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Viaggio in memoria di Matteotti

Edoardo Albinati

Il delitto che cambiò la storia. Nomi e luoghi utili a capire il presente. Il sangue che porta alla verità 

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Mai stato in Polesine. Eppure quel nome, Polesine, tante volte risuonato in associazione a immagini di diluvio, di metafisica solitudine e silenzio frusciante tra gli innumerevoli bracci in cui si ramifica il Po prima di trovare “pace coi seguaci sui” in Adriatico, mi suona familiare. Dentro la Storia, dentro anche la mia, almeno per una particella sentimentale. A Fratta Polesine, un quarto d’ora in macchina da Rovigo, ci sono la casa e la tomba di Giacomo Matteotti, il deputato socialista sequestrato e ucciso da sicari fascisti il 10 giugno 1924. Ho l’occasione di andarci, e ci vado.  

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Mai stato in Polesine. Eppure quel nome, Polesine, tante volte risuonato in associazione a immagini di diluvio, di metafisica solitudine e silenzio frusciante tra gli innumerevoli bracci in cui si ramifica il Po prima di trovare “pace coi seguaci sui” in Adriatico, mi suona familiare. Dentro la Storia, dentro anche la mia, almeno per una particella sentimentale. A Fratta Polesine, un quarto d’ora in macchina da Rovigo, ci sono la casa e la tomba di Giacomo Matteotti, il deputato socialista sequestrato e ucciso da sicari fascisti il 10 giugno 1924. Ho l’occasione di andarci, e ci vado.  

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Be’, me l’aspettavo più ricca la casa di Matteotti (“il socialista milionario”, lo sbeffeggiavano, il traditore della propria classe) e invece, sono ambienti grandi ma un po’ tetri, spogli, contrassegnati da quel particolare lusso senza lusso del benessere di allora. Nel giardino due file di pioppi titanici, quindi si passa per la cucina dal lavello di pietra sbilenca, e poi saloni e camere dai mobili squadrati, pesanti, mentre alle pareti una costellazione di ritratti ricostruisce una famiglia agiata quanto sfortunata: erano sei i fratelli e le sorelle di Giacomo (tra loro, Giocarta e Arquino) e morirono tutti appena nati o prematuramente.

 

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Lo stesso Giacomo era esilissimo e forse sarebbe morto anche lui di tisi, se non avessero provveduto a fargli sboccare sangue gli esecutori della Ceka fascista. Nella libreria dietro i vetri scorrevoli molti volumi in lingua originale, con una singolare predilezione per gli autori inglesi, Kipling, Wilde, Ruskin, Lafcadio Hearn, il Peter Pan di J.M Barrie, quindi Twain e London, e questo mi fa tornare in mente di aver letto che a infastidire Mussolini erano soprattutto i rapporti internazionali di Matteotti, il fatto che la sua voce venisse ascoltata all’estero come testimonianza scomoda di ciò che andava accadendo in Italia, a smentire la versione che dopotutto il fascismo stesse normalizzando e pacificando, sia pure con metodi spicci, un paese instabile.

 

Del famigerato omicidio, confesso che mi hanno sempre colpito alcuni dettagli minori, per esempio i nomi dei due impiegati che si erano andati a fare un bagno nel Tevere e assistettero per caso al rapimento: si chiamavano Adelchi ed Eliseo, cioè come lo sventurato principe Longobardo reso celebre dal Manzoni, e come il profeta minore che vide Elia portato in cielo da un carro di fuoco, cui allude per analogia Dante nel canto famoso perché pochi versi dopo prenderà la parola Ulisse (talmente denso di riferimenti biblici, quel passaggio, che uno ci si smarrisce, e smarrendosi gode: “e qual colui che si vengiò con li orsi”, Inf. XXVI, 34, che per spiegare la vicenda – barbara, violentissima! – degli orsi che sbranano bambini per vendicare un santuomo, be’, ci vorrebbe un articolo a parte).

 

Morale: mi chiedo, al giorno d’oggi, chi oserebbe chiamare un suo figliolo Eliseo o Adelchi? Chi ne avrebbe il coraggio, o la cultura derivata da usi familiari estinti? Cioè quel tipo di formazione (religiosa, storica, linguistica) che almeno attraverso l’onomastica si trasmetteva a livello popolare, senza bisogno di aver fatto il liceo o l’università? Quella solennità, quell’enfasi nobilitante, oggi sostituita per intero dall’enfasi cafona? Eh sì, l’Italia di meno di un secolo fa, l’Italia di Matteotti e Mussolini si allontana come attraverso un cannocchiale rovesciato, remota quanto il Medioevo. E un altro particolare suona eloquente, che io, pur essendo romano, fin adesso ignoravo: quell’infausto tratto di Lungotevere è intitolato a Arnaldo da Brescia, e chi era mai costui? Controllo: un misconosciuto eretico che venne arso vivo. Un eretico, appunto! Ed è appunto lì che la banda capeggiata da Amerigo Dumini catturò l’onorevole indifeso, appena uscito di casa, solo, senza cappello in testa, con la borsa dei documenti sottobraccio (attenzione, Dùmini pronunciato sdrucciolo, con l’accento sulla u come infatti provvede a scriverlo Scurati nella sua minuziosa cronaca di quei giorni e dei mesi seguenti all’omicidio, cioè la più grave crisi vissuta dal fascismo fino ad allora in irresistibile ascesa.

