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Donne si diventa

Sara Mostaccio

La letteratura s’interroga da decenni sulle ragazze che crescono e si trasformano. Oggi hanno imparato a superare i confini. Un saggio

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Entro in sala che è già buia, poche teste sporgono dalle poltrone perché è lo spettacolo più tardo del venerdì. Sono venuta a vedere “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante presentato a Venezia 77. Il mio ultimo ricordo legato alla regista è l’Eracle messo in scena a Siracusa nel 2018 con un eroe inaspettatamente femmina. Adesso torna al cinema parlando ancora di donne con la storia di cinque sorelle. E’ l’adattamento cinematografico di una pièce teatrale e mi siedo davanti allo schermo come di fronte a un palcoscenico. Il racconto stesso è suddiviso in tre atti che corrispondono alle tre età delle ragazze. Che crescono, cambiano, costruiscono equilibri e affrontano – insieme, sempre, anche quando non si capiscono, non si riconoscono – ogni sventura, gioia e dolore. Cioè la vita intera. Le une per le altre sono più che sorelle di sangue. Sono anche amiche, madri, compagne. Insieme danzano e cadono, attraversano il tempo, i rimpianti, il lutto, l’amore e descrivono una liturgia che ogni donna conosce: quel passaggio tra nascere femmina e diventare donna di cui parla Sofia Bignamini nel saggio appena uscito per Solferino con il titolo “Quando nasce una donna”. Il sottotitolo recita “Come crescono le ragazze diventando se stesse”.

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Entro in sala che è già buia, poche teste sporgono dalle poltrone perché è lo spettacolo più tardo del venerdì. Sono venuta a vedere “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante presentato a Venezia 77. Il mio ultimo ricordo legato alla regista è l’Eracle messo in scena a Siracusa nel 2018 con un eroe inaspettatamente femmina. Adesso torna al cinema parlando ancora di donne con la storia di cinque sorelle. E’ l’adattamento cinematografico di una pièce teatrale e mi siedo davanti allo schermo come di fronte a un palcoscenico. Il racconto stesso è suddiviso in tre atti che corrispondono alle tre età delle ragazze. Che crescono, cambiano, costruiscono equilibri e affrontano – insieme, sempre, anche quando non si capiscono, non si riconoscono – ogni sventura, gioia e dolore. Cioè la vita intera. Le une per le altre sono più che sorelle di sangue. Sono anche amiche, madri, compagne. Insieme danzano e cadono, attraversano il tempo, i rimpianti, il lutto, l’amore e descrivono una liturgia che ogni donna conosce: quel passaggio tra nascere femmina e diventare donna di cui parla Sofia Bignamini nel saggio appena uscito per Solferino con il titolo “Quando nasce una donna”. Il sottotitolo recita “Come crescono le ragazze diventando se stesse”.

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L’autrice si domanda se esista un universale femminile che ci accomuna tutte, quali tappe ogni giovane donna deve attraversare e come questo processo è cambiato nel corso dei decenni che ci separano dalle nostre madri e dalle nostre nonne. Come si arrivi a definirsi donna è una domanda che la letteratura (e il cinema, e il teatro) si pone continuamente e a cui continuamente tenta risposte. Lo diceva anche Simone de Beauvoir che donne non si nasce ma lo si diventa. Ma come? Attraverso passaggi cruciali che la psicoterapeuta esplora nel tentativo di tracciare i contorni dell’identità femminile. Lo fa riportando esperienze personali e professionali, interviste a donne e ragazze di ogni età e riflessioni sulle rappresentazioni culturali fornite, ieri e oggi, da libri, film, persino cartoni animati con cui cresciamo e strutturiamo la nostra identità. Quel che emerge è un ritratto “prismatico” su cui si stratificano percorsi sia generazionali che personali. Alcuni nodi chiave, però, sono condivisi da tutte anche se ciascuna deve trovare l’equazione giusta per sé.

 

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Bignamini parte da un ricordo personale che riconosco anche mio, l’anime Lady Oscar tratto dal manga “Le rose di Versailles” di Riyoko Ikeda trasmesso in Italia dal 1982. E’ la storia di una bambina che per volere del padre cresce come un maschio e diventa capitano delle guardie ma poi, irriconoscibile, partecipa al ballo di Versailles lasciando di stucco tutte le dame. Indecisa se apparentarmi ai comportamenti maschili per non sentirmi esclusa o appropriarmi della dimensione femminile suggerita dalle altre donne di famiglia, mi sentivo in bilico. Erano i primi anni Ottanta e crescevo circondata da cugini che capitanavo con passo deciso. Dovevo farmi spazio in quel mondo di maschi che voleva escludermi ma quando tornavo in cameretta sognavo di mettermi il rossetto.

