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Roma di scandalo e follia

Andrea Minuz

Un film senza trama, senza star, senza un protagonista. È il capolavoro di Federico Fellini

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Il 7 maggio 2018, al Metropolitan Museum di New York, si inaugurava con una grande parata di star e celebrity la mostra “Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination”. Il red carpet fu uno degli eventi più sensazionali dell’anno. Il cardinal Ravasi era fotografato tra Anne Wintour e Donatella Versace, Jennifer Lopez sfoggiava una grande croce di pietre preziose ricamata sul petto, Katy Perry sfilava con due ali d’angelo sulla schiena, Madonna in velo nero con croce luccicante e corona di spine, Rihanna aveva in testa una mitria papale disegnata da Galliano. I visitatori della mostra potevano ammirare cimeli provenienti dalla Città del Vaticano: pregiate vesti papali, talari, accessori preziosi conservati nella sacrestia della Cappella Sistina, tutto messo a confronto con le creazioni dei più grandi stilisti, ispiratisi più o meno direttamente alla ritualità della chiesa. Nella grande sala centrale all’ingresso, un piccolo televisore trasmetteva in loop la sequenza del défilé ecclesiastico di “Roma”, di Federico Fellini. Il cortocircuito tra l’immaginario felliniano, l’evento mondano, la cronaca era assoluto. Tutte le sovrapposizioni possibili tra il glamour, la moda, la religione erano già in quelle immagini che, peraltro, portavano a compimento un’operazione già avviata ai tempi de “La dolce vita”, con l’abito talare sfoggiato da Anita Ekberg, rielaborazione felliniana di una celebre creazione delle sorelle Fontana per Ava Gardner. Già alla fine degli anni Cinquanta, André Bazin aveva ben colto l’importanza di abiti e accessori nel cinema di Fellini: “I suoi personaggi”, scriveva il fondatore dei “Cahiers du cinéma”, “non si definiscono mai per il loro carattere ma esclusivamente per la loro apparenza. Non li cogliamo solo dal volto, dal passo, da tutto ciò che fa del corpo la scorza dell’essere, ma più ancora, forse, da degli indizi più esteriori, dalla frontiera tra l’individuo e il mondo, come i capelli, i baffi, il vestito, gli occhiali”. Come gli occhiali scuri del cardinale della sfilata di “Roma”.

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Il 7 maggio 2018, al Metropolitan Museum di New York, si inaugurava con una grande parata di star e celebrity la mostra “Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination”. Il red carpet fu uno degli eventi più sensazionali dell’anno. Il cardinal Ravasi era fotografato tra Anne Wintour e Donatella Versace, Jennifer Lopez sfoggiava una grande croce di pietre preziose ricamata sul petto, Katy Perry sfilava con due ali d’angelo sulla schiena, Madonna in velo nero con croce luccicante e corona di spine, Rihanna aveva in testa una mitria papale disegnata da Galliano. I visitatori della mostra potevano ammirare cimeli provenienti dalla Città del Vaticano: pregiate vesti papali, talari, accessori preziosi conservati nella sacrestia della Cappella Sistina, tutto messo a confronto con le creazioni dei più grandi stilisti, ispiratisi più o meno direttamente alla ritualità della chiesa. Nella grande sala centrale all’ingresso, un piccolo televisore trasmetteva in loop la sequenza del défilé ecclesiastico di “Roma”, di Federico Fellini. Il cortocircuito tra l’immaginario felliniano, l’evento mondano, la cronaca era assoluto. Tutte le sovrapposizioni possibili tra il glamour, la moda, la religione erano già in quelle immagini che, peraltro, portavano a compimento un’operazione già avviata ai tempi de “La dolce vita”, con l’abito talare sfoggiato da Anita Ekberg, rielaborazione felliniana di una celebre creazione delle sorelle Fontana per Ava Gardner. Già alla fine degli anni Cinquanta, André Bazin aveva ben colto l’importanza di abiti e accessori nel cinema di Fellini: “I suoi personaggi”, scriveva il fondatore dei “Cahiers du cinéma”, “non si definiscono mai per il loro carattere ma esclusivamente per la loro apparenza. Non li cogliamo solo dal volto, dal passo, da tutto ciò che fa del corpo la scorza dell’essere, ma più ancora, forse, da degli indizi più esteriori, dalla frontiera tra l’individuo e il mondo, come i capelli, i baffi, il vestito, gli occhiali”. Come gli occhiali scuri del cardinale della sfilata di “Roma”.

