PUBBLICITÁ

Guston? Vado al MAXXI

“Non possono mai esserci ‘tempi migliori’ per fruire dell’arte libera”. Parla Giovanna Melandri

PUBBLICITÁ

“La mostra che rischia di essere rimandata di quattro anni per via delle polemiche sulla rappresentazione del cappuccio del Ku Klux Klan? Ma certo che l’avrei ospitata al MAXXI”. Dal 2012 presidente della Fondazione del Museo delle Arti del XXI secolo, dopo essere stata anche ministro dei Beni e delle Attività culturali, Giovanna Melandri risponde sul principio senza esitazione alla domanda se offrirebbe asilo a Philip Guston nella sua istituzione, ma mettendo poi al condizionale proprio perché ha una grande esperienza dei problemi concreti che queste iniziative comportano. “Ogni mostra è un progetto di ricerca, e questo progetto di ricerca avrebbe dovuto essere ospitato da quattro istituzioni internazionali. Che abbiano deciso di rinviarla di quattro anni è una cosa molto stupida, ma non è che noi possiamo mettere su in quattro e quattr’otto una cordata tra quattro istituzioni europee per scippargliela. Posso dire che al loro posto non avrei interrotto quel progetto, e che spero in un ripensamento”.
  
In Italia peraltro Guston c’è stato… “Anche due anni fa, senza suscitare tutti questi problemi. Proprio perché alcuni protagonisti di questa vicenda sono colleghi che conosco, rispetto, stimo e con cui mi è capitato anche di collaborare, ho cercato di studiare bene le motivazioni della loro decisione. Ma non c’è niente da fare. ‘Attendere tempi migliori perché questa mostra possa essere meglio interpretata’, è una frase assolutamente infelice e sbagliata. Non possono mai esserci ‘tempi migliori’ per fruire di un’arte veramente libera da tutto, anche dalle follie del politicamente corretto. Ma è evidentemente frutto del clima folle e isterico che gli Stati Uniti stanno vivendo, con questa campagna elettorale avvelenata, e da cui sembra contagiato anche il Regno Unito. Per fortuna l’Europa non è ancora stata contagiata da questi estremismi anglosassoni”.
 
Come mai? “Al di là di questa mostra, c’è probabilmente nelle istituzioni culturali americane il problema di una élite e di una struttura di potere che è a predominanza bianca. Il senso di questo documento è che quattro curatori bianchi non si sentono le spalle abbastanza coperte per portare avanti questo progetto, e aspettano di poter forse mettere nel catalogo abbastanza afroamericani da bilanciare”.
 
Cioè, in materia razziale élite e istituzioni Usa hanno una coda di paglia talmente monumentale da assumere il torto anche quando avrebbero ragione… “In un certo senso, sì. Il tema vero è la struttura di potere che regola le grandi scelte dell’industria culturale americana. Lì un po’ di cambiamenti ci vorranno sicuramente, in un modello che è molto basato sul rapporto con il mercato. E’ un modello che ha anche i suoi vantaggi rispetto al modello tutto statalista, ma forse la cosa migliore sarebbe trovare un modello misto. Che è quello che stiamo provando a sperimentare in Italia, tra Biennale, Triennale e MAXXI”.
 
E ci stanno ripensando sulla pelle di Guston… “Non è assolutamente giusto, proprio perché Guston sapeva benissimo che cosa è l’odio razziale. Veniva da una famiglia di emigranti ebrei scappati ai pogrom, ed era un grandissimo artista che si è voluto mettere nella forma del male. E’ pazzesco che non basti. Ripeto, in Europa una cosa del genere non può succedere. Le istituzioni europee rappresentano ancora uno spazio di libertà in cui il politicamente corretto non può diventare una ossessione”. Peraltro, stando a questo principio, allora anche una mostra sulla serie di Renato Guttuso “Gott mit uns”, che rappresentava le SS, avrebbe potuto essere rinviata per evitare accuse di “apologia di nazismo”. “Infatti Guston quella serie di Guttuso la conosceva, e probabilmente la tenne presente. Guston inizia come espressionista astratto, ma poi torna alla figurazione, e finisce per immaginare sé stesso sotto quei cappucci. E lo fa perché vuole indagare sulle ragioni del male. Sulla banalità del male, per dirla con Hanna Arendt”.
 
Siamo alle origini della cultura occidentale. Platone secondo cui gli artisti devono essere banditi dalla sua Repubblica, perché la rappresentazione del male che si fa in poesia e a teatro corrompe. La risposta di Aristotele, secondo cui la rappresentazione del male è catartica. E la democrazia che nasce appunto dall’idea che il confitto non vada necessariamente combattuto ma può semplicemente essere rappresentato nelle assemblee, come si fa con il male in teatro. “Forse Platone è più complesso. Il mito della caverna ci mostra che secondo lui sia il male che il bene sono ombra di una verità che è al di là del bene e del male. Però è vero che rappresentare il conflitto nella libertà dell’arte è da sempre una delle grandi capacità salvifiche di trascendere quel conflitto, e che l’arte è catarsi. Per questo è veramente assurda e mostruosa l’idea di non poter rappresentare quella catarsi e non poter usufruire dell’effetto che quella catarsi può produrre. Piuttosto si combatta il razzismo e l’ignoranza, rafforzando la dimensione catartica, sociale e educativa”.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


