PUBBLICITÁ

Il cacciatore dei deserti

Michele Masneri

Sabbie nobili. Storia eroica e forsennata di John Pepper, fotografo delle distese africane, erede di una famiglia americana ben piantata in Italia. Da ragazzino attore con Liz Taylor, ora è approdato a Todi con una mostra

PUBBLICITÁ

Arrivi a Todi e ti imbatti in improbabili bandiere iraniane, egiziane, russe, israeliane, che sventolano all’ingresso della città, mentre uno sceicco si aggira vestito da sceicco. Non stanno girando una coproduzione con la Libia, né è in corso un G8 molto nordafricano, si tratta invece di una raffinata mostra-performance intitolata “Inhabited deserts” e che al contrario del titolo è fatta di foto di deserti rigorosamente privi di umani. Proprio deserti. Il fotografo è  John Pepper, non nuovo alla cittadina umbra: ivi in parte è cresciuto, essendo figlio della compianta Beverly, leggendaria artista di land art che lì presidiava un’enclave artistica  famosa. Ma adesso Pepper si reimpossessa dei luoghi con queste cinquantasei foto in bianco e nero realizzate in tre anni di peregrinazioni tra le meglio sabbie del mondo. Diciottomila chilometri tra Stati Uniti, Russia, Oman, Iran, Israele, Egitto e Mauritania, per produrre questo bianco e nero rigorosamente analogico, racconta Pepper, sessantenne, nel suo maglioncione un po’ bucato e un’aria di grandezza decadente tra la Dolce Vita e il West. Fotografo da sempre, questa passione desertica gli è venuta a un certo punto nel Nevada, in un colossale deserto domestico, e poi, racconta, a Dubai si è imbattuto nel suo animale-guida: Max Calderan, il più famoso desertologo vivente, conosciuto per caso al consolato d’Italia. Da lì, parte la sua ricognizione con poche semplici regole: “Niente esseri umani, niente oasi, solo sabbia e ancora sabbia”; e la sabbia torna anche nell’allestimento della mostra, curata da Gianluca Marziani e Kirill Petrin, fortemente voluta da Emmanuele F.M. Emanuele. Mentre si ammirano gli scatti, nella sabbia si possono immergere le mani, e la full immersion desertica a Todi ha visto anche la presenza di un bizzarro personaggio, un vero sceicco, appunto, Ahmed Mohammed Al-Jebali, della tribù Jabaleya, “che protegge il monastero di Santa Caterina sul Sinai da duemilacinquecento anni”. La mostra, che sarà presto pronta per emigrare verso altri lidi, riporta glamour internazionale-mediorientale a Todi con un altro Pepper, artista in proprio in una famiglia “larger than life”. Il padre Bill è stato infatti un celebre corrispondente di Newsweek da Roma. La sorella Jorie Graham, premio Pulitzer, è una delle poetesse più importanti d’America. E la mamma, Beverly Pepper, era…Beverly Pepper. Peccato che è morta a febbraio, non ha fatto in tempo a vedere la mostra. “Ha avuto sempre un timing perfetto, avrebbe odiato questo Covid”, dice il figlio desertologo. La famiglia Pepper è una meravigliosa incubatrice di storie nella Roma del Dopoguerra, tra postumi di una Dolce vita che non era poi così dolce: “nessuno aveva una lira, semplicemente si pensava solo al futuro, e a quanto era stato fico sopravvivere alla guerra”. In giro per casa Gore Vidal, Kirk Douglas, il barbiere Rocco che viene a tagliare i capelli a domicilio, mentre Beverly cucina meatball e scrive libri di cucina di un certo successo, per sbarcare il lunario. E un vecchio signore che parla inglese con forte accento francese. “Una mattina vedo mio padre che come ogni giorno è intento alla lettura dei suoi quotidiani, e c’era questo vecchietto che gli mostra una macchinetta fotografica e gli dice: la prima regola è non diventare sentimentali col proprio soggetto, you have to be like a killer (Pepper imita perfettamente l’inglese-francese), e il vecchietto  non è altri che Henri Cartier-Bresson. “Ma Possiamo parlare dei deserti, per favore?”, prega Pepper. Un attimo, un attimo. Curtis Bill Pepper era arrivato in Europa con la guerra, controspionaggio e partigiani, poi in bicicletta fino a Firenze e Roma. All’hotel d’Inghilterra incontra Beverly. “Vede questa gnoccona al bar e le offre da bere e la invita a cena. Lei dice che ha già un impegno, e va alla cabina telefonica del bar, e fa finta di telefonare e parla per una decina di minuti con sé stessa per disdire il suo falso appuntamento. Escono a cena ma lui, eravamo in fondo negli anni Quaranta, la riaccompagna in hotel. Si danno appuntamento il giorno dopo, lui arriva in ritardo, lei gli tira una secchiata d’acqua in testa”. 