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Non è difficile riconoscere che senza questo film gran parte dell’immaginario artistico e mediatico sulla chiesa cattolica, da “Habemus Papam” di Nanni Moretti a “The Young Pope” di Paolo Sorrentino non avrebbe mai potuto svilupparsi. Più che omaggio, citazione, propagazione, la serie di Sorrentino si offre, ad esempio, come un vero e proprio spin-off dell’invenzione felliniana, riletta però dentro l’immaginario della cultura pop, lontano dal registro mortuario, catacombale, che emana la scena di “Roma”. A distanza di un anno dalla sua uscita, “L’Osservatore Romano”, tornava sulle serie di Sorrentino con parole che avrebbero potuto essere usate in modo intercambiabile per il défilé felliniano: “La serie è stata immancabilmente tacciata d’irriverenza e di blasfemia in ambienti cattolici”, scriveva Juan Manuel De Prada, “indubbiamente, sotto certi aspetti, lo è; ma in modo paradossale. Nonostante il suo trattamento frivolo dei dogmi della fede cattolica e il suo sguardo caustico sulla curia vaticana non siano esenti da perfidie, non si può negare che in Sorrentino tale atteggiamento conviva con un’arrendevole ammirazione per la chiesa”.

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L’intreccio di iconoclastia, critica sarcastica e “arrendevole ammirazione per la chiesa” è lo specifico contributo che il cinema di Fellini ha dato al nostro immaginario. Dal Cristo in elicottero de “La dolce vita” alla sfilata di moda ecclesiastica in “Roma”, Fellini ha intercettato con grande anticipo la progressiva folklorizzazione della vita spirituale che attraversava la società degli anni Sessanta, lo slittamento dei simboli religiosi dentro altri orizzonti di senso. Siamo dalle parti del “cristianesimo in frantumi”, di Michel De Certeau, di una religione ormai ridotta a una forma di “esotismo culturale”. “Nel corpus di riti cristiani migrati nell’arte e nell’estetica non si testimonia più una verità consegnata alla fede cristiana”, diceva il gesuita-antropologo, ma si esprimono al contrario “le rovine ammirabili di una simbolica che apre a ogni possibilità di invenzione e espressione”. Anche a dei cardinali vestiti da flipper che sfilano in una folle passerella di moda.

 

