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Il tormento degli illustri

Quelle glorie di Francia che non hanno pace nel Panthéon

Giuseppe Marcenaro

La salma di Jean-Paul Marat entrava e usciva dall’apoteosi, a seconda dei tempi tra Bonaparte e la Rivoluzione, fino a quando non fu dispersa. Ora tocca a Rimbaud e Verlaine, amici e amanti, che oggi riderebbero della loro destinazione

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Per due superchiacchierati, per Arthur Rimbaud e per Paul Verlaine, potrebbero aprirsi le porte del Panthéon, il “sacrario” in cui sono venerati i corpi e le reliquie dei grandi di Francia. La petizione che chiede di trasferire i resti dei due poeti nel più storico mausoleo gallico è firmata da hommes des lettres e savants. Si vorrebbero traslare i resti di Arthur Rimbaud, riesumati dalla tomba nel cimitero di Charleville-Mézières, assieme a quelli di Paul Verlaine, tratti dal sepolcro di Batignolles, al Panthéon, proprio in quella specie di giostra funebre delle glorie francesi perché i due poeti “sono anche simboli della diversità, e hanno dovuto sopportare l’omofobia tipica della loro epoca”. La petizione prosegue: “Sarebbe un atto di giustizia farli entrare oggi al Panthéon, accanto ad altri grandi figure letterarie come Voltaire, Rousseau, Dumas, Hugo, Malraux”. Alla prospettiva di una tal consacration, dall’empireo poetico qualche attento, prima d’ogni commento, deve aver già inteso una fragorosa risata: proprio quella di Rimbaud e di Verlaine. Se la proposta – i due sublimi scapestrati sistemati in quel sinistro luogo imbarcati in un equipaggio di sontuosi – non suscitasse curiosità, la si potrebbe appunto intendere tipo una clamorosa boutade, somigliante a un coup di teatro da vaudeville. E però, drammaticamente, anche un modo di mettere in pericolo i loro resti. Per una curiosa “tradizione” governante l’ambiente che santifica i glorificati, il Panthéon è anche uno strepitoso andirivieni di salme di “grandi”: prima ammessi alla gloria e all’immortalità e poi, a spirar di vento avverso, sfrattati. Appunto: e se poi glorificati alla inumazione magna, nel tempo, qualcuno, qualche codino, rievocando la vicenda vitale Rimbaud e Verlaine s’impuntasse a volerli far sloggiare per palese immoralità?

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Per due superchiacchierati, per Arthur Rimbaud e per Paul Verlaine, potrebbero aprirsi le porte del Panthéon, il “sacrario” in cui sono venerati i corpi e le reliquie dei grandi di Francia. La petizione che chiede di trasferire i resti dei due poeti nel più storico mausoleo gallico è firmata da hommes des lettres e savants. Si vorrebbero traslare i resti di Arthur Rimbaud, riesumati dalla tomba nel cimitero di Charleville-Mézières, assieme a quelli di Paul Verlaine, tratti dal sepolcro di Batignolles, al Panthéon, proprio in quella specie di giostra funebre delle glorie francesi perché i due poeti “sono anche simboli della diversità, e hanno dovuto sopportare l’omofobia tipica della loro epoca”. La petizione prosegue: “Sarebbe un atto di giustizia farli entrare oggi al Panthéon, accanto ad altri grandi figure letterarie come Voltaire, Rousseau, Dumas, Hugo, Malraux”. Alla prospettiva di una tal consacration, dall’empireo poetico qualche attento, prima d’ogni commento, deve aver già inteso una fragorosa risata: proprio quella di Rimbaud e di Verlaine. Se la proposta – i due sublimi scapestrati sistemati in quel sinistro luogo imbarcati in un equipaggio di sontuosi – non suscitasse curiosità, la si potrebbe appunto intendere tipo una clamorosa boutade, somigliante a un coup di teatro da vaudeville. E però, drammaticamente, anche un modo di mettere in pericolo i loro resti. Per una curiosa “tradizione” governante l’ambiente che santifica i glorificati, il Panthéon è anche uno strepitoso andirivieni di salme di “grandi”: prima ammessi alla gloria e all’immortalità e poi, a spirar di vento avverso, sfrattati. Appunto: e se poi glorificati alla inumazione magna, nel tempo, qualcuno, qualche codino, rievocando la vicenda vitale Rimbaud e Verlaine s’impuntasse a volerli far sloggiare per palese immoralità?

