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Tutti i suoi saggi sono da rileggere

Berto, uno scrittore contromano e perciò dimenticato

Claudio Giunta

Più di quarant’anni dopo la sua morte, l’autore del “Male oscuro” è il meno letto tra quelli della sua generazione. Ma aveva capito la complessità dei tempi moderni. Dalla questione meridionale al conflitto tra fascismo e antifascismo

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Giuseppe Berto è noto soprattutto per Il male oscuro, un grande romanzo che non ha però molte chance di essere letto o riletto oggi dal lettore non specialista: troppo lungo per la nostra poca pazienza, troppo sperimentale, cioè bizzarro, nello stile, con quei lunghissimi periodi senza pause che mimano il flusso di coscienza, un po’ nel solco di Joyce o di Beckett. Meno note sono le molte pagine che Berto ha scritto per i quotidiani e i periodici tra la seconda metà degli anni Quaranta e il 1978, l’anno della morte. Le sue recensioni cinematografiche e i suoi articoli sul Mezzogiorno, e sulla Calabria in particolare, sono stati raccolti da un piccolo editore di Vibo Valentia, Monteleone (Critiche cinematografiche 1957-1958, a cura di Manuela Berto e Pasquale Russo, 2005; Il mare da dove nascono i miti, a cura di Pasquale Russo, 2003), mentre nel 2010 l’editore Aragno ha pubblicato gli articoli che Berto ha scritto nell’arco di circa un decennio per Il Resto del Carlino.

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Giuseppe Berto è noto soprattutto per Il male oscuro, un grande romanzo che non ha però molte chance di essere letto o riletto oggi dal lettore non specialista: troppo lungo per la nostra poca pazienza, troppo sperimentale, cioè bizzarro, nello stile, con quei lunghissimi periodi senza pause che mimano il flusso di coscienza, un po’ nel solco di Joyce o di Beckett. Meno note sono le molte pagine che Berto ha scritto per i quotidiani e i periodici tra la seconda metà degli anni Quaranta e il 1978, l’anno della morte. Le sue recensioni cinematografiche e i suoi articoli sul Mezzogiorno, e sulla Calabria in particolare, sono stati raccolti da un piccolo editore di Vibo Valentia, Monteleone (Critiche cinematografiche 1957-1958, a cura di Manuela Berto e Pasquale Russo, 2005; Il mare da dove nascono i miti, a cura di Pasquale Russo, 2003), mentre nel 2010 l’editore Aragno ha pubblicato gli articoli che Berto ha scritto nell’arco di circa un decennio per Il Resto del Carlino.

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Le recensioni meriterebbero un pubblico molto più ampio di quello, minuscolo, che il volume ha avuto, perché Berto vi riversa l’intelligenza e la competenza anche tecnica di uno scrittore che il cinema oltre che vederlo lo ha fatto (tra gli anni Quaranta e i Cinquanta collabora alla sceneggiatura di una dozzina di film, e tra l’altro di Il cielo è rosso di Gora, di Anna di Lattuada, di Gelosia di Germi). A questa doppia esperienza di narratore e di sceneggiatore si deve una speciale attenzione per la forma narrativa dei film, per la plausibilità e la tenuta degli intrecci, un’attenzione anche più acuta di quella che si trova nelle pagine di scrittori-critici più celebrati come Moravia o Soldati; e si deve anche un occhio allenato per la qualità delle interpretazioni. Talento raro tra i letterati, ma forse anche tra i critici cinematografici, Berto sa infatti distinguere tra il bravo attore e l’attore mediocre, e sa motivare il suo giudizio, senza però dare per acquisita la bravura una volta per tutte, senza cioè farsi abbagliare dal luccichio del divismo. Così inizia per esempio la sua recensione alla pasticciata commediola che è La sottana di ferro: “Non bisognerebbe aver mai fretta di parlar bene della gente. Saranno forse due settimane che mi sono sbilanciato a cantar lodi in favore di Katharine Hepburn interprete del Mago della pioggia, ed ecco che mi ritrovo pentito e confuso davanti a questa Katharine [che] ridicolmente bamboleggia tra le braccia del ‘re della risata’ Bob Hope”. E della stessa felice spregiudicatezza Berto dà prova nel giudizio sul cinema italiano “serio” di quell’epoca meravigliosa. A parlare dei difetti dei film di Visconti – scrive per esempio recensendo Le notti bianche – si rischia di fare la figura degli ingenui: “Tutto in quei film sarebbe voluto e calcolato, in modo particolare quel che ai mortali appare gratuito o eccessivo: il movimento della macchina troppo insistito, la pausa nel racconto protratta fino alla provocazione, la digressione di cui non si afferra l’utilità, il dialogo banale, le comparse sullo sfondo […]. A ogni dubbio o perplessità, si ha l’impressione che il regista salti fuori a dire: vergognatevi, voi che non capite: non avete la preparazione, l’intelligenza, la sensibilità per arrivare a me”. Mentre Fellini è senz’altro, e di gran lunga, “il migliore regista italiano d’oggi”, ma recensendo Le notti di Cabiria, e poi persino Otto e mezzo, Berto preferisce insistere non sui suoi pregi ma sui suoi difetti – la frammentarietà soprattutto, l’inabilità al racconto: “Molti cominciano a chiedersi, con tutta serietà, se questo stupefacente regista non abbia già dato il meglio di sé raccontandoci le storie dello Sceicco bianco e dei Vitelloni: due film che, pur rivelando qua e là pericolose tendenze verso esibizioni intellettualistiche, riuscivano a mantenere ben salda una loro unità narrativa”. E non si finirebbe più di citare campioni di questa prosa critica così piana nel linguaggio e così ricca di osservazioni penetranti.

