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La prima apparizione di tutto

Maurizio Crippa

Il progresso della scienza, la tecnica e l’ossessione dell’uomo di catturare “l’impronta del reale” da cui è nata la fotografia. Una mostra su William Henry Fox Talbot, il precursore. (E anche un po’ su Modena)

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Aleister Crowley ebbe grande e oscuro successo, tra la Parigi e la Londra di inizio Novecento, come studioso di alchimia e cultore di magia nera, in una società da Belle Époque in cui l’occultismo e tutto ciò che aveva a che fare con la possibilità di accedere all’invisibile, magari tramite certi usi o abusi della fotografia, andavano di gran moda, a braccetto col progredire della scienza. A lui è ispirato, di prima mano, l’Oliver Haddo protagonista di Il Mago di Somerset Maugham, gustosa lettura estiva di Adelphi. In quegli anni magia e scienza, sperimentazione e occultismo non avevano ancora diviso per bene le loro strade. A metà Ottocento gli esprimenti di dagherrotipia entravano nelle sedute spiritiche, ancora nel 1920 scoppiò il caso molto mediatico, o meglio medianico, delle Fate di Cottingley – fotografie scattate da due cuginette nella campagna inglese in cui alcuni ritenevano fossero rimaste intrappolate delle creature fantastiche – che coinvolse persino Arthur Conan Doyle. Ma i maghi e le fate finiscono qui, è solo un preambolo sul clima d’epoca, sulle ossessioni latenti in ogni conquista della tecnica, prima di entrare nel vivo di una grande storia scientifica.

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Aleister Crowley ebbe grande e oscuro successo, tra la Parigi e la Londra di inizio Novecento, come studioso di alchimia e cultore di magia nera, in una società da Belle Époque in cui l’occultismo e tutto ciò che aveva a che fare con la possibilità di accedere all’invisibile, magari tramite certi usi o abusi della fotografia, andavano di gran moda, a braccetto col progredire della scienza. A lui è ispirato, di prima mano, l’Oliver Haddo protagonista di Il Mago di Somerset Maugham, gustosa lettura estiva di Adelphi. In quegli anni magia e scienza, sperimentazione e occultismo non avevano ancora diviso per bene le loro strade. A metà Ottocento gli esprimenti di dagherrotipia entravano nelle sedute spiritiche, ancora nel 1920 scoppiò il caso molto mediatico, o meglio medianico, delle Fate di Cottingley – fotografie scattate da due cuginette nella campagna inglese in cui alcuni ritenevano fossero rimaste intrappolate delle creature fantastiche – che coinvolse persino Arthur Conan Doyle. Ma i maghi e le fate finiscono qui, è solo un preambolo sul clima d’epoca, sulle ossessioni latenti in ogni conquista della tecnica, prima di entrare nel vivo di una grande storia scientifica.

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William Henry Fox Talbot non era un mago né tantomeno un cercatore di spiriti invisibili. Era un matematico, uno scienziato dai multiformi interessi, un gentleman scholar ben inserito in una comunità di suoi pari dediti al progresso della conoscenza senza fini venali, come usava allora. Tra i suoi interessi, quello maggiore era l’ambizione di catturare, tramite la luce e la chimica, “l’impronta del reale”. L’immagine delle cose e dei luoghi naturali senza più il tramite di matite e pennelli, superando le insufficienti tecnologie che già esistevano, per ottenere attraverso l’impronta della luce riproduzioni quanto più vicine all’originale visto con gli occhi. Una “scrittura” su carta della realtà non fatta da mani d’uomo, ma direttamente dalla luce: quella che poi si sarebbe chiamata, appunto, foto-grafia. Ci lavorava da tanto, Talbot, da quando nel 1833 era venuto in viaggio di nozze sul Lago di Como e, affascinato dal paesaggio, voleva ritrarlo. Ma non era bravo nel disegno. Provò a servirsi della “camera lucida”, inventata nel 1806: un prisma ottico attraverso cui si potevano seguire con la matita e trasferire sulla carta i contorni delle figure. Ma il risultato non era per lui soddisfacente.

 

