo Carvone, con il suo titolo contratto da “L’Après-midi d’un Faune”.

PUBBLICITÁ

 

Mentre scrivo e quando qualcuno leggerà questo testo, è certo che da qualche parte del mondo si starà allestendo sia una “Sagra della primavera” su musica di Igor Stravinskij sia un “Pomeriggio di un Fauno”, su musica di Claude Debussy. Le due coreografie sono così note che dalla loro data di nascita non hanno mai smesso di essere riprese, eseguite, trasformate, ribaltate, stritolate, seguendo quasi sempre lo Zeitgeist del momento. Dubito che questo tramestio avrebbe disturbato il primo autore dei due balletti. Il suo nome, Vaslav Nijinskij, in realtà Vaclav Fomič Nižinskij (Kiev 1889-Londra 1950), suggestiona, e per più di un motivo: il suo inarrivabile virtuosismo e la sua commovente espressività che fecero di lui “le Dieu de la danse”, il maggior ballerino della prima metà del Novecento; i suoi copiosi e febbricitanti flussi di coscienza, stesi tra il 1918 e 1919, cioè poco prima di sprofondare, a 29 anni, in una incurabile e muta follia ereditaria.

 

PUBBLICITÁ

A tutto ciò si somma la quantità di testi scritti da esperti, letterati, psicologi e amateur; si aggiungono pure i film (di Herbert Ross, ad esempio, ma anche mai realizzati come “Il ballerino timido” di Charlie Chaplin); le riprese degli altri suoi due balletti; le pièce teatrali, tra le quali spicca “Letter to a Man” di Robert Wilson con un magnifico Mikhail Baryshnikov. Proprio questo lavoro (2015) fa luce sulle traversie degli scritti. Urticanti e blasfemi per la morale del suo tempo, a causa dei continui riferimenti al sesso, alla masturbazione, all’identificazione con Dio, una volta ritrovati in un baule da Romola de Pulszky, furono da lei dati alle stampe nel 1937 ma in forma censurata con il titolo “Il Diario di Nijinsky”.

 

Alla morte della nobile ungherese – dal 1913 e a sorpresa moglie del divo, strappato al suo amante Sergej Djagilev, il patron dei Ballets Russes – il manoscritto integrale fu venduto all’asta da Sotheby, a Londra, nel 1979 con grande clamore, ma riposò nell’ombra sino al 1995. Tamara Nijinskij, una delle due figlie della coppia, ne concesse la pubblicazione integrale in Francia, divisa in quattro parti; quattro anni dopo i “Nijinski Cahiers” passarono alla traduzione dal russo anche di Adelphi. Russo? E sì, pur avendo parlato sempre in polacco con i suoi famigliari e i genitori, per l’appunto polacchi, Nijinskij, una volta diventato ballerino a San Pietroburgo e poi stella dei Ballets Russes, si espresse sempre e solo nella lingua degli zar. Tuttavia parlava pochissimo.

 

E se Wilson estrasse dagli strazianti “Diari” frasi memorabili come “io sono colui che muore quando non è amato”, e continue contraddizioni sul suo amore/odio per Djagilev che lo aveva cacciato dai Ballets Russes non appena seppe del suo matrimonio, eccolo ritrovare l’esclamazione che illumina, come una lancinante saetta, il suo mutismo: “Capire non significa conoscere tutte le parole... conosco poche parole ma ho un udito molto fine”. Eppure la tracimante sensibilità del bisessuale Nijinskij fu subito ferita dal cinico Igor Stravinskij, che considerava l’amante di Djagilev letteralmente “uno scemo”, incapace di comportarsi nella mondanità dell’entourage parigino frequentato dai Ballets Russes. Figuriamoci se sarebbe stato in grado, come decise Djagilev, di dare vita coreografica al suo “Sacre du printemps”!

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Ritmi ostinati, timbri che entrano in collisione. Una tremenda tensione strumentale e un volume di suono debordante che assale le orecchie: gli unici momenti di tregua nei “Quadri della Russia pagana”, su libretto dello stesso Stravinskij e di Nicolas Roerich, lo scenografo-pittore primitivista, sono le estatiche introduzioni “impressioniste” alle due parti del balletto: “L’adorazione della terra” e “Il sacrificio”. E infatti durante e al termine dello spettacolo del 29 maggio 1913, al Théâtre des Champs-Elysées di Parigi – quando esplose il maggiore scandalo teatrale forse non solo dell’intero novecento – il compositore se la diede a gambe per non essere inseguito dagli inferociti spettatori; mentre Nijinskij, dapprima appollaiato su di uno sgabello, cercava di tenere insieme quei 47 ballerini, stressati dalla fatica di 100 prove e ancora riottosamente contrari alla sua coreografia che pure restituirono al meglio.