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Arrivi a Todi e ti imbatti in improbabili bandiere iraniane, egiziane, russe, israeliane, che sventolano all’ingresso della città, mentre uno sceicco si aggira vestito da sceicco. Non stanno girando una coproduzione con la Libia, né è in corso un G8 molto nordafricano, si tratta invece di una raffinata mostra-performance intitolata “Inhabited deserts” e che al contrario del titolo è fatta di foto di deserti rigorosamente privi di umani. Proprio deserti. Il fotografo è  John Pepper, non nuovo alla cittadina umbra: ivi in parte è cresciuto, essendo figlio della compianta Beverly, leggendaria artista di land art che lì presidiava un’enclave artistica  famosa. Ma adesso Pepper si reimpossessa dei luoghi con queste cinquantasei foto in bianco e nero realizzate in tre anni di peregrinazioni tra le meglio sabbie del mondo. Diciottomila chilometri tra Stati Uniti, Russia, Oman, Iran, Israele, Egitto e Mauritania, per produrre questo bianco e nero rigorosamente analogico, racconta Pepper, sessantenne, nel suo maglioncione un po’ bucato e un’aria di grandezza decadente tra la Dolce Vita e il West. Fotografo da sempre, questa passione desertica gli è venuta a un certo punto nel Nevada, in un colossale deserto domestico, e poi, racconta, a Dubai si è imbattuto nel suo animale-guida: Max Calderan, il più famoso desertologo vivente, conosciuto per caso al consolato d’Italia. Da lì, parte la sua ricognizione con poche semplici regole: “Niente esseri umani, niente oasi, solo sabbia e ancora sabbia”; e la sabbia torna anche nell’allestimento della mostra, curata da Gianluca Marziani e Kirill Petrin, fortemente voluta da Emmanuele F.M. Emanuele. Mentre si ammirano gli scatti, nella sabbia si possono immergere le mani, e la full immersion desertica a Todi ha visto anche la presenza di un bizzarro personaggio, un vero sceicco, appunto, Ahmed Mohammed Al-Jebali, della tribù Jabaleya, “che protegge il monastero di Santa Caterina sul Sinai da duemilacinquecento anni”. La mostra, che sarà presto pronta per emigrare verso altri lidi, riporta glamour internazionale-mediorientale a Todi con un altro Pepper, artista in proprio in una famiglia “larger than life”. Il padre Bill è stato infatti un celebre corrispondente di Newsweek da Roma. La sorella Jorie Graham, premio Pulitzer, è una delle poetesse più importanti d’America. E la mamma, Beverly Pepper, era…Beverly Pepper. Peccato che è morta a febbraio, non ha fatto in tempo a vedere la mostra. “Ha avuto sempre un timing perfetto, avrebbe odiato questo Covid”, dice il figlio desertologo. La famiglia Pepper è una meravigliosa incubatrice di storie nella Roma del Dopoguerra, tra postumi di una Dolce vita che non era poi così dolce: “nessuno aveva una lira, semplicemente si pensava solo al futuro, e a quanto era stato fico sopravvivere alla guerra”. In giro per casa Gore Vidal, Kirk Douglas, il barbiere Rocco che viene a tagliare i capelli a domicilio, mentre Beverly cucina meatball e scrive libri di cucina di un certo successo, per sbarcare il lunario. E un vecchio signore che parla inglese con forte accento francese. “Una mattina vedo mio padre che come ogni giorno è intento alla lettura dei suoi quotidiani, e c’era questo vecchietto che gli mostra una macchinetta fotografica e gli dice: la prima regola è non diventare sentimentali col proprio soggetto, you have to be like a killer (Pepper imita perfettamente l’inglese-francese), e il vecchietto  non è altri che Henri Cartier-Bresson. “Ma Possiamo parlare dei deserti, per favore?”, prega Pepper. Un attimo, un attimo. Curtis Bill Pepper era arrivato in Europa con la guerra, controspionaggio e partigiani, poi in bicicletta fino a Firenze e Roma. All’hotel d’Inghilterra incontra Beverly. “Vede questa gnoccona al bar e le offre da bere e la invita a cena. Lei dice che ha già un impegno, e va alla cabina telefonica del bar, e fa finta di telefonare e parla per una decina di minuti con sé stessa per disdire il suo falso appuntamento. Escono a cena ma lui, eravamo in fondo negli anni Quaranta, la riaccompagna in hotel. Si danno appuntamento il giorno dopo, lui arriva in ritardo, lei gli tira una secchiata d’acqua in testa”. 

