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America rosso fuoco

Gaia Manzini

Sessant’anni dopo torna il romanzo di Flannery O’Connor, la scrittrice che sapeva raccontare il lato oscuro dell’esistenza e i suoi raggi di luce

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Una calda giornata nel sud degli Stati Uniti. Un uomo si siede per fare colazione, prende il coltello con la sua mano rossa e squadrata e se lo porta alla bocca; poi con espressione di assoluto sbigottimento abbassa di colpo la mano che sfiora il bordo del piatto e lo ribalta a terra. Quell’uomo tozzo dagli occhi argentati muore, così: all’improvviso, senza neanche cambiare posizione o accasciarsi sul pavimento. Il nipote di quattordici anni rimane lì al tavolo, finisce la colazione in una sorta di tetro imbarazzo; poi, invece di seppellirlo, va a ubriacarsi, perché è troppo giovane, troppo fragile nel corpo e nello spirito per trascinare il prozio fino alla cassa di legno che lui aveva costruito per l’inevitabile evento finale della sua esistenza. Il ragazzo ricorda che lo zio alla sua bara ci aveva lavorato per molto tempo; aveva inciso sul coperchio MASON TARWATER, CON DIO e una volta ci si era infilato dentro per provarla, per assicurarsi che fosse davvero della sua misura. Era rimasto sdraiato per un po’, completamente invisibile, tranne per il ventre che sporgeva dal bordo “come una pagnotta troppo lievitata”.

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Una calda giornata nel sud degli Stati Uniti. Un uomo si siede per fare colazione, prende il coltello con la sua mano rossa e squadrata e se lo porta alla bocca; poi con espressione di assoluto sbigottimento abbassa di colpo la mano che sfiora il bordo del piatto e lo ribalta a terra. Quell’uomo tozzo dagli occhi argentati muore, così: all’improvviso, senza neanche cambiare posizione o accasciarsi sul pavimento. Il nipote di quattordici anni rimane lì al tavolo, finisce la colazione in una sorta di tetro imbarazzo; poi, invece di seppellirlo, va a ubriacarsi, perché è troppo giovane, troppo fragile nel corpo e nello spirito per trascinare il prozio fino alla cassa di legno che lui aveva costruito per l’inevitabile evento finale della sua esistenza. Il ragazzo ricorda che lo zio alla sua bara ci aveva lavorato per molto tempo; aveva inciso sul coperchio MASON TARWATER, CON DIO e una volta ci si era infilato dentro per provarla, per assicurarsi che fosse davvero della sua misura. Era rimasto sdraiato per un po’, completamente invisibile, tranne per il ventre che sporgeva dal bordo “come una pagnotta troppo lievitata”.

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Flannery O’Connor è stata una grande maestra della letteratura americana e un’abilissima orchestratrice di dettagli. Il cielo è dei violenti – suo ultimo romanzo, riproposto da minimum fax a sessant’anni dalla prima pubblicazione, nella sapiente traduzione di Gaja Cenciarelli – sta tutto in questo inizio, tragico e comico insieme; dissacrante e feroce. Il vecchio Mason era stato spaventato da una lince tempo addietro: il felino era entrato dalla finestra balzando sul pavimento e quell’incursione era valsa come una profezia. Da quel giorno si era trasferito a dormire al piano di sopra, certo della prossima venuta della sua morte. E sempre una lince è l’animale che aspetta di notte il vecchio Gabriel, protagonista di un altro racconto di O’Connor, tra i suoi più belli: Lince, per l’appunto. Sta lì fermo nella notte, il vecchio Gabriel, con la sensazione di sentire l’odore del felino che con passo felpato sta arrivando a portarselo via, a strapparlo dalla vita. Attraverso i dettagli, diceva Flannery O’Connor, ogni racconto ci sfugge di mano, si espande oltre i propri confini, riesce a essere più grande di quello che è. “Il romanziere fa le sue dichiarazioni attraverso le scelte che compie e, se vale qualcosa, sceglie ogni parola, ogni dettaglio, ogni episodio per una ragione ben precisa, e li dispone in una determinata sequenza temporale per una ragione ben precisa. Dimostra qualcosa che non si può dimostrare in altro modo se non con un romanzo intero”. Scopo della letteratura d’altronde non è spiegare l’esistenza, ma farne sentire il mistero. E nel Cielo è dei violenti è proprio il mistero, il vero protagonista della storia.

