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Alla Biennale teatro a Venezia idee e parole contro la censura

Il vero scandalo a teatro? Dire che conformismo e cancel culture uccidono l’arte

Stefania Vitulli

Provocazione, grottesco, sprezzatura o, in una parola, coraggio, sono scomparsi dalle scene insieme alla possibilità di fumare in sala, ai fischi, al pubblico pagante che rivendica il prezzo del biglietto

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C’è un’età per lo scandalo? Ovvero: esiste un’epoca, che per mancanza di visione o ansia di stabilità, fa dello scandalo la propria politica? Ma anche: possiamo dichiarare un’età anagrafica in cui si smetta di scandalizzarsi? In “About Lolita”, uno degli spettacoli presentati in questi giorni alla Biennale Teatro all’Arsenale di Venezia dalla compagnia Biancofango (segnatevi il nome della Lolita: Gaja Masciale, neodiplomata), si cita Thomas Bernhard, quando scrive che a 51 anni si può anche smettere di vivere: nel “Soccombente” in effetti a 51 anni Wertheimer si impicca. Ma Andrea Trapani e Francesco Villano, rispettivamente nei ruoli di un paio di Humbert Humbert possibili, vedono i cinquant’anni come il traguardo della noia, a meno che non intervenga il salvifico desiderio. Come dire: si può smettere di vivere, ma la ricerca del piacere non smette mai. Forse allora a cinquant’anni si smette di scandalizzarsi. Cos’è infatti lo scandalo se non lo scossone al velo della morale con cui incappucciamo il piacere che non abbiamo il coraggio, o la purezza, di concederci? Sono solo alcune delle domande che le mise en scène della Biennale Teatro pongono.

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C’è un’età per lo scandalo? Ovvero: esiste un’epoca, che per mancanza di visione o ansia di stabilità, fa dello scandalo la propria politica? Ma anche: possiamo dichiarare un’età anagrafica in cui si smetta di scandalizzarsi? In “About Lolita”, uno degli spettacoli presentati in questi giorni alla Biennale Teatro all’Arsenale di Venezia dalla compagnia Biancofango (segnatevi il nome della Lolita: Gaja Masciale, neodiplomata), si cita Thomas Bernhard, quando scrive che a 51 anni si può anche smettere di vivere: nel “Soccombente” in effetti a 51 anni Wertheimer si impicca. Ma Andrea Trapani e Francesco Villano, rispettivamente nei ruoli di un paio di Humbert Humbert possibili, vedono i cinquant’anni come il traguardo della noia, a meno che non intervenga il salvifico desiderio. Come dire: si può smettere di vivere, ma la ricerca del piacere non smette mai. Forse allora a cinquant’anni si smette di scandalizzarsi. Cos’è infatti lo scandalo se non lo scossone al velo della morale con cui incappucciamo il piacere che non abbiamo il coraggio, o la purezza, di concederci? Sono solo alcune delle domande che le mise en scène della Biennale Teatro pongono.

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Biennale escogitata dal direttore Antonio Latella che ha dato da sviluppare ai (giovani) registi e teatranti che predilige e seleziona un tema assai attuale, anche fuori dal mondo dell’arte, anche se di recente abbiamo imparato a chiamarla con altri nomi, come cancel culture: la censura. “Nascondi(no)” è infatti il titolo di questo “Padiglione Italia” (si è dovuto rinunciare a molte delle presenze straniere che si è soliti vedere in queste Biennali, per i noti motivi). Fino al 25 settembre ci sono 28 titoli per 40 recite, tutte novità assolute, divise tra classici ripresentati o rivisitati che abbiano subito censura in passato e nuove drammaturgie che mettano al centro il tema della revisione pubblica, della stigmatizzazione, della cancellazione dei contenuti artistici per aderire a precetti morali o ideologici.

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Ed ecco allora tornare in scena Nabokov, ma anche Sade, Baudelaire, Fassbinder, D’Annunzio. Ed ecco apparire, invece, sollecitati dalla spinta di Latella a lavorare sul rimosso, temi che a teatro si vedono troppo poco, per timore di spingere l’abbonato ad alzarsi dalla poltrona e a non tornare forse mai più. La poltrona vuota, grande incubo dei direttori artistici del Ventunesimo secolo, spinge così a una autocensura drammaturghi, registi, attori/autori, produttori. Provocazione, grottesco, sprezzatura o, in una parola, coraggio, sono scomparsi dalle scene insieme alla possibilità di fumare in sala, ai fischi, al pubblico pagante che rivendica il prezzo del biglietto.