Se i preti del collegio di “8½” o i tentativi di contenimento delle turbolenze erotiche dell’adolescenze in “Amarcord” rimandano alla critica di un’educazione religiosa repressiva (e celebrano anzitutto “l’italianità” di Fellini), il défilé ecclesiastico apre altre strade. Analizzando questa sequenza non si può non tenere conto di una critica sin troppo letterale dello sfarzo della religione, del distacco dal messaggio del Vangelo, della decrepitezza dell’istituzione ecclesiastica. Evocando l’intreccio leopardiano di moda e morte, nella sua recensione di “Roma”, Moravia scriveva: “Fellini con questa sfilata ci dice, tra il serio e il faceto, che la chiesa è ormai nient’altro che cerimonia e addobbo, senza più alcun contenuto. La corruzione spiega il vuoto della chiesa; a sua volta il vuoto della chiesa spiega la corruzione”. Ma a distanza di mezzo secolo s’intravedono anche altri significati. Vista nel 2018, al Metropolitan Museum di New York, tra gli abiti di Chiesa e le più fantasiose creazioni della haute couture, la passerella di “Roma” lascia intravedere un possibile scambio di ruoli tra la religione e la moda. Al di là dell’unione di sacro e profano, nella graduale scomparsa dei corpi negli abiti che sfilano in un crescendo di luce, fino all’apparizione abbagliante del papa felliniano, si esprime anche l’avvio di un processo inverso, più attuale oggi che allora. Un processo che conduce dall’estetizzazione della sfera religiosa alla sacralizzazione della moda, spazio simbolico e “frontiera tra l’individuo e il mondo” sempre più decisivo per il nostro immaginario. Non è solo la logica dell’effimero che investe e coinvolge la chiesa. Ma la ricerca di un’aura di sacralità che alimenta l’industria della moda. Non si contano, d’altro canto, sfilate e collezioni che si ispirano a Fellini. Al di là delle creazioni, colpisce soprattutto il recupero esplicito della “Roma felliniana” nell’allestimento, nella messa in scena degli eventi: Moschino presenta la sua collezione in uno studio di Cinecittà dove è stata ricostruita “una sala da ballo decadente costellata dalle rovine e dalle colonne delle Terme di Caracalla”; per i suoi novant’anni, Fendi organizza una sfilata celebrativa che si snoda su una passerella trasparente, allestita sopra l’acqua della fontana di Trevi, mentre la collezione “Cruise 2020” di Gucci è presentata tra i marmi dei musei capitolini, in un intreccio di camp sfrenato e romanità antica che sembra uscito fuori da “Fellini-Satyricon”. Alla fine degli anni Ottanta, Omar Calabrese, in quel testo decisivo per l’estetica del decennio che è “L’età neobarocca”, utilizzava “la magistrale scena della sfilata di moda ecclesiastica in Roma” come emblema della supremazia dell’effimero, “della cosiddetta ricerca del look, ampiamente favorita dagli sviluppi attuali della moda, e della rinascita delle grandi feste di corte, un tempo appannaggio dell’aristocrazia di sangue, o oggi rimesse in circolazione dalle più varie nuove aristocrazia”. “Non per nulla”, diceva Calabrese, “attorno a queste pratiche, nascono persino nuovi mestieri, come quello di architetto delle feste, designer dei piatti di cucina”. Ma al di là di tutte le letture e le interpretazioni possibili, il défilé felliniano è soprattutto un pezzo di pura invenzione coreografica, l’unico momento di “Roma” dove le immagini si fondono con la musica di Nino Rota, anziché con i clacson, le campane, i rumori dei lavori della metropolitana o il rombo delle motociclette nella scorribanda finale del film. Come ricorda Gianfranco Angelucci, “Fellini chiese a Nino Rota di preparare un accompagnamento musicale adatto alla coreografia: un movimento volteggiante, una alata, farsesca parodia misticheggiante che evolve in cupa e luttuosa liturgia. Su quel motivo Gino Landi aveva organizzato lo stravagante spettacolo danzante dei suoi ballerini che indossavano i costumi curiali creati da Danilo Donati con sfrenata fantasia iconoclasta”. Nel viene fuori, “una summa per folgorazioni della storia della chiesa”, una “parata di reduci sconfitti”, con un pubblico per metà composto da sagome e manichini, come in un Museo delle Cere. Ecco quindi l’ultima parte della sfilata dedicata alle reliquie, con il défilé che muta lentamente in percorso mortuario, una processione funebre, in uno sventolio di veli neri, teschi, ossa, che prelude all’apoteosi dell’apparizione papale. Un papa che Fellini fa interpretare a Guglielmo Guasta, celebre direttore della rivista umoristica, “Il Travaso”, con cui Fellini collaborò in gioventù come vignettista. Il sortilegio felliniano è compiuto. “Quando Roma uscì, nell’agitato clima post-sessantottesco”, scrive Aldo Tassone nel suo ultimo lavoro dedicato a Felli, “qualcuno preferì gli attacchi più diretti al papato contenuti in film come ‘L’udienza’ di Marco Ferreri. Con il tempo però la potenza satirica, l’incomparabile originalità poetica del défilé ecclesiastico di Roma è emersa sempre di più”.

