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Il Meridiano di Asor Rosa, una canonizzazione improbabile e ridondante

Matteo Marchesini

Dietro ai novecenteschi baffi, prosa liceale e ovvietà prolisse. Ogni sua metamorfosi appare qui come una svolta arcana e necessaria: tutto è inesorabile, “difficile”, fatale

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Negli ultimi mesi, i due più noti storici della letteratura italiana hanno pubblicato un volume monumentale a testa: di Giulio Ferroni si trova in libreria “L’Italia di Dante”, e di Alberto Asor Rosa un Meridiano intitolato “Scritture critiche e d’invenzione”. Da sempre avversari, Ferroni e Asor Rosa alternano i saggi eruditi o apocalittici agli studi in cui cercano di classificare dei fenomeni letterari o sociali via via più sfuggenti. Tutti e due esibiscono dei novecenteschi baffi. Ma quelli di Ferroni fanno pensare a un tricheco buono; quelli di Asor, su un volto che s’immagina truccato come gli attori della sua giovinezza, evocano maschere molieriane. Nonostante i cognomi, Ferroni è il tenero e il metallico è Asor, rosato solo per una floridezza innaturale, che sembra alludere sia al suo vitalismo imbarazzante sia alla sua spietatezza machiavellica. Forse Garboli aveva in mente un ideologo come lui, quando a fine anni 60 ritrasse così Tartufo.

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Negli ultimi mesi, i due più noti storici della letteratura italiana hanno pubblicato un volume monumentale a testa: di Giulio Ferroni si trova in libreria “L’Italia di Dante”, e di Alberto Asor Rosa un Meridiano intitolato “Scritture critiche e d’invenzione”. Da sempre avversari, Ferroni e Asor Rosa alternano i saggi eruditi o apocalittici agli studi in cui cercano di classificare dei fenomeni letterari o sociali via via più sfuggenti. Tutti e due esibiscono dei novecenteschi baffi. Ma quelli di Ferroni fanno pensare a un tricheco buono; quelli di Asor, su un volto che s’immagina truccato come gli attori della sua giovinezza, evocano maschere molieriane. Nonostante i cognomi, Ferroni è il tenero e il metallico è Asor, rosato solo per una floridezza innaturale, che sembra alludere sia al suo vitalismo imbarazzante sia alla sua spietatezza machiavellica. Forse Garboli aveva in mente un ideologo come lui, quando a fine anni 60 ritrasse così Tartufo.

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Poco prima Asor Rosa si era fatto conoscere grazie a “Scrittori e popolo”, sulle cui pagine si apre il Meridiano. In quel pamphlet il critico trentenne liquidava con rudezza la letteratura populista e progressista nata dalla Resistenza: Vittorini, Pratolini, Pasolini, Cassola… Accusava gli scrittori di avere sostituito alla realtà delle classi il mito del popolo, e di avere optato per un cattivo compromesso nel quale l’esperimento d’avanguardia è neutralizzato dal realismo, mentre “le condizioni reali non sono poste in maniera sufficientemente robusta da sopperire al fallimento dell’esperienza stilistica”. Sul piano politico, a questo compromesso corrispondono le terze forze, verso cui Asor mostra lo stesso disgusto. In tutti i campi, nulla lo nausea più di ciò che sa di “umanesimo”. Il suo operaismo prevede infatti un’opposizione netta tra la Cultura, per essenza borghese, e il Proletariato, pura razza barbara che ne incarna la negazione assoluta. L’unico borghese buono, culturalmente parlando, è quello che si dipinge moribondo, chiuso senza scampo nella propria decadenza, ovvero il Grande Borghese (Asor si occupa allora di Thomas Mann).

  

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Comunque la letteratura non ha più importanza; altro è il terreno di lotta. Il giovane studioso porta all’estremo le critiche al populismo già avanzate da Fortini, e così facendo imputa persino al padre della nuova sinistra una posizione troppo timida: perché nonostante tutto crede ancora nella poesia e nei “valori”? Fortini risponde ribadendo che l’arte non si può ridurre a mera falsa coscienza, che implica la prefigurazione utopica di una vita più umana. Si difende bene, ma con un eccesso di sottigliezza: è l’epoca in cui gli allievi ricattano i maestri giocando all’estremismo, e anche lui si fa intimidire da chi vuole strappare alle discipline culturali “la loro testa di valori” per ridurle “a semplici tecniche, da usare con il massimo disprezzo secondo le opportunità che di volta in volta si presentano”. Cito dal capitolo di “Intellettuali e classe operaia” riprodotto sul Meridiano: stile sadico, come si vede; quasi da aguzzino.