 

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Quanto al Mezzogiorno e alla Calabria, Berto ne ha scritto con continuità per trent’anni. Nel volume summenzionato, Il mare da dove nascono i miti, il primo intervento è datato 8 aprile 1948, un articolo per il Tempo dal titolo Un treno verso il sud; gli ultimi, estate 1976, sono la sbobinatura di lettere da Capo Vaticano – anni prima vi aveva comprato una proprietà, oggi meraviglioso luogo di villeggiatura, anche affittabile – che Berto aveva scritto per un programma della Rai. Tra queste date, trent’anni appunto di corrispondenze per i giornali che chiunque sia interessato alla storia dell’Italia meridionale nel Dopoguerra farebbe bene a leggere con l’interesse con cui si leggono i meridionalisti più rinomati.

 

Come tutti gli uomini che hanno attraversato i decenni centrali del Novecento, anche Berto ha dovuto porsi il problema dei benefici e dei guasti della modernizzazione, problema che ai suoi colleghi scrittori ha ispirato soprattutto visioni apocalittiche fondate sovente su generalizzazioni, partiti presi ideologici o impressioni di seconda mano. La modernizzazione dell’Italia meridionale era ed è una matassa ancora più intricata, ma nelle sue memorie di viaggio Berto mostra sempre un ammirevole equilibrio tra amore e non-amore, tra devozione alle antiche forme di vita ed esigenza di cambiamento, ma con una certa propensione per la prima più che per la seconda. Rimpianto di una civiltà, s’intitola un articolo del 1974 che comincia nel nome di Pasolini: “Raramente capita ch’io concordi in quel che fa o dice Pier Paolo Pasolini, e quando capita mi rattristo […]; però è un fatto che è bastato l’avvento della civiltà dei consumi – chiamiamo pure così l’arrivo di un improvviso quanto insufficiente benessere – per fare sparire la civiltà contadina”. E già due anni prima Berto era entrato nel merito con questo abbozzo di storia della “mutazione” (La ricchezza della povertà): “Ora, la civiltà contadina era sì miseria, denutrizione, malattie, analfabetismo, esuberanza sia di nascite sia di morti (premature), ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile […]. I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali. D’una pompa di benzina riescono a fare un feticcio, collocandolo come monumento insigne nella piazza principale del paese. L’architettura, spesso sovvenzionata, ha preso per anni spunto proprio dalle stazioni di servizio, e solo recentemente, ma grande ingordigia, si è convertita al Marocco” – cioè agli archetti e alle cupolette moresche che negli anni Sessanta e Settanta cominciano a punteggiare, sfigurandole, le campagne calabresi.
Negli articoli scritti per il Carlino tra il 1962 e il 1971 il lettore del Male oscuro trova pagine che anticipano i temi del romanzo, o che nel romanzo verranno rifuse (come l’aneddoto dei due sigari donati al padre carabiniere da Gabriele D’Annunzio, e lasciati in un cassetto a muffire: efficace metafora del distacco dall’estetismo della giovinezza); e pagine in cui, sull’onda del successo del Male oscuro, che esce nel 1964, Berto riflette sul suo rapporto con la psicoanalisi o sulla sua tecnica narrativa. Ma per la gran parte si tratta di racconti di viaggio in luoghi allora esotici come l’Europa dell’est, e di riflessioni sulla politica e la società italiana, riflessioni lunghe, articolate, quali negli anni Sessanta era possibile svolgere anche sui quotidiani, e che oltre a una generale tendenza conservatrice-legalitaria, hanno come denominatore comune l’insofferenza per l’onnipresente, onni-avvolgente retorica italiana, un’insofferenza che fa di Berto l’erede ideale di nemici giurati della retorica – nonché dell’italianità, di questo lato asfissiante dell’italianità – come Savinio, Brancati, Flaiano