 

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“Roma” non incontrò subito il suo pubblico. Non era incorniciato nel mito dell’autobiografia ostentato sin da “I vitelloni” e non era un’“inchiesta su Roma”, come Fellini voleva far credere nelle interviste. Era un film senza trama, senza star, senza un protagonista, costruito per episodi sganciati uno dall’altro, come una serie di fantastiche “vedute di Roma” che scorrono avanti e indietro nel tempo: un ingorgo apocalittico sul Grande Raccordo Anulare, un lugubre défilé di moda ecclesiastica, i resti di una casa romana che si sgretola tra gli scavi della metropolitana, l’incursione di una banda di motociclisti che vaga in una città deserta, immersa nel buio, come scampata a una catastrofe nucleare. Fu inoltre un film travagliato che Fellini faticò molto a portare a termine e che all’epoca scontò il confronto con “Amarcord”, uscito l’anno dopo, diventato ben presto tra i film più popolari del regista. Tuttavia, “Roma” vanta numerosi estimatori. Pier Paolo Pasolini diceva che era “il capolavoro di Federico Fellini”. Il suo fascino misterioso è cresciuto nel tempo e in molti oggi lo considerano tra i film più sorprendenti e visionari del regista. Dieci anni dopo il bagno di Anita Ekberg e Marcello Mastroianni nella fontana di Trevi, Fellini trascina lo spettatore in una città irriconoscibile, cupa, claustrofobica, eppure sempre uguale a sé stessa. “Roma” non è un omaggio affettuoso alla città, un album di ricordi o una cartolina nostalgica. Ci sono, al contrario, i tratti più mostruosi e sgradevoli dei suoi abitanti, il caos sensuale e ripugnante di facce, voci, rumori di una città che all’inizio degli anni Settanta si sta trasformando in un magma metropolitano sempre più ingestibile.

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Anche se riflessi dentro una parata di simboli, sogni e invenzioni caricaturali, di fronte ai film di Fellini gli italiani si trovano sempre a fare i conti con sé stessi, con la propria storia, i propri miti, con il peso dell’educazione cattolica, del fascismo, con la scomparsa di una civiltà contadina travolta da una difficile modernizzazione. Allo stesso tempo, il cinema di Fellini riesce a trasferire questi temi su un piano universale. Archetipo occidentale e palcoscenico del carattere nazionale, Roma è la sintesi perfetta di questo doppio movimento dell’opera felliniana. Con “La dolce vita” e “Satyricon”, “Roma” conclude così un’ideale trilogia: se “La dolce vita” raccontava la città all’alba degli anni Sessanta, quando era al centro della moda e del jet-set internazionale, se il “Satyricon” si avventurava in una romanità precristiana immaginata più attraverso la fantascienza e la psichedelia che dai frammenti di Petronio, “Roma”, è una sintesi folle e impossibile di tutto ciò che evoca il suono della parola Roma: quella incontrata dal regista al suo arrivo in città alla fine degli anni Trenta, quella dei primi anni Settanta, del traffico, delle manifestazioni, del sovraffollamento, dei lavori interminabili della metropolitana, quella amata dai turisti e detestata da molti italiani, la Roma gretta, sguaiata, sonnolenta, quella mitica, imperiale, immaginata al cinema o sui libri di scuola, la città sognata dalla provincia, meta di scalate politiche, carriere artistiche o di un più abbordabile posto al ministero, perché come diceva Flaiano, “si viene a Roma in cerca di un lavoro, poi si trova un impiego”.

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Pubblichiamo un estratto dell’ultimo libro di Andrea Minuz, “Fellini, Roma” (Rubbettino, 176 pp.) in uscita l’8 ottobre

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