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Il delitto della Sapienza

L’inchiesta sulla morte di Marta Russo che punta ai fatti, non alle chiacchiere

Antonella Lattanzi

Testimoni ballerini e giornalisti giudici. Troppe domande senza risposta. Il podcast di Chiara Lalli e Cecilia Sala ci scrolla di dosso le voci e le etichette sull'omicidio del maggio '97. Sotto la polvere una verità è possibile

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La prima volta che ho messo piede alla Sapienza, dove mi sarei laureata, qualcuno mi indicò la targa che commemora Marta Russo, e m’indicò il luogo della sua orribile morte. Il 9 maggio 1997, alle 11.42, Marta Russo, studentessa di Giurisprudenza, sta camminando per la città universitaria con la sua amica Iolanda Ricci. Marta si accascia a terra. Iolanda non capisce cosa sta succedendo. Poi, vede i capelli di Marta tingersi di rosso. Marta va in coma. Pochi giorni dopo, morirà. Le hanno sparato alla testa. Chi l’ha uccisa? Perché? Si può mandare un figlio all’università e non vederlo più tornare a casa? Si può mandare un figlio all’università e venire a sapere che gli hanno sparato in testa?

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La prima volta che ho messo piede alla Sapienza, dove mi sarei laureata, qualcuno mi indicò la targa che commemora Marta Russo, e m’indicò il luogo della sua orribile morte. Il 9 maggio 1997, alle 11.42, Marta Russo, studentessa di Giurisprudenza, sta camminando per la città universitaria con la sua amica Iolanda Ricci. Marta si accascia a terra. Iolanda non capisce cosa sta succedendo. Poi, vede i capelli di Marta tingersi di rosso. Marta va in coma. Pochi giorni dopo, morirà. Le hanno sparato alla testa. Chi l’ha uccisa? Perché? Si può mandare un figlio all’università e non vederlo più tornare a casa? Si può mandare un figlio all’università e venire a sapere che gli hanno sparato in testa?

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Quando ho visto la targa, del caso Marta Russo sapevo poco e niente. Avevo poche informazioni riportate dalla vulgata: l’avevano uccisa due assistenti di Filosofia del diritto che tenevano delle lezioni, e in particolare ne avevano tenuta una sul “delitto perfetto”. Era per questo che l’avevano uccisa. Gonfiati di teorie superomistiche, invasati da Nietzsche e Heidegger, figli di papà pieni di sé, imbattibili, avevano inventato un gioco: ti dimostro che, se uccido una persona senza movente – una persona a caso, una ragazza di ventidue anni, per esempio – non verrò mai preso. Giochiamo? Sì. Il mio sconcerto davanti a quella targa, la mia rabbia, la mia paura è stata forse quella di tutta l’opinione pubblica davanti alla tragedia: e se fossi io? E se fosse mia figlia?

 

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Anni dopo, ho visto il processo Marta Russo nella trasmissione Un giorno in pretura. Sono partita colpevolista, sicurissima di chi fossero i buoni e chi i cattivi. Sicura di sapere chi erano gli assassini. Ho finito di vedere quei tre gradi di giudizio che non ero più la stessa. Di tutti i processi che ho visto e studiato – e sono una quantità enorme, io quasi non faccio altro che studiare casi di cronaca nera e processi – non ce n’è forse un altro, oltre a quello di via Poma, che mi ha sconvolto così. Cos’era successo in quelle aule, durante quel processo? Cos’era successo nelle caserme? Mi sono messa a studiare. Più studiavo, più non capivo.

 

Le giornaliste Chiara Lalli e Cecilia Sala hanno dato voce e corpo a tutte le mie domande – e anche a molte di più – nel podcast Polvere, prodotto da Emons Record e Miyagi Entertainment e pubblicato dall’Huffington Post. Non è facile parlare di uno dei più grandi misteri italiani. Non è facile, a distanza di oltre vent’anni, ritrovare chi ha seguito le indagini, i protagonisti del processo, i testimoni, gli indagati, i condannati. Non è mai facile fare quello che hanno fatto Lalli e Sala: intervistare ma anche andare a cercare negli archivi, sbobinare vecchie registrazioni, andare a vedere il luogo del delitto, studiare pagine e pagine di faldoni, e poi non farsi prendere dall’emotività e dalla rabbia e lanciare ipotesi come se, invece che giornalisti, invece che scrittori, fossimo giudici, poliziotti, avvocati. Noi – mi ci metto anch’io – non lo siamo. Noi siamo profani. Ma noi – tutti noi – abbiamo a disposizione gli strumenti per studiare. Per farci delle domande, quantomeno. Per sollevare dubbi.

 

In otto puntate densissime e puntuali, senza sbavature, in cui tanto spesso ti si spezza il cuore, in cui tanto spesso dici ad alta voce ma non è possibile, Lalli e Sala si focalizzano su tre punti fondamentali: l’alibi, il movente e le prove. Scattone e Ferraro, condannati nel 2003 rispettivamente a 5 anni e quattro mesi per omicidio colposo (quindi non intenzionale) e a 4 anni e due mesi per favoreggiamento, non hanno alibi confermati per quella mattina. Ma l’assenza di un alibi non può essere considerata prova di colpevolezza. Quale sarebbe il motivo per cui i due assistenti avrebbero ucciso Marta Russo? Il “delitto perfetto”, secondo l’accusa, che è posto in essere proprio dall’assenza di movente. Ma ci sono prove che questo delitto perfetto sia stato architettato dai due giovani? La lezione in merito, si scopre ben presto, non esiste. Del resto, la condanna esclude l’omicidio volontario.

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Quali sono, allora, le prove che li incastrano? Una particella ritenuta compatibile con polvere da sparo sulla finestra dell’aula 6, quella che frequentavano i due assistenti. Ma diverse perizie dimostreranno che quella particella potrebbe provenire anche dalla frenata di una macchina. Altre prove? Nessuna. Solo testimoni oculari – i protagonisti di questo processo, che parlano, ricordano, ritrattano, non ricordano più, ricordano di nuovo nuovi dettagli sempre più precisi, con certezza. Testimoni oculari che riportano ricordi discordanti. E allora? La domanda di Lalli e Sala è: siamo sicuri che le indagini siano state condotte seguendo tutte le giuste direttive, che la scena del crimine non sia stata inquinata, siamo sicuri che Scattone e Ferraro siano colpevoli?

 

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Possiamo dire con certezza, almeno, che quella mattina fossero in quella stanza? Possiamo dirlo oltre ogni ragionevole dubbio? E sono anche le nostre domande. Sono le mie domande. Tutti, al tempo e oggi, vogliamo sapere cos’è successo il 9 maggio ’97. Poteva esserci chiunque di noi, lì, in quella mattina di sole. I media, al tempo, si buttarono famelici sul caso. Accusarono, indicarono, condannarono. Emisero sentenze. A voce tanto alta che solo questo, tanti anni fa, era arrivato a me, ventenne come Marta, che camminavo per le strade della Sapienza. L’eco roboante delle mille bocche dei media. Oggi, grazie all’inchiesta di Polvere, ci scrolliamo di dosso le voci e le etichette e torniamo nei fatti, li ascoltiamo con le nostre orecchie. Chiediamo giustizia, verità processuale, e verità storica.

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