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C’è una baracca in mezzo ai boschi nel sud degli Stati Uniti; c’è un ragazzino che in quella casa è stato allevato dal vecchio prozio nella convinzione che non potesse esserci esistenza migliore di quella, lontani da tutti e tutto, ma non da Dio; c’è un giovane zio che in qualità di maestro e saggista vorrebbe prendersi cura del ragazzo; c’è un’assistente sociale che vorrebbe aiutarlo; c’è un vecchio irascibile e violento, un fanatico che si crede un predicatore e ha allevato il ragazzo lontano dai suoi coetanei, senza mai mandarlo a scuola e influenzandolo con un intreccio di credenze religiose, lo ha istruito perché al momento della morte lo seppellisca cristianamente. Ognuno ha la sua prigione. Sono tantissimi i personaggi dei racconti di Flannery con il vizio della solitudine: tra tutti mi vengono in mente Julian e la madre di Punto Omega, costruito intorno alla cecità e all’ostinazione dei personaggi a sentirsi separati dal resto del mondo. Basterà pochissimo per far capitolare il loro austero distacco: basterà che una donna di colore salga sul loro stesso autobus, indossando il medesimo cappello della madre di Julian, la bianca decaduta, perché tutto precipiti. Solitudine, prigione, necessità. Flannery fu una maestra nell’arte del racconto e scrisse due soli romanzi: La saggezza nel sangue e Il cielo è dei violenti. Le costarono una grandissima fatica: anni e anni di lavoro. Mentre era seduta alla sua scrivania, le sembrava di essere rinchiusa in un penitenziario; era costretta a rimanere lì, a valutare riga per riga come se spingesse “una pietra pesante con la punta del naso”. Li amava, questi romanzi, e insieme li detestava proprio perché la costringevano a rigirarsi ogni frase tra le mani, a scrivere e a riscrivere. Li aveva intitolati dentro di sé Opus nauseous I e II. I personaggi di Flannery O’Connor sono spesso soli come solo è Francis Marion Tarwater. Non ci sono padri nelle pagine di questa scrittrice, come nella sua vita; c’è qualche nonno, qualche zio e moltissime madri; ci sono i bambini, portatori di mistero. E poi tanta rabbia, tanta e vorticosa manipolazione. In questo romanzo il furore delle intenzioni si sente fin da titolo: Il cielo è dei violenti è un versetto del vangelo di Matteo che inneggia alla collera contro Dio.

 

Flannery O’ Connor trascorse la maggior parte della sua vita in Georgia, nella vecchia casa di famiglia che era appartenuta ai suoi da prima della guerra di secessione. La casa era abitata da cassettoni, mobili e sedie che avevano conosciuto i bisnonni, i nonni, lo zio; lì, tra le stratificazioni della propria storia famigliare, cesellò gli scenari della propria vita interiore. Negli anni dell’infanzia saliva con passo leggero in camera sua, dove scriveva e illustrava libri sugli uccelli e disegnava fumetti. Le piaceva raccontare che in quegli anni aveva accumulato tutto le esperienze necessarie e fondamentali: aveva anche insegnato a un pollo a camminare all’indietro. Quando compì sedici anni, il padre morì, colpito dalla stessa malattia ereditaria che avrebbe fatto morire la figlia. Visse sempre con la madre, visse sempre dentro a un legame profondissimo, di profondissima e reciproca dipendenza.

 

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Non ripensava quasi mai agli anni che aveva vissuto a New York, amava solo il Sud, perché il Sud apparteneva all’Antico Testamento, che lo incarnava in tutte le sue declinazioni. Flannery O’Connor visse per tutti i suoi ultimi anni rinchiusa, osservando cigni, pavoni, oche, senza rimpianti, senza nostalgie. La sua malattia, il lupus erythematodes, era incurabile: ossa che si fanno molli; femori e mascelle fragili come vetro. Presto dovette appoggiarsi a un bastone per camminare, poi a due stampelle di alluminio. Non poteva esporsi ai raggi del sole, se ne stava sepolta sotto calze, guanti, cappelli. Da un certo punto in poi non viaggiò più, non visitò alcun territorio che non fosse quello della malattia, sostenuta dalla sua fede e dalla scrittura alla quale non rinunciò mai, anche se tra mille difficoltà: riusciva a scrivere solo di mattina, un paio d’ore, perché si stancava. Quando a trent’anni il mondo cominciò a reclamarla e a cercarla, lei avrebbe voluto fuggire, nascondersi, rintanarsi nel silenzio.