 

Nel Dopoguerra, molti hanno convenuto che il ricettacolo di questa italianità tossica fosse stato il ventennio fascista appena trascorso, l’epoca delle parate in divisa e degli slogan marziali scolpiti sugli architravi dei palazzi. Berto vede invece in quella attitudine un aspetto congenito del carattere nazionale, senza riguardo alle epoche e alle fedi politiche: accanto al fascismo, nel suo elenco, ci sono il Risorgimento e la Resistenza. In questo arco di tempo più ampio, il fascismo diventa uno dei nomi dell’illiberalismo, che persiste anzi prospera anche a fascismo finito, e anche tra gli antifascisti: “Per essere davvero contro il fascismo non è necessario tanto essere antifascisti, quanto non-fascisti, o afascisti. Ma essere afascisti non è facile, presuppone il possesso d’un impegno morale e d’un equilibrio che sono rari nella società italiana, specie tra gl’intellettuali, i quali, non certo per coraggio ma per sbaglio, si trovano sempre un po’ troppo compromessi, troppo impegnati ad esempio a far dimenticare un eccessivo fascismo con un eccessivo antifascismo […]. I fascisti si servirono principalmente di retorica, faziosità, illiberalità, violenza. E’ l’insieme di queste brutte qualità che si può chiamare ‘mentalità fascista’. Liberarsene vuol dire essere non-fascisti. Servirsene significa essere fascisti anche se, putacaso, nelle intenzioni si vuol essere antifascisti”.

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Una parte della pubblicistica di Berto era già stata raccolta nel 1971 nel volume Modesta proposta per prevenire. Il libro generalmente non piacque. I recensori di sinistra vi trovarono maltrattata l’icona della Resistenza (“Nel quadro generale della Seconda guerra mondiale la resistenza italiana fu un fenomeno più che altro occasionale, di trascurabile importanza”), e ridicolizzati gli ideali della Contestazione (“Tutte le rivoluzioni sono, di regola, ideate e condotte da borghesi intellettuali che, a farle, non hanno alcun interesse, se si esclude quello, in se stesso non necessariamente politico di soddisfare la propria volontà di potenza”). I moderati trovarono che un congruo numero di pagine del libro erano dedicate a una lettura demistificante, quasi irridente della Costituzione. Berto cita per esempio l’articolo 4, relativo al contributo che ogni cittadino deve dare in vista del “progresso materiale e spirituale della società”, e commenta, riprendendo il motivo della vicinanza tra fascismo e antifascismo già toccato negli articoli sul Carlino: “Si ha l’impressione che si tratti, al solito, di vuota retorica. Però sia la retorica che la tendenza a far confusione tra diritti e doveri fa pensare che essere antifascisti è condizione pericolosamente vicina al fascismo, la vera virtù consistendo nell’essere non-fascisti, ossia davvero rispettosi della dignità e della forse immaginaria libertà dell’uomo”.

 

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Ora, i capitoli di Modesta proposta per prevenire sono pieni di ingenuità e di informazioni sommarie che non reggerebbero a una critica attenta, ma questo è uno dei difetti connaturati alla scrittura militante: che sfronda, che semplifica per inquadrare da una prospettiva inedita i suoi oggetti. Solo che mentre si era e si è propensi a perdonare il difetto quando lo si trova negli scritti degli intellettuali di sinistra, con le lacune e le ingenuità non-di-sinistra non si era e non si è altrettanto pazienti, e non le si giustifica neppure come paradossi. E la dissacrazione di tutto – non solo delle ideologie e delle fedi ma anche della Costituzione e dei suoi valori (“Non v’è, in politica, concetto più pericoloso dell’eguaglianza, perché l’eguaglianza non esiste”), della Resistenza, di don Milani, della Cultura, soprattutto della Cultura – non può andare giù a chi non trova pace se non ha una buona causa da difendere, un feticcio sul quale giurare.