 

A 6 anni e spiccioli incontrai chi mi spiegò per filo e per segno cosa voglia dire essere chi si vuole senza rinnegare se stesse né accontentare gli altri. Non andò di pari passo con il sapere già chi fossi ma mi indicò una direzione. Era Jo di Piccole Donne. Scrive Bignamini che “Louisa May Alcott colloca la ricerca e la costruzione dell’identità delle ragazze dentro il luogo eletto del gruppo tutto al femminile, formato da altre che fungano da specchio e interlocutrici, condividendo i dilemmi dettati dal genere nelle sfumature della propria generazione”. Ciascuna sorella March incarna una possibilità di identità: Meg è più disposta ad accogliere la via indicata dalla tradizione con matrimonio e figli; Beth è il femminile angelico cui non si dà il tempo di corrompersi con la crescita; Amy rappresenta bellezza, capricci e frivolezze; Jo è il canto spiegato della rivoluzione che entro breve avrebbe trovato altre voci tra le suffragiste. In Jo riconoscevo la parte di me che tendeva a essere messa a tacere ma sentivo di avere qualcosa in comune con tutte loro. Mi riconoscevo nell’intero gruppo.

 

Il cerchio di donne affonda nella notte dei tempi, è lì che da sempre avviene il passaggio di testimone tra generazioni, il riconoscimento di sé e delle altre, la costruzione di un’identità. Tra madre e figlia, tra sorelle e amiche, continuamente ci confrontiamo stabilendo così le caratteristiche che in quel momento e in quel luogo definiscono cosa significa essere una donna. I confini domestici entro cui avveniva il confronto sono stati oltrepassati dai movimenti femministi di fine anni Settanta ma le donne hanno continuato a cercare spazi di incontro per discutere la propria identità oltre le definizioni imposte dal contesto di provenienza e dai ruoli sociali.

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Oggi che sono cambiate le rappresentazioni culturali, i modelli a cui fare riferimento sono figure che ribaltano tutti gli stereotipi. Le storie di donne fuori dagli schemi vivono un momento di grande popolarità: abbondano libri, podcast, serie tv e albi illustrati destinati alle donne di oggi e a quelle di domani. Si reclama ancora, a gran voce e in modi vecchi e nuovi, il diritto di ribellarsi alla subalternità, alla passività, all’ubbidienza, al silenzio. Le fanciulle non sono più chiuse nella torre in attesa del principe che sconfigga il drago per salvarle (e rinchiuderle in un altro castello). Persino Disney propone da anni principesse in grado di badare a se stesse. Ma se negli anni Settanta in “Dalla parte delle bambine” Elena Gianini Belotti sollevava la necessità di smarcarsi dai ruoli di genere tradizionali, Loredana Lipperini nel 2007 (“Ancora dalla parte delle bambine”) ha messo in guardia: queste ragazze che non si arrendono mai non finiranno per diventare nuovi imperativi a cui conformarsi, gabbie non meno opprimenti dei vecchi ruoli di genere?

 

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La mia presa di coscienza delle gabbie risale alla lettura della poesia “Sono stata cavalla” di Bianca Garufi: “Sono stata tutte le cose mansuete / e ampie della terra… / Sono stata quella che sempre deve essere là / una certezza quadrata / Sono stata tutto ciò che poteva servirti / a prendere il volo… / E adesso / questa ruota si è fermata / devo fare una cosa/mai fatta forse mai esistita / una cosa anche per te ma / soprattutto per me / per me sola / tanto autentica e nuova / che trema persino il volto della vita”.

 

Se prima della rivoluzione sessuale la donna si pretendeva docile e sottomessa, dedita alla famiglia e oggetto di desiderio, da un certo punto in poi diventa titolare di corpo desiderante. Scoprire di averne uno è un momento tanto destabilizzante quanto esaltante e resta a lungo un dualismo scomposto. Da una parte abbiamo l’impressione di possedere uno strumento di potere formidabile ma dall’altra diventare oggetto di attenzione, o in qualche caso addirittura di sopraffazione e violenza, ci fa percepire un senso di espropriazione del nostro corpo.

 

“Mentre le rappresentazioni dell’emancipazione sono cambiate, – precisa Bignamini – quelle della seduttività sono rimaste legate agli stessi vecchi canoni… incontro molte donne che rifiutano in blocco la propria seduttività, come se il fatto di avere bisogno dell’altro fosse un’ammaccatura della propria autostima, oppure che la vivono come strumento di potere: decido tutto io, in modo da non soffrire se non ottengo quello che voglio. Fare pace con la nostra spinta a sedurre forse ci permetterebbe di attivare una maggiore creatività, di non lasciare che la seduzione corrisponda soltanto a certe forme stereotipate di desiderio maschile”.