 

In questi giorni, tra i lavori portati alla Biennale Teatro, qualche tentativo si è intravisto. Fabio Condemi ci ha provato con “La filosofia nel boudoir” (a ottobre all’India di Roma, a dicembre all’Astra di Torino) e il risultato è buono, lo si capisce dallo stato dei visceri all’uscita dalla sala. Si parte da un testo che, se non viene tradito, è già tutto, ma il regista ferrarese classe 1988 non si è fatto spaventare né dal nudo né dall’esibizione del crimine. Il nudo c’è, eccome: si vede tutto di ciò che c’è fuori e anche qualcosa di ciò che c’è dentro (Elena Rivoltini nel ruolo di Madame de Saint-Ange si cimenta in un nudo acrobatico che speriamo si riproponga anche in tournée, sempre per propiziare il ritorno dello scandalo), la masturbazione delle fanciulle si fa atto dovuto e il maschio, il bel Marco Fasciana, si espone con eleganza. La violenza si fa manifesto snob (snob è anche la mise en scène, in un’estetica jardin très chic e pittura) e a quel punto è disinfettata: la strepitosa Eugénie incarnata da Carolina Ellero (segnatevi anche questo nome) con le mani intrise del sangue della madre rimane un candido corpo di seta e cristallo lanciato contro la vita. Buono anche il tentativo dei Gordi, la compagnia milanese lanciata e protetta da André Ruth Shammah, che con le loro maschere hanno inventato un “modo teatrale”: qui hanno portato una drammaturgia originale, “Pandora”, ambientato in un bagno pubblico, dove fanno sfilare i nuovissimi mostri di questa contemporaneità. Una galleria che prevede qualche nudo necessario o grottesco e molti attacchi all’igienismo ossessivo: per rimanere umani (che scandalo) bisogna leccare, sputare, puzzare, strisciare su pavimenti lerci, sporcarsi di crema pasticcera o di feci o di urina, e soprattutto toccarsi, toccare e ritoccare. Attendiamo spasmodicamente tournée solo per riascoltare “El ciodo del fero vecio” cantato a cappella da due ciclisti nerboruti davanti all’orinatoio come inno alla sveltina nei cessi. Dovessimo però dire che cosa davvero dovrebbe arrivare in Italia in tournée, tifiamo per la ricerca di Daniele Bartolini, regista e drammaturgo italiano che da sette anni vive in Canada e ha portato in Biennale “The right way”. A tema la “cancel culture” che prevede per l’espressione una “patente”, concessa solo se si fa parte della comunità coinvolta nel concetto di cui si parla. Quella che Bartolini si ottiene con il suo spettacolo, in cui un solo spettatore alla volta si immerge in una esperienza con attori e pure casco per realtà virtuale. E’ la domanda delle domande, quando si parla di censura: chi decide che cosa si può dire e fare e come l’arte ne viene ferita? Il Canada è una nazione super politically correct e Bartolini lo specifica ben bene. Ma negli ultimi anni la “correzione” politica si è perfezionata al punto che rischia di trasformare le opere in sterile esercizio di stile. Per dimostrare che il rischio è concreto (all’inizio lo spettatore/neoregista viene avvertito: “Asseconda questa donna, qualsiasi cosa dica, o rischi di perdere questo tuo nuovo lavoro”), Bartolini ci porta su un set in cui due attori dovranno reinterpretare il primo incontro di Adamo ed Eva, discriminatorio dalle fondamenta, visto che Lei è un prodotto derivato da Lui. Né gli attori né il regista potranno “creare” alcunché, tuttavia: le regole della cancel culture, incarnate da una controller inflessibile, impediscono di evocare miti, emozioni, colonne sonore, se non passate al vaglio della livella antidiscriminatoria. Il risultato è esilarante e il pubblico italiano meriterebbe di vederlo in scena. Si spera che arrivi in tempo, prima che il “corretto immaginario” prenda il posto della realtà.

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