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Comunque lo si giudichi, è politicamente magistrale il colpo di teatro con cui il Duce ne venne fuori, ribaltando la crisi in trionfo, sei mesi più tardi, assumendosi davanti a un Parlamento svuotato dell’opposizione e avviato alla sua irrilevanza, la responsabilità “politica, morale, storica” dell’accaduto. (“Se il fascismo è un associazione a delinquere, io sono il capo dei questa associazione!” eccetera). Discorsi in Parlamento ne aveva tenuti più di cento, Matteotti, intransigente e polemico. Sempre all’attacco con una buona scorta di dati a supporto dei suoi argomenti: ma quello del 30 maggio 1924 era stato davvero intollerabile per il primo ministro e per un Parlamento gremito di fascisti grazie a una legge elettorale supermaggioritaria, e soprattutto alle manganellate ai seggi elettorali che avevano spazzato via candidati e elettori d’opposizione. Doveva durare pochi minuti, il suo discorso, e durò un’ora per via delle interruzione e delle minacce che gli piovevano addosso.

 

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Era insomma un rompicoglioni, il deputato del Polesine, un “bel rompicoglioni”, come un innominabile ministro della nostra Repubblica non troppi anni fa ebbe modo di definire un giurista minacciato di morte, che infatti venne agevolmente ammazzato dalle Brigate Rosse. (E già che siamo in tema, mi sembra di ricordare un solo parlamentare sequestrato e ucciso per ragioni politiche, oltre a Giacomo Matteotti: si tratta di Aldo Moro.) In questa casa severa e triste, a Fratta Polesine, provo un sussulto che mi riporta alle letture fatte a otto, dieci, dodici anni, e cioè, le storie degli eroi. I miti, le imprese leggendarie.

 

L’epopea di Matteotti ha tratti cavallereschi. Questo perché una sua dote ha la meglio tra le molte altre, ed è il coraggio, virtù che diventa davvero sublime se associata a una piena consapevolezza del rischio. In fondo non ci vuole molto a essere scervellati, sprezzanti del pericolo, “guidare a fari spenti nella notte” e così via; altra cosa è correre un pericolo mortale per difendere un principio, cioè in quei momenti storici travagliati in cui “nulla subisce maggior violenza quanto la verità”. La minuziosa e metodica sfida all’avversario, basata su uno scabro elenco di fatti, il “metodo Matteotti” insomma, non ha nulla di retorico o sbruffonesco o suicidale, anche se lo condurrà puntualmente alla morte. “Io non accuso, racconto,” diceva, una massima valida non solo per l’azione politica, ma anche una buona ricetta per qualsiasi scrittore.

 

 

Non c’è nulla che irriti il potere politico quanto l’esposizione di fatti che non possono essere smentiti. Si arriva persino a capire Mussolini quando sbotta: “è inammissibile che dopo un discorso del genere quell’uomo possa ancora circolare!”. Del resto era stato lo stesso Matteotti a riconoscere la “necessità” del fascismo (sì, adoperò proprio questa parola, “necessità”) e vederne chiara la natura di “jacquerie borghese”. Il fascismo non era spuntato in Italia come un fungo, così, per caso, e i fascisti a loro volta non erano nati sotto un fungo, Matteotti lo aveva compreso benissimo, come solo i profeti inascoltati riescono a fare, illuminati da una fatale miscela di realismo e idealismo.

 

Idee e fatti mandano in bestia dittatori e seguaci. “Essere disprezzati e maltrattati da persone infami è cosa dolce per un uomo coraggioso” scriveva san Francesco di Sales: Matteotti combacia precisamente con questa figura, inclusa l’aura di santità che la circonda. E così, nelle ultime stanze della casa-museo di Fratta, è impressionante e meravigliosa la galleria di tributi che i movimenti libertari di tutto il mondo gli riservarono negli anni Venti e Trenta. L’immagine ieratica del martire viene replicata con ogni mezzo e su ogni supporto, manifesti, vignette, fondi e buoni di mutuo soccorso, francobolli dove il suo nome, anche storpiato, diventa un simbolo di lotta. Matteoti, scrivono i francesi, e quel nome ormai sacro viene trascritto in vari alfabeti, fino alla struggente ortografia di una anonima scritta su un muro: “W MATEOTI M IL DUCE”.