PUBBLICITÁ

 

 

PUBBLICITÁ

“Ma ti prego, non parliamo di loro, ci ho messo una vita per non essere considerato solo il figlio di”, dice Pepper, che oggi finalmente è in Italia, orfano, e libero. Si è sempre sentito un fotografo, in fondo, riflette, anche se ha fatto tante altre cose: e c’è una famosa foto di lui a dieci anni che parla con Paolo VI, di fotografia. Sospira. Ancora questa storia. “Era amico di famiglia, vidi passare la berlina del papa, il papa si fermò. Mi disse: vuoi davvero fare questo? Allora ti do la mia benedizione”. Il bambino Pepper si divertiva molto in quella Roma lì, con quella famiglia scombinata: “a Fregene, i miei si stavano rilassando dopo vari martini e le vongole da Mastino, e io coi piedi in acqua vengo abbordato da un signore che in inglese mi dice: ma guarda che bel bambino! Sei proprio grazioso. Ti piacerebbe fare il cinema?”. Il bambino Pepper che “è un bambino, ma non è mica fesso”, dice: certo, parlate pure coi miei genitori, eccoli là, e quello imprevedibilmente ci va davvero a parlare: niente pedofilie, dunque, è invece un emissario del più colossale show che si sia mai visto in città: la realizzazione di Cleopatra, Hollywood sul Tevere in purezza, starring Liz Taylor e Richard Burton, “e mi fanno fare Cesarione, il figlio di Cesare e Cleopatra”. “Per dei mesi una macchina della produzione mi viene a prendere e mi porta a Cinecittà. Il bambino nella macchina della produzione attraversa questa Roma deserta, un po’ perché era spopolata, un po’ perché “tutti lavoravano a Cleopatra”. “Poi giriamo la scena della sfinge che entra: siamo su una piattaforma issata in alto, con tre schiavi che la reggono da una parte e tre dall’altra. Io seduto con le gambe incrociate ai piedi della regina, facciamo mesi di prove con una controfigura. Alla fine arriva lei, una apparizione: era la persona più famosa del mondo. Fa caldissimo e lei ha un assurdo maglione a collo alto. Parte il ciak, ma gli schiavi di destra si alzano improvvisamente e la piattaforma inizia a traballare e lei si mette a urlare ‘Dick! Dick!’, come un’indemoniata, a Richard Burton che è sotto.  Il bambino Pepper le dice: signora, non abbia paura, anche noi eravamo spaventati all’inizio, ma è tutto ok, e la diva col maglione si gira e lo fulmina: ragazzino, fatti i fatti tuoi (e dopo anni, quando Pepper, in una delle sue tante incarnazioni, reincontrerà la diva a una cena a Hollywood, lei gli farà una dedica: “a John, il miglior figlio che abbia mai avuto”, “che non fu prova di grande sensibilità, dato che l’altro figlio della Taylor era morto suicida). Ma parliamo dei deserti?”. Sì, sì, ora ne parliamo. Il bambino Pepper era trattato come un adulto. “Non so: mio padre partiva per il Sudafrica per un articolo sul chirurgo Barnard, doveva rimanere due settimane e ci rimane sei mesi: poi quando ho visto le ragazze sudafricane ho capito. Mia madre invece stava mesi a New York, a preparare delle mostre. Istruzioni prima di partire: “No more than two luncheon parties and one dinner party a week”. Non dare più di due pranzi e una cena alla settimana. Non tutti avevano esattamente idea dell’età di questo bambino, tra l’altro.

  