 

 

Se Fortini non somigliava a Bakunin, Asor ha forse recitato da Nečaev. Caduta la tensione “rivoluzionaria”, il suo pragmatismo cinico lo ha lasciato con le mani libere. Alfonso Berardinelli ha denunciato efficacemente questo tratto della parabola asorrosiana, osservando come nella fase matura l’ex nichilista alla Tronti abbia cercato di soddisfare il suo “desiderio di potere” attraverso “il partito comunista di Enrico Berlinguer e la storia della letteratura italiana”; finché, dissoltosi il Pci e relegata ai margini la cultura letteraria, è divenuto uno di quei moralisti delusi che un tempo disprezzava. Non solo, come altri operaisti, l’anziano Asor scioglie il virilismo in una finzione “francescana”, ma si avvicina addirittura all’unico rappresentante vincente delle terze forze, Eugenio Scalfari. In entrambi questi poligrafi, o meglio grafomani, ritroviamo una prosa pomposamente liceale, che mescola ragionamenti zoppicanti a ovvietà prolisse, e una megalomania che li spinge a credersi aforisti e narratori.

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Berardinelli ha ironizzato sull’incipit del saggio con cui Asor inaugura a inizio anni ‘80 la sua Letteratura Einaudi. In effetti la frase “La letteratura è un fenomeno complesso” rappresenta bene la vuota retorica scolastica di un intellettuale che nello stesso periodo, peggiorando ancora il suo stile, parla di “complessificazione della politica”. Ma se questo intellettuale insiste sulla complessità è perché non vede più intorno a sé un solo paradigma autorevole. Tutto è confuso, sincretistico, generico, e dunque anche Asor Rosa lo diventa: dopo avere svalutato la storia e l’uomo riscopre il genio italico e l’antropologia, esalta il Calvino più corrivo e celebre delle “Lezioni americane” fingendo che sia uno scrittore rimosso, recensisce a casaccio gli autori nuovi a seconda della loro visibilità, e tesse un patchwork teorico sterile come quello dei vecchi compagni. Il problema è che la vera vocazione di Asor consiste nel semplificare i modelli di pensiero che trova già pronti, nel farne un’arma passepartout rozza ma anche affilata.

 

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Da questo punto di vista, sul decennio che va da “Scrittori e popolo” a “La cultura” sono meno severo di Berardinelli. L’aridità schematica del critico gli permette allora di mettere a punto alcune formule notevoli; e anche più avanti, quando affronta i contesti culturali anziché le questioni puramente estetiche, approda a sintesi definitorie che si ricordano, come quella su Pasolini “illuminista carnale”. Ma se non può contare su solide basi ideologiche elaborate altrove, la sua scrittura subito crolla. Perché Asor Rosa non sa rispondere pienamente delle proprie scelte, come un critico non dimezzato dovrebbe fare; né d’altra parte accetta di contraddirsi con la leggerezza degli eroi letterari che ammira. I suoi cambiamenti non sono suoi ma della società che lo circonda, dell’ambiente nel quale vuole mantenere ruoli di primo piano; e per velare questa pulsione elementare inventa giustificazioni sempre più ingarbugliate, grevi, inverosimili, oltre che stilisticamente comiche. Nel Meridiano una tale comicità involontaria pervade anche il saggio introduttivo di Corrado Bologna, e quello di Massimo Cacciari che lo segue. Bologna, che chissà come riesce a star serio mentre attribuisce ad Asor rovelli etici e moti compassionevoli, non esita a evocare Nietzsche, Machiavelli, Dante, Guicciardini, Warburg e San Francesco (oltre a Said, patrono di tutti gli ex marxisti in cerca di surrogati teorici). Cacciari invece regala all’amico un’ironia di cui è completamente sprovvisto, lo avvolge nel linguaggio biopolitico, e ne fa addirittura un eroe della sua Mitteleuropa, un po’ Ulrich e un po’ Zarathustra.

 

E’ il ritratto di un uomo superiore, maestro della sprezzatura e dell’arte di tramontare, che senza pentimenti puerili passa dal culto del Politico alla solitudine del Singolo, in attesa messianica di una comunità a venire. Ogni sua metamorfosi appare qui come una svolta arcana e necessaria: tutto è inesorabile, “difficile”, fatale. Per farla breve: siamo di fronte a una canonizzazione improbabile e ridondante. Eppure sotto questo aspetto il volume non può battere l’altro Meridiano su cui Asor ha lasciato di recente la sua impronta, cioè quello del fondatore di Repubblica. Anche lì ci sono due saggi introduttivi, ma uno è dell’autore introdotto. Quanto al contributo asorrosiano, perché proprio non rimanessero dubbi, davanti al suo scritto su Scalfari in un libro di Scalfari l’italianista ha posto la dedica “A Eugenio Scalfari”. Questi due storici di sé stessi, fluviali e lapalissiani, incontrano ovunque il loro Io ma non lo vedono. Si specchiano l’uno nell’altro, uguali e rovesciati: fanno un palindromo.

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