 

PUBBLICITÁ

Esasperato anch’egli, si affacciò dal sipario per urlare: “Dura publika”: pubblico cretino! Naturalmente Stravinskij accusò il coreografo del fiasco del “Massacre du printemps” (così titolarono i giornali), salvo ricredersi quasi in fin di vita. Ma come si spiega che la sua musica tellurica, attinta a una memoria popolare inconscia, eseguita dopo qualche anno in forma solo orchestrale, ottenne uno strepitoso successo, mentre la messinscena di Nijinskij scomparve dopo solo otto recite? In realtà, ciò che sconvolse il pubblico fu proprio la novità introdotta da Nijinskij: furono le gambe all’indentro (en dedans) di quei ballerini accademici abituati ai virtuosismi del balletto e ai voli aerei (di solito mirabolanti del loro stesso coreografo), ma qui costretti a stare ben avvinti alla terra, con salti da ragazzi non sulla pianta dei piedi, bensì in bilico sui lati degli stessi.

 

Furono i costumi da piccoli indiani, coloratissimi, e quella ripetizione del movimento della vergine, o Eletta, quasi una fiamma che punta al cielo, e il suo tremore, dinnanzi alla morte necessaria al risorgere della primavera. Con il Sacre, (quasi) filologicamente ricostruito nel 1987, per il Joffrey Ballet, dopo ben sette anni di ricerche, da Millicent Hodson, storica della danza e Kenneth Archer, esperto della pittura di Roerich, si capisce bene come Nijinskij fosse stanco delle convenzioni del balletto e cercasse qualcosa di più potente, espressivo, vicino a terra e natura che amava tanto.

 

Alla Biennale Danza il francese Xavier Le Roi ci ha presentato la sua terza versione della pièce con 11 allievi danzatori scelti nel College dell’istituzione lagunare, e tutta basata, come le sue precedenti, sull’idea di trasformare i ballerini in direttori d’orchestra, con gesti anche facciali che gonfiano le gote con i fagotti, elargiscono espressioni allegre e cattive mentre le braccia volano e cinguettano. Quanto a Matteo Carvone, con il suo “Faun” in prima assoluta, ne farà un duetto su di un prato artificiale: una natura perduta nella furia autodistruttiva dell’uomo; tra musiche varie e solo pochi minuti dal “Prélude à l’après-midi-d’un faune” di Debussy, che ne sarebbe felicissimo. Aveva volentieri donato a Djagilev questo suo preesistente Prélude; poi, come Stravinskij, detestò la coreografia originale: il primo scandalo di Nijinskij, nato un anno prima del Sacre, il 29 maggio 1912, ma al Théâtre du Châtelet.

 

Qui, oltre a immergere e camuffare la sua mitologica creatura boschiva entro il prezioso fondale di Léon Bakst, e aver donato alla pièce l’aspetto di un bassorilievo greco, scelse per il Fauno, ovvero per se stesso, e sette ninfe, un incedere â pied plat, con il tallone che si posa prima della punta dei piedi, un insulto alle regole accademiche. In più, tutti avanzavano con il busto frontale e testa e membra di profilo come nelle pitture egizie, in uno spazio privo di prospettiva. Nel finale, abbandonato dalla sua ninfa preferita, il Fauno si accasciava sul velo di lei in un feticistico, ma chiarissimo amplesso, con muto urlo orgasmico. La provocazione fu tale da creare persino uno scontro tra il ministero della cultura russa e quello francese. Djagilev chiese a Nijinskij di attenuare quell’atto sessuale.

 

Chi aveva scritto del Faune, citandolo come “un faux-pas”, “sconveniente per i vili movimenti di un erotismo bestiale, con gesti carichi di zozza impudicizia”, non ebbe la meglio sulla curiosa pruderie del pubblico, ma lasciò i primi segni nel fragile cuore di un artista geniale quanto incompreso. Dopo il 1919, se si esclude un feroce assolo contro la guerra, su musica di Chopin, concesso come recital benefico alla Croce Rossa dell’Hotel Souvretta di Sankt Moritz (si era trasferito con la famiglia alla Villa Guardamunt che domina la cittadina svizzera), Nijinskij non ballò più. Passando da un manicomio a un nosocomio, da famosi e meno famosi psicologi (tra cui Freud e Jung) sempre muto o inebetito dai farmaci, fu filmato in un unico, brevissimo, documento (su YouTube) nel settembre 1945, mentre passeggia con la moglie, ma poi, scortato da due guardie rientra nel suo penultimo nosocomio psichiatrico a Vienna.