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I tempi cambiano e le menti e le isterie degli uomini sono sempre in agguato. E poi c’è la perenne e curiosa vocazione dei viventi: occuparsi, si fa per dire, del destino dei defunti, traslandoli per ogni dove a soddisfare capricci con la scusa di volerne onorare la memoria. I viventi non si stancano mai di giocare con salme e ceneri. Intanto per la mania di grandeur dei viventi: con la scusa di onorare chi non c’è più esaltano se stessi, specie in un gioco dell’oca mortuario come nel Panthéon parigino, dove è successo di tutto secondo lo spirare delle correnti della storia: da quanto Luigi XV fece voto di edificare una chiesa sul colle di Sainte-Geneviève, patrona di Parigi. L’edificio medesimo seguì il corso degli avvenimenti. Dopo il 1789 il governo rivoluzionario ne mutò il carattere: da santuario a mausoleo laico per le importanti personalità nazionali. Nel 1821 il restauratore Luigi XVIII decretò il ritorno alla destinazione originaria: chiesa consacrata al culto di Sainte-Geneviève. Da lì a poco, il 15 agosto 1830 la monarchia di luglio ripristina la destinazione laica. Ma dura poco. Nel 1851 la Seconda repubblica decreta che l’edificio è una chiesa. E finalmente nel 1885, con la solenne “entrata” nella somma giostra della salma di Victor Hugo, viene decisa la definitiva soppressione della chiesa di Sainte-Geneviève e la perpetua destinazione laica del Panthéon. E in questo mutar di venti anche i simboli esteriori venivano cambiati: la croce cristiana quale insegna messa e tolta dalla sommità dell’edificio. Insomma un continuo darsi da fare per anche esteriormente riconoscere destino e aura del mausoleo dei grandi il primo dei quali ad aver avuto l’onore del sommo avello, nel 1791, fu il “rivoluzionario” Honoré Mirabeau, accompagnato alla gloria da un solenne funerale organizzato con la regia del pittore Jacques Louis David.

 

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Meno di tre anni dopo, alla scoperta che Mirabeau aveva trescato segretamente con Luigi XVI, la bara dell’ “immortale” fu fatta uscire dal Panthéon da una porta laterale. I resti dispersi e gettati nelle fogne di Parigi. Tutto questo avveniva in simultanea all’ingresso nel Panthéon, dalla porta principale, della salma di Marat. Ma tempo dopo, considerato Marat un traditore, anche lui seguì l’identica sorte di Mirabeau. La salma sfrattata dall’apoteosi e dispersa. Un vero e proprio trambusto mortuario senza contare le inopportune vicinanze che si possono percepire sotto la solenne cupola: Jean-Jacques Rousseau sta proprio accanto al suo nemico di sempre, Voltaire, il quale a un certo punto rischiò l’espulsione: era ritenuta intollerabile la sua presenza all’interno di una chiesa. Fu Luigi XVIII a evitarne l’exit dicendo che Voltaire era abbastanza punito dal dover ascoltare la messa tutti i giorni. Sotto l’ incombente cupola del Panthéon, un visitatore attonito con la bocca a uovo di piccione per lo stupore, emozionato di stare così vicino a esemplarità sul confine del sacrale, è per un attimo distratto dal Pendolo che Foucault nel 1851 fece sistemare qui per una dimostrazione scientifica della rotazione della terra. E’ il punto geodetico attorno cui ruotano nelle rispettabili urne i ritenuti degni di quell’esclusivo “giacimento” che in un surreal immaginario si potrebbe assimilare a un grand hôtel extralusso. Va a vedere l’orgoglio (e passabilmente la superbia) di sostarvi, magari per il tempo consentito dai capricci della storia e dalle fisime incostanti degli uomini. Ma, a proposito, ma Rimbaud e Verlaine? Dove li mettiamo? Vicino a Malraux o ad Alexandre Dumas padre. Uno accanto all’altro. Da evitarsi, dicono a Parigi, alcuni, prudentemente: potrebbero essere confusi con una coppia gay. E qui è forse il caso di rievocare, ancora una volta, la loro “amorosa” historia.