“La mostra che rischia di essere rimandata di quattro anni per via delle polemiche sulla rappresentazione del cappuccio del Ku Klux Klan? Ma certo che l’avrei ospitata al MAXXI”. Dal 2012 presidente della Fondazione del Museo delle Arti del XXI secolo, dopo essere stata anche ministro dei Beni e delle Attività culturali, Giovanna Melandri risponde sul principio senza esitazione alla domanda se offrirebbe asilo a Philip Guston nella sua istituzione, ma mettendo poi al condizionale proprio perché ha una grande esperienza dei problemi concreti che queste iniziative comportano. “Ogni mostra è un progetto di ricerca, e questo progetto di ricerca avrebbe dovuto essere ospitato da quattro istituzioni internazionali. Che abbiano deciso di rinviarla di quattro anni è una cosa molto stupida, ma non è che noi possiamo mettere su in quattro e quattr’otto una cordata tra quattro istituzioni europee per scippargliela. Posso dire che al loro posto non avrei interrotto quel progetto, e che spero in un ripensamento”.
  
In Italia peraltro Guston c’è stato… “Anche due anni fa, senza suscitare tutti questi problemi. Proprio perché alcuni protagonisti di questa vicenda sono colleghi che conosco, rispetto, stimo e con cui mi è capitato anche di collaborare, ho cercato di studiare bene le motivazioni della loro decisione. Ma non c’è niente da fare. ‘Attendere tempi migliori perché questa mostra possa essere meglio interpretata’, è una frase assolutamente infelice e sbagliata. Non possono mai esserci ‘tempi migliori’ per fruire di un’arte veramente libera da tutto, anche dalle follie del politicamente corretto. Ma è evidentemente frutto del clima folle e isterico che gli Stati Uniti stanno vivendo, con questa campagna elettorale avvelenata, e da cui sembra contagiato anche il Regno Unito. Per fortuna l’Europa non è ancora stata contagiata da questi estremismi anglosassoni”.
 
Come mai? “Al di là di questa mostra, c’è probabilmente nelle istituzioni culturali americane il problema di una élite e di una struttura di potere che è a predominanza bianca. Il senso di questo documento è che quattro curatori bianchi non si sentono le spalle abbastanza coperte per portare avanti questo progetto, e aspettano di poter forse mettere nel catalogo abbastanza afroamericani da bilanciare”.
 
Cioè, in materia razziale élite e istituzioni Usa hanno una coda di paglia talmente monumentale da assumere il torto anche quando avrebbero ragione… “In un certo senso, sì. Il tema vero è la struttura di potere che regola le grandi scelte dell’industria culturale americana. Lì un po’ di cambiamenti ci vorranno sicuramente, in un modello che è molto basato sul rapporto con il mercato. E’ un modello che ha anche i suoi vantaggi rispetto al modello tutto statalista, ma forse la cosa migliore sarebbe trovare un modello misto. Che è quello che stiamo provando a sperimentare in Italia, tra Biennale, Triennale e MAXXI”.
 
E ci stanno ripensando sulla pelle di Guston… “Non è assolutamente giusto, proprio perché Guston sapeva benissimo che cosa è l’odio razziale. Veniva da una famiglia di emigranti ebrei scappati ai pogrom, ed era un grandissimo artista che si è voluto mettere nella forma del male. E’ pazzesco che non basti. Ripeto, in Europa una cosa del genere non può succedere. Le istituzioni europee rappresentano ancora uno spazio di libertà in cui il politicamente corretto non può diventare una ossessione”. Peraltro, stando a questo principio, allora anche una mostra sulla serie di Renato Guttuso “Gott mit uns”, che rappresentava le SS, avrebbe potuto essere rinviata per evitare accuse di “apologia di nazismo”. “Infatti Guston quella serie di Guttuso la conosceva, e probabilmente la tenne presente. Guston inizia come espressionista astratto, ma poi torna alla figurazione, e finisce per immaginare sé stesso sotto quei cappucci. E lo fa perché vuole indagare sulle ragioni del male. Sulla banalità del male, per dirla con Hanna Arendt”.
 
Siamo alle origini della cultura occidentale. Platone secondo cui gli artisti devono essere banditi dalla sua Repubblica, perché la rappresentazione del male che si fa in poesia e a teatro corrompe. La risposta di Aristotele, secondo cui la rappresentazione del male è catartica. E la democrazia che nasce appunto dall’idea che il confitto non vada necessariamente combattuto ma può semplicemente essere rappresentato nelle assemblee, come si fa con il male in teatro. “Forse Platone è più complesso. Il mito della caverna ci mostra che secondo lui sia il male che il bene sono ombra di una verità che è al di là del bene e del male. Però è vero che rappresentare il conflitto nella libertà dell’arte è da sempre una delle grandi capacità salvifiche di trascendere quel conflitto, e che l’arte è catarsi. Per questo è veramente assurda e mostruosa l’idea di non poter rappresentare quella catarsi e non poter usufruire dell’effetto che quella catarsi può produrre. Piuttosto si combatta il razzismo e l’ignoranza, rafforzando la dimensione catartica, sociale e educativa”.

PUBBLICITÁ