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È morto per Covid Enzo Mari, leggenda del design italiano

Michele Masneri

Defilato, critico sulla definizione e sul lavoro del designer, scabro nel carattere come nei suoi oggetti brutali, aveva vinto cinque volte il Compasso d'oro. Ad annunciare la sua morte Stefano Boeri, presidente della Triennale di Milano

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Era un po’ la Miuccia Prada del design: defilatissimo e rigoroso e “coscienza critica” dei colleghi. Mai mainstream: poco, pochissimo incline alla decorazione. E’ morto ieri per Covid Enzo Mari, tra le ultime leggende del design italiano. L’annuncio l’ha dato Stefano Boeri, presidente della Triennale di Milano, dove da pochi giorni aveva aperto la grande mostra proprio a lui dedicata, e curata da Hans Ulrich Obrist.

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Era un po’ la Miuccia Prada del design: defilatissimo e rigoroso e “coscienza critica” dei colleghi. Mai mainstream: poco, pochissimo incline alla decorazione. E’ morto ieri per Covid Enzo Mari, tra le ultime leggende del design italiano. L’annuncio l’ha dato Stefano Boeri, presidente della Triennale di Milano, dove da pochi giorni aveva aperto la grande mostra proprio a lui dedicata, e curata da Hans Ulrich Obrist.

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Mari aveva 88 anni ed era considerato coi Magistretti, Castiglioni, Mendini, uno dei grandi vecchi del design milanese. A differenza di questi, appunto, era quello più di ricerca, quello meno legato a prodotti “iconici”, non essendoci un oggetto che lo ricollega a lui; o meglio, ce ne sono, sono tanti, tutti diversi tra loro: e  non  quelli che ci si aspetta. Certo ci sono  i celebri animali  di legno che andavano a ricomporsi in una specie di puzzle ligneo, oggetto del desiderio per ragazzini o meglio per i loro genitori riflessivi specialmente lombardi, che ne facevano dono alla prole che sognava probabilmente Playstation e Playmobil. O una famiglia di calendari scarni e grafici e da aggiornare manualmente (dunque degli anti-calendari, perfetto prodotto del resto di un  anti-designer). O ancora il vassoio-centrotavola industrialista “Putrella” che oggi definiremmo “ugly chic” (facendolo rivoltare ovviamente nella tomba). Grande producer di libri, anche: come il suo maestro Bruno Munari: sia come scrittore che come grafico – tutti abbiamo in casa le bellissime Universale scientifica Boringhieri, su cui abbiamo letto Freud, e i Classici Adelphi. “Forse esagero con l'idea di purismo” disse in un’intervista. “Ma sono convinto che nella forma vada eliminato il superfluo per ritrovarla povera, essenziale”.

Ottantotto anni vissuti dunque all'insegna  dell'estremismo: estremo per le prese di posizione contro la mercificazione ("il design è spreco, è un non-design", la merce è una religione, ecc.), e  sacerdote del progetto onesto per prodotti robusti e rinnovabili, nemico del disegno al computer. Per la sua intransigenza era molto amato dagli studenti, un po' meno dai colleghi: malmostoso-grumpy col suo sigaro toscano, alzava volentieri la voce ma solo in pubblico (Mendini diceva che Mari rappresenta la coscienza dei designer, per Italo Rota invece era un cavallo pazzo dagli zoccoli segretamente borghesi).

Dietro la facciata ruvida abitava però l’umorismo, dice al Foglio Stefano Boeri. “Non era una persona seriosa, era anzi perfettamente consapevole di recitare una parte. Era anche  molto autoironico, cosa che ti faceva perdonare le sfuriate, o i monologhi infiniti”. Questa duplicità  si riflette anche negli oggetti: che alla fine avevano, nella brutalità, qualcosa di poetico. “Era rigorosissimo sul metodo di messa in evidenza di tutte le possibilità di un oggetto, poi però quando si trattava di arrivare alla sintesi, all’essenza, inseriva sempre un elemento lirico: non era mai semplice riduzione”, dice sempre Boeri. Vengono in mente i tagliacarte alati o la stessa Putrella. O gli animaletti, teneri, pur nel loro perfetto incastrarsi a formare un perfetto pezzo di legno.

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Nato povero vicino Novara, papà immigrato pugliese, Mari frequentò l'Accademia di Brera negli anni '50 occupandosi di scenografia, ma poi sarà soprattutto artista, col vezzo del dichiararsi ignorante.  Negli anni '60 si avvicina all'arte programmata e dunque all'industrial design di cui Milano era diventato il cuore pulsante europeo: a forza di fare libri e mostre con amici e maestri della grandezza di Max Bill, Bruno Munari, Angelo Mangiarotti, diventa sempre più centrale anche perché, a differenza di altri, non smette mai di studiare. Uno dei cinque Compassi d'oro infatti lo vince solo per le sue ricerche, il che lo inorgoglisce.

Aveva fatto politica, sempre: ma mai in modo codificato. Un’altra mostra in questi giorni a Milano è intitolata a “Falce e martello. Tre dei modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe,” che, nel 1973, con titolo da Lina Wertmüller, offrì scandalo e  spunti per un vero Radical chic italiano.  Lui si sentì comunque  sempre un artigiano comunista, che nei primi anni '70 come altri promuove l'auto-progettazione, un uno-vale-uno architettonico con la partecipazione del pubblico anche al design (manuali per costruire librerie e sedie e tavoli), al pari di chi la sosteneva nell'architettura.  Ottenendo con classica eterogenesi dei fini  esiti da  artista globale e trendy: i suoi prototipi in legno, bene evocati dal rispettoso allestimento di Paolo Ulian nella mostra alla Triennale, finivano però dritti dritti nelle collezioni del MoMA o del Pompidou e battuti all'asta per prezzi esorbitanti, alimentando cioè quel processo della mercificazione e del marketing che tanto detestava. Altro che Ikea.

   

Di certo Milano non può rammaricarsi di non aver fatto il proprio dovere per omaggiarlo e conservarne la memoria: il Comune ha acquisito l'archivio, che però sarà consultabile solo fra 40 anni (!) per volere dell'autore, la Triennale ha riaperto dopo lunghi mesi proprio con una mostra imponente a lui dedicata,  e curata dal più celebre curator al mondo, Obrist, che avrebbe voluto chiamarla "Marimania", con enorme catalogo Electa (e  fine dei lavori di ristrutturazione del palazzo della Triennale di Giovanni Muzio, ora tornato all'antico splendore originario, senza muri divisori; con la galleria al secondo piano alta e lunga come un portico  dell'Eur). 

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Padre dello scrittore Michele, che l’ha ritratto con filiale rassegnazione nel suo “Leggenda privata”, in un’intervista a Antonio Gnoli di cinque anni fa Mari aveva raccontato la sua vita ormai tutta su un divano (di sua ideazione). “È la mia nave. Ci vivo da anni. Salgo a bordo la mattina e scendo la sera. Qualche breve intervallo. Pisciare. Mangiare. Rispondere a qualche scocciatore. Dormire. Io e questo cazzo di divano siamo diventati una cosa sola. Potrei ancora progettare da qui; richiamarmi alla realtà, il solo tabernacolo al quale mi inchino. Ma so che è tutto inutile. Superata una certa soglia mentale tutto diventa inutile". Disse anche che dopo gli ottant’anni tutti assomigliano a Ezra Pound.

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