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Realtà e finzione: “Tempi duri”, il nuovo romanzo di Vargas Llosa

Uomini, inezie, ossessioni. La storia perfetta di un golpe in Centro America

Marco Archetti
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Una volta su un milione, accade. Accade che chi ti dice “ho una storia perfetta che potrai trasformare in un romanzo” ce l’abbia veramente. Tuttavia, per raggiungere un esito felice, pare che debbano verificarsi contemporaneamente almeno tre condizioni. La prima: il propositore deve essere per lo meno Tony Raful, premio Nazionale di Letteratura 2014 in Repubblica Dominicana. La seconda: l’uomo a cui si rivolge dev’essere, come minimo, Mario Vargas Llosa. La terza: chi propone deve farlo di sorpresa, obbligando l’interlocutore ad ascoltare controvoglia, al termine di una di quelle cene infinite e formali che si prolungano oltre l’umana sopportazione di chi, pure, sguazza nelle occorrenze vaniloquenti, e deve agire proprio nel momento in cui il braccato, accodatosi a un drappello di fuggiaschi, se la sta svignando attraverso una porta che dà sulla strada.

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Una volta su un milione, accade. Accade che chi ti dice “ho una storia perfetta che potrai trasformare in un romanzo” ce l’abbia veramente. Tuttavia, per raggiungere un esito felice, pare che debbano verificarsi contemporaneamente almeno tre condizioni. La prima: il propositore deve essere per lo meno Tony Raful, premio Nazionale di Letteratura 2014 in Repubblica Dominicana. La seconda: l’uomo a cui si rivolge dev’essere, come minimo, Mario Vargas Llosa. La terza: chi propone deve farlo di sorpresa, obbligando l’interlocutore ad ascoltare controvoglia, al termine di una di quelle cene infinite e formali che si prolungano oltre l’umana sopportazione di chi, pure, sguazza nelle occorrenze vaniloquenti, e deve agire proprio nel momento in cui il braccato, accodatosi a un drappello di fuggiaschi, se la sta svignando attraverso una porta che dà sulla strada.

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A parte gli scherzi, è andata proprio così. L’ha raccontato lo stesso Mario Vargas Llosa durante la conferenza stampa di presentazione del nuovo romanzo “Tempi duri” (Einaudi, 328 pp., 20 euro), lui che, in materia di suggerimenti, ha le idee chiare. “Basta che mi raccontino una storia dicendomi che è un’ottima idea da romanzo per farmi decidere di non scriverla. Preferisco incontrare le storie misteriosamente”. E invece, una sera di quattro anni fa, Tony Raful riesce a irretire lo scrittore col racconto del colpo di stato del 1954 in Guatemala, solleticandolo non solo coi punti oscuri della vicenda (in particolare del ruolo che ebbe il dittatore Trujillo nel misterioso omicidio di Carlos Castillo Armas, presidente del Guatemala fino al 1957 dopo aver organizzato il colpo di stato ai danni di Jacobo Arbenz Guzmán, regolarmente eletto e tutt’altro che prossimo all’Unione sovietica come, invece, la propaganda avversa propugnò), ma avendo cura di lasciar intravedere, tra le fessure dell’avvenimento storico, la traccia di ciò che costituisce il principale interesse della narrativa di Mario Vargas Llosa: le maiuscole inezie che determinano le decisioni individuali. Da “La città e i cani” a “Conversazione nella Catedral”, da “La guerra della fine del mondo” a “La festa del Caprone”, infatti, Vargas Llosa ha scritto un unico romanzo senza fine che, tra le righe della Storia, legge sempre l’umano. E sbroglia matasse interiori, racconta vizi e vicissitudini segrete, ossessioni che nascono nell’intimo e influenzano le grandi scelte determinanti. Perché l’uomo nella Storia è sempre un uomo in mutande, un uomo davanti allo specchio, un uomo i cui motivi risiedono in una coscienza ferita da uno sguardo mai dimenticato, da una parola sfuggita o da altre imprevedibili diagonali delle evenienze.

 

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L’obiettivo di Vargas Llosa è, come al solito, quello di mischiare la realtà con l’immaginazione e di intuire verità politiche grazie a biografie interiori immaginate – anzi, meglio: intraviste – “mentendo con cognizione di causa”. (Uno dei testi fondamentali per comprendere il suo mondo è e resta “La verità delle menzogne”, ma innumerevoli sono i seminari e i testi sparsi che Vargas Llosa ha dedicato ai diritti del romanzo rispetto alla Storia, si legga ad esempio la lettera, datata agosto 1972 e intitolata “Resurrezione di Belzebù o La dissidenza creatrice”, appartenente all’eterogenea antologia “La letteratura è fuoco”).

 

In “Tempi duri” lo spazio narrativo è proprio quello – bianco – che la Storia non ha riempito con alcuna certezza: quello del rapporto tra Castillo Armas e Trujillo, e al caso, mai chiarito, della morte del guatemalteco amico della Cia. Il racconto è fluviale e procede – forse con minori complessità che in passato, con momenti di minor turgore narrativo – per montaggi incrociati, tra fatti realmente accaduti e frammenti d’invenzione, slittamenti cronologici e tuffi nelle intimità dei personaggi, raccontati attraverso sintesi dickensiane capaci di emblematizzare sterminati caratteri (uno ha “la bocca enorme da coccodrillo”, un altro “dita storte e nodose di vecchio”, e sono sempre tratti che rivelano un destino). E svela tutto il terrificante potere delle fake news nell’isolare un dettaglio falso, nel manipolarlo, e nell’imporlo alla percezione collettiva. “Lanciando una pallina dall’alto di una montagna si può scatenare una valanga” dice a un certo punto Maria Vilanova, moglie di Jacobo Arbenz Guzmán. E che valanga. Qui la pallina la lancia la United Fruit, in combutta coi servizi segreti e con Edward L. Bernays, spregiudicato pubblicitario nipote di Sigmund Freud.

 

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