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“Vecchio maschio bianco occidentale, pentiti”. Pascal Bruckner sul nuovo capro espiatorio

"Un coupable presque parfait", il nuovo libro del saggista francese, contro le derive antirazziste e femministe

Giulio Meotti

"Sarebbe meglio essere scuri che pallidi, omosessuali o transgender che eterosessuali, donne piuttosto che uomini, musulmani anziché ebrei o cristiani, africani, asiatici e nativi piuttosto che occidentali” 

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Pascal Bruckner, da ideale rappresentante del “vecchio maschio bianco eterosessuale e occidentale”, rifiuta di fare da “capro espiatorio”. Quello raccontato nel suo nuovo libro per Grasset, “Un coupable presque parfait”, anticipato ieri dal Figaro. Per l’autore de “Il singhiozzo dell’uomo bianco” e de “La tirannia della penitenza”, è come se, volendo combattere i vecchi demoni dell’occidente, un certo progressismo li avesse resuscitati. Bruckner ha paura di una società tribalizzata in preda alla lotta di “generi”, “razze” e “comunità”. Già nel 1983, con la pubblicazione del “Sanglot”, Bruckner ruppe con una certa sinistra che contrapponeva un sud radioso e idealizzato a un nord rapace e opprimente. Era l’immagine del Terzo mondo come luogo di tutti gli orrori legati alla prosperità occidentale: con la nostra voracità e il nostro consumismo noi occidentali affamiamo le masse dell’India e del Sahel; le proteine vegetali che distruggiamo per ingrassare vitelli e maiali, usate diversamente basterebbero a sfamare milioni di esseri umani che invece muoiono di stenti. La televisione ci bombarda di immagini raccapriccianti dei decimati da fame e malattie. Ma i visi e i corpi di questi esseri umani concreti diventano emblemi, proiezioni della nostra mente.

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Pascal Bruckner, da ideale rappresentante del “vecchio maschio bianco eterosessuale e occidentale”, rifiuta di fare da “capro espiatorio”. Quello raccontato nel suo nuovo libro per Grasset, “Un coupable presque parfait”, anticipato ieri dal Figaro. Per l’autore de “Il singhiozzo dell’uomo bianco” e de “La tirannia della penitenza”, è come se, volendo combattere i vecchi demoni dell’occidente, un certo progressismo li avesse resuscitati. Bruckner ha paura di una società tribalizzata in preda alla lotta di “generi”, “razze” e “comunità”. Già nel 1983, con la pubblicazione del “Sanglot”, Bruckner ruppe con una certa sinistra che contrapponeva un sud radioso e idealizzato a un nord rapace e opprimente. Era l’immagine del Terzo mondo come luogo di tutti gli orrori legati alla prosperità occidentale: con la nostra voracità e il nostro consumismo noi occidentali affamiamo le masse dell’India e del Sahel; le proteine vegetali che distruggiamo per ingrassare vitelli e maiali, usate diversamente basterebbero a sfamare milioni di esseri umani che invece muoiono di stenti. La televisione ci bombarda di immagini raccapriccianti dei decimati da fame e malattie. Ma i visi e i corpi di questi esseri umani concreti diventano emblemi, proiezioni della nostra mente.

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“La novità assoluta ora è che sono i ‘bianchi’ in Europa e negli Stati Uniti, appartenenti alle classi agiate, a maledirsi a vicenda, denunciano ‘l’insopportabile bianchezza della nostra cultura’ e usano il colore della pelle per dimostrare la propria infamia. L’odio dell’uomo bianco è prima di tutto un odio di se stessi da parte del ricco uomo bianco”. Il “nuovo capro espiatorio” implica la deviazione di tre nobili cause occidentali: femminismo, antirazzismo e anticolonialismo. “E’ in corso una vasta impresa di rieducazione, all’università, sui media, che chiede a chi viene definito ‘bianco’ di rinnegare se stesso”. Se il femminismo tradizionale era universalista e inteso a stabilire l’uguaglianza sia economica sia simbolica, “il neofemminismo è apertamente separatista, persino suprematista e mette i sessi l’uno contro l’altro”. Il #MeToo? “Godimento iconoclasta nel demolire certe figure maschili note”, scrive Bruckner, anche se la giustizia le avrebbe prosciolte (Philippe Caubère, Luc Besson, Woody Allen). “Il femminismo del progresso è diventato il femminismo dei processi”. L’antirazzismo del passato difendeva l’idea di un’umanità comune. “Il nuovo antirazzismo esaspera le identità, si concentra sul colore della pelle e addirittura resuscita il concetto di razza che si credeva abolito”, da veri nostalgici del conte de Gobineau. 


Denigriamo i “volti di gesso”, i bianchi, per celebrare altri colori della pelle attribuendogli ogni virtù. L’antirazzismo fa il paio con  l’anticolonialismo che è tanto più delirante e virulento poiché il colonialismo non esiste più. Dobbiamo decolonizzare i paesi occidentali dall’interno, liberarli dai  pregiudizi storici e culturali. “L’ultima volta che abbiamo sperimentato la propaganda razziale è stato con il fascismo negli anni 30: la squalifica a priori di parte della popolazione. Siamo stati vaccinati, grazie. Ma ci torna indietro dall’Atlantico mascherato da antirazzismo”. Per noi esistere è prima di tutto espiare. In fondo alla gerarchia c’è il maschio eterosessuale bianco occidentale. “Al vertice, nere o arabe o indiane, lesbiche o queer, la nuova regina dell’universo. Così tutte le donne sono in pericolo, a Raqqa come a Beverly Hills, a Goma come nel settimo arrondissement di Parigi”. 

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Secondo questi nuovi pregiudizi, “sarebbe meglio essere scuri che pallidi, omosessuali o transgender che eterosessuali, donne piuttosto che uomini, musulmani anziché ebrei o cristiani, africani, asiatici e nativi piuttosto che occidentali”. E i media si prestano, generosissimi, a questo maquillage ideologico. “La ghigliottina mediatica gira a tutta velocità e, come l’altra, ha sete di nuove teste da tagliare”. Non ci sono più capolavori, “solo le opere dei capi della propaganda occidentale, da Cervantes a Faulkner”. Dovremo riscrivere tutte le tragedie classiche, quelle dei greci, di Shakespeare o di Racine, perché incitano al femminicidio o assegnano un ruolo negativo a una persona non bianca, come Otello? “Amici censori, al lavoro, il compito è gigantesco!”.

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