 

Sconvolgenti, invece, le ultime foto scattate prima del decesso: un uomo appesantito, gonfio in volto, però dagli occhi non ancora spenti, aveva sepolto per sempre il carismatico e potente “sex symbol” dei Ballets Russes. Quegli occhi rivelano una sorpresa, ignota in Italia: la sua creatività era rimasta intatta, ma in altra direzione. Ancor prima del suo ritiro dal mondo, Nijinskij divenne infatti un disegnatore e successivamente un autore di stupefacenti guaches, pastelli e pitture. I primi disegni, terminati tra il 1917 e il 1918, sono un centinaio: cerchi, segmenti di cerchi, forme incurvate dalle quali ricavava figure di cui ancora non si riteneva soddisfatto. La successiva serie (“Arcs and Segments: Lines”), totalmente non figurativa, possedeva nelle linee la stessa geometria di alcuni suoi balletti, tra l’altro costruita senza l’uso di compasso o righello.

 

All’epoca stava lavorando virtualmente a un balletto dedicato alla sua vita: un poema coreografico rinascimentale in forma tonda. “Ogni cosa si basa sul cerchio, vita, arte, danza; è la linea perfetta”: asserzione sia sperimentale che filosofica, ma estranea allo spiritualismo mediatico o di sette esoteriche a cui fu erroneamente associata. Tra questi primi disegni, spesso creati in pochi minuti, e sparsi ovunque nella villa svizzera, Nijinskij cominciò a creare anche forme ellittiche, simili a mandorle intrecciate nei modi più diversi, che divennero assai più sofisticate quando riempite di colori, soprattutto rosso e blu (“Arcs and Segments: Planes”).

 

Nella serie “Masks” del 1918-19 (inchiostro e acquarelli), che spaventava Romola (“Sono facce di soldati”, pare l’avesse rincuorata il marito, “è la guerra”), torna un figurativismo soffocato dal nero dominante, da cui emergono libere forme color carminio, simili a stilizzate farfalle, tra brandelli di bianco, che nella potente serie intitola “Eye” (o “Auge”, al singolare) giungono ad un’ipnotica e terrificante espressività. Una decina tra i primi disegni, scomparve dal Diario censurato della de Pulszky – ma fu poi centellinata in una catena di mostre.

 

Nel 1932 a New York, due anni dopo a Parigi e nel 1937 a Londra per coronare la creazione della Fondazione Nijinskij. Qui per la prima volta 71 opere del danzatore/coreografo “pazzo” non furono più considerate documenti clinici, utili a psicologici e psichiatri, bensì autentiche opere d’arte grazie ad Herbert Read, lo storico, che come riferisce Hans-Michael Schäfer, l’archivista della Collezione del coreografo John Neumeier, furono di nuovo promosse da Read in un’esposizione del 1949. Nel 1950, Serge Lifar, l’ultimo protégé di Djagilev, allora direttore del Ballet de l’Opéra di Parigi, promosse una mostra dal titolo “Vestris-Nijinskij” con un caleidoscopio di documenti che includevano pure il certificato di nascita del povero Vaslav. Quello, del resto, fu l’anno della sua morte: dieci anni di infanzia, dieci di training nella danza, dieci di clamorosi successi e trenta passati tra continui cambi di residenza in nosocomi diversi, torturanti elettrochoc e insulinoterapie.

 

Per le opere figurative di Nijinskij spiccano, invece, date recenti e luoghi insigni. Nel 2000, gli fu dedicata una grande mostra dal Musée d’Orsay di Parigi, in cui comparivano oggetti, costumi, statue e 28 disegni delle prime serie a matita: quelli donati, nel 1975, dalla de Pulszkij alla Bibliothèque-Musée dell’Opéra di Parigi, più alcuni extra dalla Collezione Neumeier; nel 2012, al MoMA di New York, ecco una vetrina “Inventing Abstraction” con opere sue, e nello stesso anno, allo State Museum of Theatre di San Pietroburgo, grazie alla curatela dello stesso Neumeier.

 

Grande merito di questo ben noto coreografo americano, da tempo a capo dell’Hamburg Ballett e proprietario di 156 pezzi del non più ballerino ma artista visivo, e sempre alla ricerca di sue opere ancora disperse (pare avesse continuato a crearle anche in cattività), fu quello di aver accostato, nel 2009, ad Amburgo, in una mostra intitolata “Danza e colori- L’occhio di Nijinskij e l’Astrazione” disegni e guaches di Vaslav a opere di pittori come Léopold Survage, Sonia Delaunay, František Kupka, Vladimir Baranov- Rossine, tutti artisti russi o della vecchia Urss, esponenti di un Astrattismo espressivo che “l’isolato dal mondo” non poteva conoscere ma forse catturava nella sua ipersensibile capacità di percepire lo spirito del suo tempo, con impeto rivoluzionario.

 

D’altra parte nei Diari spicca una frase che dovrebbe far riflettere anche chi, come in Italia, si ostina a presentare un Nijinskij monolitico: solo attraverso il rimescolio delle sue opere. Ma il danzatore è “morto” da cinquant’anni; il coreografo non resuscita, mentre le sue opere d’arte parlano come in quell’epigrafe, contenuta nei Diari, che fa accapponare la pelle: “Sono il presente e non ciò che è già stato”.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