 

Ma al di là della fretta nell’argomentazione, in questa lettura delle vicende politiche e sociali degli anni Sessanta Berto combina in maniera intelligente l’osservazione dei fatti, della superficie dei fatti, e una specie di psicologia del profondo che ricorda da vicino il ‘metodo’ dispiegato nel Male oscuro. Vale a dire che nei capitoli di Modesta proposta Berto psicanalizza la Contestazione così come aveva psicanalizzato il Narratore del romanzo. Solo che l’idea di cercare nei geni più che nell’ambiente i moventi dello psicanalizzato, idea che lascia perplessi o annoia un po’ nel Male oscuro, qui appare perfettamente adeguata all’oggetto dell’analisi. La psicologia sociale di Modesta proposta riesce insomma più originale, e anche più convincente, della psicoanalisi tentata nel romanzo. La Contestazione, osserva Berto, è anzitutto una questione privata, una reazione che obbedisce a un impulso narcisistico: a sostenere gli studenti “nella lotta v’era anche la comprensibile esaltazione che si prova nel sentirsi importanti, al centro dell’attenzione nazionale, o addirittura mondiale come a Parigi, e insomma ci stava anche la componente narcisistica”.

 

Questa attitudine narcisistica ha generato, nei contestatori, un settarismo puerile che Berto paragona alla psicosi descritta dallo psicoanalista Giulio Cesare Soavi, e che il lettore odierno non ha difficoltà a predicare di altri più recenti moti politici italiani: “L’oggetto è trattato con modalità schizo-paranoide, dissociato in parti tutte cattive e persecutorie da distruggere ed in parti idoleggiate da mitizzare. Un tipo di rapporto realisticamente sano che considera l’oggetto come amalgama di cose buone e cattive col quale bisogna intrattenere un dialogo onde raggiungere un compromesso viene sentito come la peggiore delle trappole”. Riaffiora così come categoria analitica quella volontà di potenza che in una pagina del Male oscuro Berto aveva evocato per descrivere, comicamente, la dissennata prodigalità della moglie del protagonista: “attraverso le spese particolarmente inutili lei manifesta una specie di volontà di potenza o qualche altra cosa di parimenti diabolico che a mio avviso potrebbe anche ravvicinarla a Stalin”. In Modesta proposta non si ride più, e la locuzione volontà di potenza recupera la sua aura nicciana, estrinsecandosi come affermazione di sé attraverso l’imposizione violenta di nuovi valori: “Le idiote semplificazioni elaborate dal comunismo cinese perché le grandi masse si schierino contro l’imperialismo americano arrivano alle grandi masse soltanto attraverso la mediazione di intellettuali borghesi ribelli. Ribelli e, quasi sicuramente, assatanati da una volontà di potenza che la cultura borghese, consunta ma non molto disposta alle facili avventure, non permette loro di soddisfare”. Alla fine degli anni Sessanta, a questi “intellettuali borghesi ribelli” infatuati di Mao la Contestazione aveva offerto una visibilità planetaria, e più di un pulpito in Italia. E delle affinità, appunto, psicologiche tra il fascismo e la Contestazione – spirito anti-borghese, aggressività squadrista, retorica giovanilistica, culto dell’azione per l’azione, ambizione di costruire l’Uomo Nuovo – parla uno dei capitoli migliori di Modesta proposta.

 

Nonostante l’ammirazione di molti (ieri di Gadda, oggi per esempio di Emanuele Trevi, che ha steso una prefazione molto simpatetica per l’ultima ristampa del Male oscuro), Berto non è mai riuscito veramente ad avere un posto di spicco nel canone letterario del pieno Novecento, forse anche perché gli è mancata la sanzione scolastica, l’ingresso nelle antologie, che in Italia è quasi tutto. Nei necrologi che gli vennero dedicati, la sua attività di pubblicista e il libro Modesta proposta non sono neppure menzionati. Sul Corriere della Sera, Carlo Bo scrisse che i libri di Berto destinati a restare erano forse Il cielo è rosso, Il male oscuro e l’ultimo, uscito pochi giorni prima della morte, La gloria, accolto più male che bene dalla critica. Oggi, a distanza di quarant’anni, sappiamo che neppure quei tre libri hanno potuto contare su un pubblico fedele, quel pubblico anche esiguo ma zelante, affettuoso che generazione dopo generazione trasmette l’opera e la memoria di un autore. Neri Pozza ha cominciato a ristamparlo qualche anno fa, ma in tanta abbondanza d’offerta qual è quella che si trova oggi nelle librerie è difficile che i romanzi di Berto possano conquistare, oggi, nuovi lettori. Ma la sua prosa non narrativa, quella raccolta nei volumi che ho citato sin qui, meriterebbe di essere scoperta da un pubblico più ampio di quello degli specialisti.