 

Per ogni donna è una tappa cruciale misurarsi con il proprio corpo in perenne mutamento, dai cambiamenti dell’adolescenza alla costruzione di un’immagine che corrisponda alle nostre o altrui aspettative, dalla gravidanza alla menopausa. Ci affanniamo a capirlo, cambiarlo, nasconderlo o esporlo per sottrarlo al giudizio o sottoporlo alla convalida altrui e solo molto più tardi ci disponiamo ad accettarlo.

 

Avevo 11 anni quando risposi con un pianto convulso al ragazzino che mi chiese goffamente se volessi fidanzarmi con lui. Non avevo idea di come reagire, nessuno mi aveva ancora preparato all’idea di diventare oggetto di desiderio, un passaggio che nella mia famiglia si legava al momento della comparsa delle mestruazioni. A 15 anni la mia risposta a una dichiarazione fu opposta ma non meno turbata. Più turbata di me però era mia madre quando glielo dissi, mi subissò di raccomandazioni. L’educazione di una ragazza è contemporaneamente l’educazione di una madre e le due tappe sono sfaccettature della stessa cosa, diventare una donna.

 

La trasmissione generazionale, oppure la sua assenza, gioca un ruolo cardine nella ricerca dell’identità, che sia un rapporto positivo di scambio di saperi oppure si risolva in opposizione. L’identità femminile resta saldamente intrecciata a quella della madre anche se ci si è svincolate dall’obbligo sociale di generare a propria volta e si va in cerca della propria identità altrove. Adesso a decretare i passi chiave della crescita sono l’indipendenza economica, la realizzazione personale, la possibilità di esplorare i propri confini e contare su se stesse. Su Facebook c’è una enorme community che si chiama “Viaggio da Sola Perché”, consta di oltre 25.000 membri e incoraggia le donne a partire da sole e condividere le proprie esperienze per aiutarsi a vicenda. Il viaggio in solitaria diventa strumento di autodeterminazione. Non abbiamo però smesso di cercare luoghi di confronto con le nostre sorelle per interrogarci su chi siamo e cosa desideriamo, sulle nostre risorse e capacità, sui nostri limiti interni ed esterni e come oltrepassarli. Sofia Bignamini chiama “fucina delle sorelle” la dimensione interlocutoria tra donne, approdo sicuro e nel contempo giudice implacabile, nucleo fondante di identità femminile. Non è un caso l’enorme successo di serie tv come “Sex and the City” e più di recente “Girls” di Lena Dunham che seguono la vita di quattro amiche (trentenni in un caso, ventenni nell’altro) alle prese con l’essere donne. E come non pensare anche alla quadrilogia dell’amica geniale di Elena Ferrante. Lila e Lenù sono talmente diverse da vivere in perenne e sotterraneo conflitto ma trovano l’una nell’altra un’alleata e un esempio, a volte in negativo, per affrontare il mondo.

 

Nella fucina della sorellanza si legge la realtà e si inventano soluzioni, si smontano stereotipi e si rifiuta la prescrizione sociale che ci indica come dovremmo essere anziché incoraggiarci a diventare chi vogliamo. Il riconoscimento di sé, conclude Bignamini, non è mai condizione acquisita una volta per tutte ma ricerca costante. Solo più consapevole. “Libere infine di essere noi, intere, forti, sicure, donne senza paura” scrive Dacia Maraini in “Corpo felice” in cui parte dall’esperienza personale della perdita di un figlio per sollevare domande sulla costruzione dell’identità femminile, il rapporto con i figli e la parità di genere. E continua: “Mi chiedi cosa intendo per corpo felice. Be’ un corpo fertile, capace di partorire figli, ma anche pensieri e desideri, progetti e sogni. Le ragazze di ogni latitudine ed etnia si inginocchiavano davanti a queste immagini di fertilità e abbondanza per chiedere un corpo felice”. E’ felice il corpo di Modesta, protagonista de “L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza che attraversa il Novecento servendosi del suo corpo come di una bussola. E’ ancora attraverso il corpo che Frances in “Parlarne tra amici” di Sally Rooney sperimenta il mondo ma prima di tutto se stessa migrando dalla relazione omosessuale con un’amica a quella con un uomo sposato. Il suo tragitto riassume l’educazione sentimentale di chi oggi vive immersa nella liquidità del mondo contemporaneo. La ricerca di identità non si risolve più nel riconoscersi in definizioni precostituite, fosse anche per opposizione, ma procede attraverso un continuo saggiare e superare confini.

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