 

Usciti dalla villa corriamo al cimitero appena fuori dal paese, ma siamo di cinque minuti fuori orario, e il cancello è chiuso. Avvisto la cappella familiare in fondo al viale, è aperta, ci tornerò domani. Intanto penso a dove i rapitori lo scaricarono, massacrato, dentro una buca scavata col cric della macchina, così poco profonda che dovettero schiacciare il corpo a pedate per farcelo stare, come adesso qualche zozzone abbandona un vecchio materasso nelle stradine di campagna intorno a Roma per non doverlo portare in discarica. Il giorno seguente da Rovigo vengo accompagnato nel delta leggendario, dove Fetonte precipitò fiammeggiando col carro del Sole. La terra all’asciutto è parecchio più in basso dell’acqua, protetta da argini e da chiuse. Le barche ormeggiate davanti al paese di Santa Giulia recano nomi alati, Zeus, Anubi, Palladio, Babo (come lo schiavo ribelle di Benito Cereno), Avventuriero, Minosse.

 

Stiamo scivolando in un ramo che viene chiamato Po di Gnocca o Po della Donzella, il fiume ha un doppio nome dacché ci si è annegata per amore una ragazza: dunque, secondo un codice rigido e scontato (ah, la distinzione di classe prima di tutto nella lingua!), se l’infelice era una popolana prende il primo nome, se invece era una nobildonna prende il secondo… O forse erano due, le ragazze suicide, in verità mi sono un po’ distratto durante la spiegazione del barcarolo, Nicky, mi sono sperduto con lo sguardo che frugava nelle distanze oltre i canneti, e nel ronzio dei termini usati per designare questi luoghi irreali: le barene, le golene, le sacche, il Bonello Bacucco, la Barricata, Scano Boa. E’ di nuovo una formula magica di puri suoni.

 

Per lunghi tratti del nostro girovagare, più che il volo a pelo d’acqua degli uccelli che affollano il delta, mi calamitano i loro nomi: svassi, garzette, cormorani, ecco la spatola, il martin pescatore, ecco il marangone (c’era un calciatore campione d’Italia col Verona che si chiamava così, Luciano Marangon…), e poi gli ibis dal lungo funebre becco ricurvo, che immaginavo fossero solo in Egitto e nei geroglifici. Ingenuamente chiedo: “E questo, è il mare, vero?” quando sbuchiamo dal labirinto davanti a una piatta distesa interrotta solo dalla foschia di questo settembre tropicale. “Sì, è l’Adriatico”. Dunque non posso fare a meno di spogliarmi in mutande e buttarmi in acqua, che è calda, brodosa. I miei ospiti discretamente non commentano il mio discutibile slancio. Ho l’impressione forse banale di aver portato a termine un rito.

 

E poi di nuovo al cimitero di Fratta Polesine, verso l’orario di chiusura. Anche stavolta il cancello è sbarrato, porca vacca, sono di colpo isterico, non è possibile mancare una seconda volta all’appuntamento con la tomba. Quindi scopriamo che c’è gente rimasta chiusa dentro che sta tentando di uscire. Erano anche loro lì in pellegrinaggio per Matteotti, e ora prigionieri del cimitero di Fratta, e del suo cancello dalla cellula fotoelettrica impazzita… Dopo goffi tentativi strisciamo tra le ante, e siamo dentro. Il sole sta tramontando, le nostre ombre si allungano fino alla tomba, davanti alla quale pende sbiadito un vessillo del Psi. Sopra il sepolcro, coperto a metà da un tricolore e sull’altra metà dalla bandiera europea (mi chiedo: dove sarà la sua testa, e dove i piedi?), un mazzo di garofani rossi che ho paura di toccare per verificare se siano, come sembrano, finti.

 

Malgrado tutta la piattezza di questo luogo non-solenne, di questo momento rarefatto fino all’insensibilità, provo un’emozione fortissima, ma non sono capace di decifrarla. Struggimento? Rabbia? Insofferenza? Orgoglio, ammirazione? Desiderio di essere a quell’altezza? Ma quando mai? Il volto di Matteotti invece che farsi presente e luminoso nella mia mente, come nei manifesti di allora, si allontana, si dilegua. E sua moglie Velia: anche lei, che pure è sepolta qui, in un certo senso non c’è. Nella cappella Matteotti manca il nome di Velia Titta: lo omisero, per precauzione, quando lei morì e venne inumata accanto al marito, per impedire che venisse profanata. La cancellarono in anticipo affinché non fosse cancellata per sfregio. “Perché gli italiani credano, devono vedere il sangue”. Mi domando, allora: ci sarà bisogno di un sacrificio perché qualcuno capisca? E non è che, per l’ennesima volta, il sangue verrà versato invano?

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