 

Attraverso questi scritti si farebbe anche la conoscenza di un uomo davvero notevole. Berto era un solitario, non aveva un carattere facile, ma era intellettualmente onesto, e su ciò che era successo e sarebbe successo in Italia e nel mondo aveva molta più ragione di quanta ne avessero tanti suoi contemporanei più celebrati. Il suo reportage dalla Cecoslovacchia (ora in Soprappensieri, pp. 356-81) non è viziato da anticomunismo preconcetto, ma lo attraversa un senso d’angoscia per la libertà impedita, calpestata; come in Modesta proposta le pagine su Stalin o su Mao. Non mi pare che Berto citi mai Kundera, che a quei tempi non era ancora stato tradotto in italiano, né Milosz, che cominciava ad esserlo ma da editori minori: ma loro sarebbero stati i suoi interlocutori. Aveva la stessa epidermica diffidenza nei confronti degli slogan, dei concetti inesaminati, delle parole d’ordine ripetute per acquiescenza e moda (non solo capitalismo, borghesia, rivoluzione, ma anche Mao, Guevara, Vietnam) che aveva uno spirito a lui per alcuni versi affine come Nicola Chiaromonte. In più, gratificato dalla vita di un certo senso pratico, era il raro letterato italiano che, pur senza conoscerli in profondità, aveva a cuore i problemi economici reali: in Modesta proposta c’è una pagina divertente e presaga sullo sfacelo del debito pubblico, che comincia a crescere impetuosamente proprio dalla fine degli anni Sessanta, e sulle cattive ricette del sindacato (a partire da questa frase sintomatica di Lama: “Il problema delle pensioni non è stato forse risolto impegnando disponibilità future?”.  Indeed).

 

Infine, non era uno di quei depressi che accusano il mondo o la storia o la politica della loro depressione e anzi, come ricorderanno i lettori del romanzo, in certe pagine del Male oscuro la depressione, il male di vivere, sembrano quasi alleggeriti da una specie di euforia. Era un uomo, uno scrittore che sapeva ridere, in un’epoca nella quale gli intellettuali facevano a gara a chi aveva la faccia più seria, e in cui poche accuse erano più infamanti dell’accusa di fatuità. Lo spirito del tempo, a volerlo cogliere, è ben sintetizzato da queste righe di Fortini nell’Ospite ingrato: “Gli imbecilli dissacrino, è il loro mestiere. Capire che il riso comporta un grado elevato di complicità con il potere e l’ideologia dominanti, non è facile da concedere, ne convengo. Che il riso non castighi i costumi ma li confermi, è duro da ammettere. Ma è così. Il riso vale come critica solo se si aggiunge a una critica che non ride. Non può sostituirla. Debbo sapere che la tirannide è tragica. Solo quando ciò è ben chiaro, come Shakespeare o in Beckett, allora posso permettermi di fare entrare i clown”.

 

Si stenta a credere che sciocchezze narcisistiche di questa risma abbiano potuto essere prese sul serio. Ma perché no, del resto? Se si è convinti che nel mondo si stia combattendo una guerra tra il Capitale e la Civiltà, con che coraggio ci si può permettere di sorridere, o peggio di ridere? E’ più probabile che si finisca per dettare oracoli millenaristici, o versi sconci come “uomini ci sono che debbono essere uccisi”. Conversando con Philip Roth, Kundera ha detto di aver scoperto il valore dell’umorismo negli anni di Stalin: “Avevo vent’anni, e riuscivo sempre a riconoscere le persone che non erano staliniste, le persone che non dovevo temere, dal modo in cui sorridevano. Il senso dell’umorismo era un segno di riconoscimento affidabile. Da allora mi terrorizza un mondo che sta perdendo il suo senso dell’umorismo”. E simmetricamente, se si è convinti che la vita sia una continua battaglia tra il Bene e il Male, e che l’inferno aspetti i peccatori, quale pazienza si può avere con la dissacrazione del riso? Per chiunque sente di incarnare un ideale o una missione, l’umorismo è come la kryptonite per Superman: screditando l’Ideale, o almeno il modo in cui lo si persegue, scredita anche il missionario, demistifica la sua vanità. Oggi ci stiamo accorgendo che dentro questa tenaglia di preti rossi e neri sono finite stritolate molte delle cose culturalmente più interessanti del secondo Novecento (canzoni, cinema, tv ‘leggera’, pagine splendide di giornalismo, narrativa, saggistica), mentre lo stigma della serietà e dell’importanza è stato concesso a una quantità infinita di impegnate atrocità, molte delle quali ben incardinate nei programmi scolastici, dunque inamovibili. Chi condivide questa impressione ascolterà con sollievo la voce intelligente e isolata di questo contrarian.

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