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Eppure, la solitudine per Flannery non era davvero tale, perché lei aveva il suo mondo interiore, le sue letture, la natura che la circondava e che lei osservava con inesausta curiosità; per i suoi personaggi invece la solitudine è profonda e spesso fatale. Francis, il protagonista del Cielo è dei violenti, non ha visto niente del mondo, non ha conosciuto nessuno; la fede gli è stata trasmessa con stolido manicheismo: non ammette alcuna accoglienza dell’altro, non conosce il generoso esercizio di uno sguardo prismatico. A Francis Tarwater è stato insegnato solo il sospetto, solo il rifiuto. Sotto l’influenza del prozio ha imparato negli anni a disprezzare il ricordo della madre, morta in un incidente stradale e sopravvissuta quanto bastava per darlo alla luce. Gli è stato insegnato a odiare lo zio Rayber, fratello della madre morta, che tanto avrebbe voluto salvarlo dall’influenza cupa del prozio profeta. Tarwater non è altro che un “ragazzo ignorante e pieno di energia”, un ragazzo senza speranze. La famiglia è il luogo in cui impariamo ad amare, ma a lui non era successo. E’ questo che colpisce di più: l’assenza di sentimenti e di emozioni, nessuna vibratile compassione, nessuna coscienza della propria fragilità. In Brava gente di campagna, altro indimenticabile racconto di Flannery, Hulga è una ragazza che cammina con una gamba artificiale. Ogni giorno assiste passivamente alle chiacchiere di sua madre e di un’amica sedute in cucina, fin quando un pomeriggio compare alla porta un ragazzo con una grossa valigia nera. Il ragazzo è un venditore di bibbie che si mostra subito molto attratto da Hulga e dalla sua difformità. Le indica la gamba di legno, le dice che per quello la considera una bambina dolce e coraggiosa. Le dice che ha voglia di conoscerla meglio, di stare da solo con lei per qualche ora. Hulga non crede in Dio, è la prima cosa che gli dice durante la loro passeggiata, e lui in tutta risposta la bacia; è la prima volta che qualcuno la bacia. Insieme si dirigono al fienile in cima alla collina. E’ tale l’ardore di Hulga che si lascia convincere a salire sul soppalco. Sono baci, sono carezze e parole dolci. Poi lui le fa una richiesta: vuole vedere dove s’innesta la gamba artificiale, vuole provare a togliergliela e a rimettergliela. La richiesta spiazza Hulga e il lettore. Il ragazzo sembra totalmente assorbito da quel mettere e quel togliere l’arto artificiale. Al momento giusto, approfittando della distrazione di Hulga riprende le sue bibbie e la gamba della ragazza, e scappa lasciandola sul soppalco; scappa ridendo fra sé, felice e soddisfatto del suo malloppo. Ha rubato una parte di lei, si è impossessato della sue rigidità, del suo tormento interiore. Flannery O’Connor ama mescolare la comicità all’orrore, ama scioccare i suoi personaggi, ama farlo con violenza. Francis Tarwater, dopo la morte del prozio profeta, va a cercare lo zio che avrebbe voluto allevarlo e istruirlo. Rayber è ancora convinto di poterlo salvare, ma è come se il ragazzo non provasse alcun affetto per l’uomo, alcuna curiosità. Anzi. A spaventarlo e a muovergli ribrezzo è soprattutto il figlio di Rayber. Bishop è albino, guarda il mondo con occhi fissi, sembra non capire nulla; lo stesso padre lo chiama “bambino deficiente”. L’ultima parte di questo libro nero è un intreccio di intenzioni e sfumature emotive. Rayber sente risuonare nel cuore del ragazzo la sua stessa solitudine, sente di somigliargli, sente che forse potrebbero essere una famiglia. “Indossava la sua solitudine come un mantello, se l’avvolgeva addosso come un indumento che simboleggiasse l’Eletto”.

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Per Rayber, Tarwater è solo l’ennesimo bambino sfruttato, un bambino sottratto al mondo reale, sedotto dalla manipolazione dell’indottrinamento. Vede in lui se stesso. I bambini sono condannati a credere, dice tra sé, con rammarico. Ma non riuscirà a proteggere Tarwater, né Bishop. Non riuscirà a salvarli né a salvare se stesso. C’è qualcosa di intensissimo in Rayber, qualcosa di profondamente umano. La solitudine dei due bambini è struggente, ma l’ambiguità di Rayber è qualcosa che non si può dimenticare. La moglie se n’era andata e lui e suo figlio Bishop vivevano soli ormai da molti anni. Il bambino si lavava da solo, mangiava da solo, si vestiva da solo. Per la maggior parte del tempo il padre viveva con lui senza essere dolorosamente consapevole della sua presenza, ma c’erano dei momenti in cui – in un punto imprecisato della sua anima – veniva travolto dall’amore per quel suo figlio sfortunato, un amore così violento da lasciarlo sgomento e depresso per giorni, preoccupato per la propria sanità mentale. “Era un amore immotivato, l’amore per qualcosa che non aveva futuro, un amore che esisteva solo per se stesso, imperioso e esigente”. Questo passaggio mi ha ricordato un altro racconto di Flannery O’Connor, Il geranio. Quella macchia rossa e vitale che il vecchio Dudley guarda dalla sua finestra; ogni giorno aspetta che i vicini lo mettano al sole, ogni giorno aspetta di essere rischiarato da quella piccola fulgida visione. Quando si legge O’Connor si è divisi tra l’intelligenza, la capacità rivelatrice dei dettagli, l’uso sapiente dei sensi da un lato e la cupezza dei suoi racconti, le storture dei personaggi dall’altro. Poi, ogni tanto, c’è come un raggio di luce che irrompe nella pagina e sa di speranza. Sa di bellezza. E vorremmo ricominciare a leggere dalla prima riga.

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