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Ci si lavorava già da tanto, e in tanti, fin dal Settecento. Nelle storie pionieristiche della fotografia ci sono i nomi dei tentativi più ingegnosi. La stampa dal vero, la camera oscura, la camera lucida, il cianotipo, la calcografia, la galvanoplastica, il disegno fotogenico. C’è soprattutto un nome che è all’origine di un scontro tecnico ed estetico a un tempo: il dagherrotipo. Fox Talbot e altri scienziati che battevano la sua stessa strada o strade parallele – come Joseph Nicéphore Niépce, il primo, avventuroso personaggio che a fine Settecento intuì il modo di ottenere una calcografia utilizzando l’immagine proveniente da una camera oscura, o come Hyppolite Bayard che mise a punto la “stampa positiva diretta” – avevano intuito che la soluzione fosse scoprire come impressionare con la luce e “stabilizzare” la carta. Louis Jacques Mandé Daguerre invece mise a punto l’impressione della luce su una lastra di rame trattata con argento, che produceva però solo un esemplare, più nitido ma non riproducibile. Daguerre era un uomo di spettacolo, pittore e scenografo, oltre che chimico. Inseguiva le possibilità artistiche delle nuove tecniche. La sua vicenda rimanda a quella della dualità, decenni dopo, tra Georges Méliès e i Fratelli Lumière nell’invenzione del cinematografo. Méliès, imprenditore dello spettacolo, illusionista, filmò per prima cosa un viaggio fantastico sulla luna: la fantascienza era nata. I Lumière, interessati a riprodurre il movimento del reale, per prima cosa filmarono un treno in corsa e l’uscita degli operai dalla fabbrica di famiglia. La tecnica del dagherrotipo ebbe per lungo tempo maggior successo, consentiva ad esempio ritratti più belli, divenne uno status symbol (farsi fare il ritratto: uno degli elementi magici e di più duraturo successo della nuova tecnica, fino ai selfie digitali). Fox Talbot pensava invece all’utilità del nuovo mezzo per la ricerca scientifica, la documentazione naturalistica e divulgativa e persino alle possibili applicazioni in ambito giudiziario (le foto segnaletiche arriveranno presto). Aveva intuito che la strada era la stampa su carta e la sua riproducibilità tecnica. Il passaggio a nordovest da scovare era quello tra immagine negativa e positiva.

 

Il migliore alleato era la scienza. Nato nel Dorset nel 1800, di famiglia aristocratica, al Trinity College di Cambridge studiò matematica e scienze e iniziò i primi studi sulla luce. A trentun anni era già membro della Royal Society. Studiò tecniche ed esperimenti portati avanti da altri innovatori, tipografi, scienziati, e iniziò a provare. Trovò come ottenere con una rudimentale fotocamera di legno impronte di luce sopra fogli di carta immersi in una soluzione di sale da cucina e nitrato d’argento, immagini a luce invertita, cioè in negativo. Perfezionò la tecnica per produrre da quel primo foglio un’immagine positiva. Chiamò la sua invenzione “calotipia” (bella stampa). Quindici anni dopo, 1844-1846, fu in grado di pubblicare The Pencil of Nature, il primo libro fotografico della storia. Un progetto ambizioso, per il quale fece allestire un grande studio fotografico nei pressi di Lackock Abbey, la sua residenza, e che doveva svilupparsi in una serie di dodici fascicoli, in vendita a 12 scellini l’uno, ma che si fermò ai primi sei. Uno di questi, la copia della Biblioteca Nazionale di Firenze donata da Talbot al Granduca di Toscana, è uno dei pezzi pregiati di una mostra da poco inaugurata a Modena. Vedere oggi quelle immagini che paiono frutto della magia, che paiono apparizioni, appunto impronte furtive lasciate dalla realtà (l’inevitabile imprecisione dell’effetto sfumato fu in quegli anni intrisi di romanticismo un elemento di successo) è un’avventura suggestiva. E’ possibile farla alle Gallerie Estensi – al piano terreno del bel palazzo che ospita la Galleria Estense, il Lapidario e la Biblioteca Estense – e che ha per titolo “L’impronta del reale - William Henry Fox Talbot. Alle origini della fotografia”. Una mostra non del genere della gigantografia, il Covid ha impedito l’arrivo di alcuni materiali, ma nella direzione dell’approfondimento, composta da oltre cento opere fra disegni fotogenici, calotipi, dagherrotipi, incisioni da dagherrotipi, messi anche a confronto con fotografie contemporanee e opere d’arte che hanno indagato l’idea di “impronta”. Una mostra più in profondità che in estensione, che scandaglia una storia che è scienza e percorso di una tecnica, ma prima ancora è storia di un’idea, delle “ossessioni di quello che nella maggior parte dei casi era un desiderio fotografico ancora latente”, come dice lo storico dell’arte Geoffrey Batchen, che ha cambiato per sempre il nostro modo di vedere e di conoscere. Dunque, in fondo, anche un viaggio alle origini dell’oggi, dominato dal digitale nelle sue applicazioni pratiche e ludiche. Un presente in cui l’ossessione di lasciare ad ogni istante e ovunque un’impronta di sé – il piede in primo piano sui gradini di Rialto, i volti in primo piano sovrapposti al mare – sono il frutto distratto di una possibilità infinita di duplicazione nata quasi due secoli fa. Una psicologia della meraviglia. Ma oggi, abbiamo anche la consapevolezza che tutto ciò che ci serve ogni giorno, dallo screenshot alla trasmissione di una notizia a una stampa in 3D a un’esame medico è nato dal lavoro di scienziati, tecnici, sperimentatori appassionati molto avanti sul loro tempo.