“Io mi aumentavo un po’ gli anni, così mia madre era convinta che ne avessi tredici e non undici. Se ne accorse quando per andare in settimana bianca dico che devo pagare il biglietto intero e non il ridotto, e lei si lamenta con una sua amica. Risposta dell’amica: “Ma Beverly, i nostri figli sono nati a un mese di distanza, la mia ne ha 11, come fa John ad avere 13 anni!”. A dodici finge di averne 14, per avere il vespino. A quattordici, il salto di qualità: il bambino Pepper decide che è ora di avere un tavolo al Number One, un primario nightclub di via Veneto. “Io tornavo a casa, facevo i compiti, cenavo davanti alla tv. Poi alle dieci spegnevo, andavo nel guardaroba di mio padre, che aveva la mia stessa taglia, mi mettevo un bel vestito elegante e uscivo. Tutte le sere. Dopo sei mesi di uscite serali, viene convocato dalla direzione del night, ‘dottor Pepper’, (al bambino), ‘dovremmo chiudere i conti del semestre’. Erano cinque milioni, una cifra notevole per l’epoca. Non sapevo come far fronte, neanche vendendo tutti i gioielli “de mi madre”, scherza in romanenglish. Miracolosamente, mentre cresce l’angoscia per quel conto, scoppia la famosa inchiesta per droga che chiude il Number One. Lui improvvisamente è libero e riprende la sua vita di bambino: a studiare, al liceo francese Châteaubriand: compagni di scuola le sorelle Comencini e i fratelli Vanzina. Ma pochi giorni dopo torna a casa e trova i genitori seduti in salotto: we gotta talk. Crede d’essere stato infine scoperto, ma salta fuori che per lui è meglio cambiare un po’ aria, ci sono minacce, problemi politici, “essere il corrispondente di Newsweek in quegli anni era come essere un po’ l’ambasciatore americano”. Il bambino è meglio che se ne vada per un po’. “Dove vorresti andare? Dicci un paese che ci piace e puoi partire domani”. Lui dice: “Israele”, e parte, quattro mesi, da solo, a quattordici anni. La sorella Jorie Graham, poetessa pluriacclamata (“le è andata bene, poteva o finire in manicomio o prendere il Pulitzer, ha preso il Pulitzer”), per lui troppo politicamente corretta - “c’era a colazione da noi Zadie Smith e io l’ho accomodata alla mia destra, come vuole la buona educazione, e devo averle stretto la mano troppo a lungo o qualcosa di simile, forse toccato un polso, e mia sorella il giorno dopo mi ha detto se ero pazzo, che avevo gettato tutti nella costernazione! Fuck politically correct americano!”). Un po’ Chatwin, un po’ Barney Panofsky, un po’ Sordi nell’episodio dell’esploratore solitario, Pepper tra i suoi record annovera anche quello di massima permanenza al ristorante il Bolognese, “dall’una di pomeriggio a mezzanotte e mezza, e credo una quindicina di bottiglie di vino. Con la mia seconda moglie, che fu invece una questione molto breve”.

  

PUBBLICITÁ

  

PUBBLICITÁ

Ancora l’infanzia infinita: se andava male a scuola, la mamma gli diceva “Don’t worry. You’re going to be a late bloomer”. Però poi entra a Princeton, si laurea in storia dell’arte con una tesi sul Pollaiolo, ma invece che continuare con l’arte torna a Roma e fa una totally unnecessary production: “Io, Caligola”, il disastro porno-peplum scritto da Gore Vidal e poi fatto da Tinto Brass. “Ho visto coi miei occhi Romy Schneider che arriva sul set, parla con Brass per un’ora, e poi riprende il taxi e se ne va per sempre”. Poi torna in America, a Hollywood, sempre un po’ in fuga dalla famiglia tentacolare. Vuole fare sul serio, “e mi spiegano che per capire veramente il cinema devi fare l’agente”, allora viene preso in una fondamentale agenzia di talenti losangelina, deciso alla scalata hollywoodiana, ma un giorno arriva una telefonata della mamma, che l’ha stanato pure lì. “E’ tua mamma!”, dicono in ufficio. E’ la fine. “Bill, a casa nostra non facciamo gli agenti. A casa nostra gli agenti li assumiamo”. Poi scappa a New York perché capisce che vuol fare teatro. “Non ho un centesimo, metto su una compagnia in un basement. Ma capisco presto che con gli attori basta avere il frigo pieno: dargli da mangiare di giorno e da bere la sera, e il biglietto della metropolitana per tornare a casa. E loro il giorno dopo tornano sempre”. Finché una sera in sala c’è Katharine Hepburn: e la vecchia signora: ‘Un piccolo consiglio, young man. La commedia vuole il teatro freddo. Anzi, molto freddo. Se fa caldo il pubblico si addormenta. Se fa freddo invece ride’”. Da quel momento, termostato al minimo.

 

PUBBLICITÁ

Farà poi in tempo a fare l’aiuto regista in Ghostbusters, a una leggenda del cinema come Losey, a produrre il film La Peste (dal romanzo di Camus) con William Hurt e Robert Duvall. Produce anche due figli e due matrimoni, si stabilisce un anno in Argentina e poi venti a Parigi. Sempre fotografando, con mostre in giro per il mondo tra Francia e Stati Uniti e Emirati e Russia, in peregrinazioni che finalmente lo riportano in Italia, a Todi. Adesso vive a Palermo, finalmente pacificato, forse.  E parliamo dei deserti, sì, e forse non c’è bisogno di scomodare la psicanalisi per capire che magari solo nei deserti Pepper ha trovato la sua arte e la sua pace: finalmente senza l’affollata famiglia e senza prestigiosi genitori (e però, il catalogo dei deserti è dedicato alla me- moria della cara mamma).

PUBBLICITÁ