 

Che questo viaggio nell’archeologia del sapere fotografico sia stato realizzato dalle Gallerie Estensi di Modena, uno dei poli museali (con le sedi della Pinacoteca Estense di Ferrara e del Palazzo ducale di Sassuolo) di interesse nazionale resi autonomi con la riforma del 2014, non è frutto di una caso, o di una trovata di programmazione. Lavorando sui patrimoni della Biblioteca Universitaria Estense – che ha da pochi mesi realizzato l’intera digitalizzazione del suo patrimonio di libri antichi – il direttore Martina Bagnoli ha ripreso tra le mani un fascicolo importante: una fitta corrispondenza tra Talbot e l’ingegnere, ottico, matematico, astronomo e studioso di scienze naturali modenese Giovanni Battista Amici. Unita ad alcune preziose “prove fotografiche” che lo stesso Talbot aveva donato al suo dotto corrispondente italiano. Conservato nella Biblioteca Estense, questo raro materiale fu ritrovato nel 1977 (si tenne una mostra al Palazzo dei Musei). Spiega Martina Bagnoli che la rassegna di oggi è “frutto di oltre due anni di ricerca”, che mettono in luce “un momento straordinario in cui la storia di Modena si interseca con quella delle grandi capitali europee”. E’ qui che si inserisce la straordinaria figura di Giovanni Battista Amici. Lo scienziato modenese, considerato il più importante costruttore italiano di strumenti ottici della sua epoca, nel secolo in cui i costruttori di strumenti scientifici ebbero un ruolo e fondamentale. Amici è l’inventore del microscopio catadiottrico, presentato in Inghilterra nel 1815, che cambiò le possibilità della ricerca. Viaggiava tra Parigi, Londra e Berlino, conobbe altri scienziati che studiavano la fotografia. Con Talbot iniziarono gli scambi di studi e strumenti sempre più perfezionati. Trasferitosi alla corte del Granduca di Toscana Leopoldo II in qualità di astronomo granducale, alla “Prima riunione degli scienziati italiani” svoltasi nel 1839 a Pisa invitò anche Talbot per presentare la sua invenzione. La vicenda di Amici racconta un pezzo di storia della fotografia. Ma racconta anche di più i legami di città come Modena (e Firenze, e Pisa) nel tanto sottostimato Ottocento pre-unitario, e che invece avevano stretti e vivaci legami con l’Europa più avanzata (c’è sempre da riflettere, oggi che tanto si parla di territori, sull’eccellenza diffusa delle città italiane impropriamente dette minori). Ad esempio, in mostra c’è anche una teca che raccoglie alcune strepitose ceroplastiche. Con il suo microscopio e le sue perfezionate macchine ottiche, Amici realizzò disegni dettagliatissimi di quanto vedeva, e li fece trasformare in ingrandimenti tridimensionali in cera da artigiani specializzati in questa tecnica raffinata. L’idea della stampa in 3D era già nata.

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Il compito di dipanare questa storia complessa, di studiare i materiali, trovare i corrispettivi, insomma non solo di impaginare una bella mostra ma di offrire un serio contributo culturale (molto ricco il catalogo edito da Franco Cosimo Panini) è stato affidato a Silvia Urbini, storica dell’arte specialista di storia dell’illustrazione, curatrice della mostra, in collaborazione con Chiara Dall’Olio, esperta e curatrice di mostre di fotografia. A lei è affidata un’esposizione che viaggia in parallelo con quella delle Gallerie, presso la Fondazione Modena Arti Visive – un polo culturale che contribuisce a fare di Modena una delle capitali italiane della fotografia – dedicata a Mario Cresci, fotografo e studioso di questa arte: “La luce, la traccia, la forma”.

 

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Le curatrici sono riuscite a disegnare un percorso affascinante. Si parte dalle tecniche di un mondo ancora contraddistinto dallo sperimentale – straordinarie sono le tavole della Stamperia Imperiale di Vienna diretta da Alois Auer, personaggio tra i più grandi e innovatori di quell’epoca, in cui sono rappresentate tutte le tecniche di riproduzione della realtà in uso ai tempi dell’invenzione della fotografia. Dall’altra si racconta anche l’impatto che ebbe la fotografia in Italia, attraverso la documentazione delle sue bellezze paesaggistiche e storiche, come nel “calotipo” del 1846 nell’immagine di pagina. Il rapido diffondersi del “vedutismo” diventerà, dopo l’Unità, anche un mezzo per far conoscere gli italiani a se stessi e di promozione del nuovo Regno nel mondo. E qui finisce l’avventura del gentleman scholar William Henry Fox Talbot (morì nel 1877). La storia dell’“impronta del reale” era appena iniziata. Forse oggi che il digitale non ha più bisogno di cercare impronte, ma sa crearle d sé, la fotografia può tornare a occuparsi di magia.

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