 

Tagliarono la corda lasciandosi alle spalle pettegolezzi, liti, malignità e sghembe stramberie. Lasciarono Parigi per liberarsi dal groviglione di illazioni che avevano suscitato. Paul con una esibita teatralità aveva abbandonato moglie e un figlio appena nato. Arrivarono a Londra l’8 settembre 1872. Con l’aiuto di alcuni esulti della Commune, che Paul andò a cercare, trovarono alloggio al n. 34-35 di Howland Street, Fitz-Roy Square. Arthur studiava l’inglese ed era riuscito ad ottenere la tessera d’accesso alla biblioteca del British Museum. Per guadagnare qualche soldo avevano fatto pubblicare annunci sul quotidiano The Echo offrendo lezioni di francese. Paul aveva ventinove anni e Arthur diciannove. Esploravano la città. Uno accanto all’altro, sulle panchine dei parchi e nei pub leggevano. Parlavano. Erano una coppia di giovani uomini dediti alla passione letteraria. Frequentavano qualche artista francese in esilio: Félix Régamey li avrebbe ritratti mentre passeggiavano per Londra. A casa Paul ricopiava le poesie di Arthur. Da Parigi, “buoni consigliori” esortando Paul perché tornasse suscitavano dissidi con Arthur. Dopo una breve separazione si ritrovano ancora a Londra e insieme abitano un sordido alloggio all’8 Great College Street. Vivono una rinnovata avventura. Assistono alle rappresentazioni del teatro francese in tournée con la celebre attrice Aimée Desclée; vanno a vedere l’ensamble dell’Alcazar di Bruxelles che mette in scena Offenbach al St.James Theatre. Di giorno esplorano le sponde del Tamigi, facendosi impressionare dall’operosa umanità che gremisce le banchine dei docks.

 

Dopo una vitalistica ed euforica esaltazione le necessità del quotidiano finirono per trasformare la squallida spelonca di Great College Street in una gabbia dove Paul e Arthur litigavano come lavandaie ebbre, rinfacciandosi tutte le miserie del mondo. In preda al furore Verlaine abbandonò il “nido londinese”. Raggiunse Bruxelles. Ad Arthur, rimasto nel livido alloggio, aveva inviato una lettera zeppa di recrimini: “Tengo anche a confermarti che se tra tre giorni da oggi non sarò da mia moglie in condizioni perfette, mi tiro un colpo. Il mio ultimo pensiero sarà per te, che mi chiamavi e io non ho voluto tornare. Non ci vedremo più”. Come un gatto che fa le fusa, Arthur rispondeva: “Ritorna amico caso, unico amico, ritorna. Ti giuro che starò buono… Sono due giorni che non smetto di piangere. La parola vera è: ritorna, voglio stare con te, ti amo. Se ascolti questo, mostrerai uno spirito sincero. Ma io ti amo, ti bacio e ci rivedremo”. Citazione al “calor bianco”, incipit di una storia nota. Dopo averlo raggiunto a Bruxelles, era adesso Arthur a voler abbandonare Paul, il quale inondato di assenzio, in presa a un crisi di disperazione, gli sparò due colpi: uno andò a vuoto, l’altro lo ferì al polso. L’occhiuta polizia e i giudici di Bruxelles non riuscivano a capire il movente che stava dietro alla sceneggiata conclusasi con il ferimento di Arthur. Tutta la storia si sarebbe capita se si fosse trattato d’una begha tra malemmi che s’erano sparacchiati per spartirsi il malloppo; o anche l’esagerato esito di una baruffa tra due ubriaconi: che i due anche erano, ma non fu l’alcol la scintilla. S’avvia l’indagine, con l’ombra della moglie di Paul sullo sfondo che curiosamente era arrivata a Bruxelles a riprendersi il marito. Al giudice istruttore venne qualche sospetto sul tipo di amicizia che legava i due litigiosissimi compari.

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La natura del rapporto fu negata fino allo stremo. “Siamo stati addirittura accusati di rapporti immorali ma non voglio darmi la pena di smentire simili calunnie”, fu l’indignata e principesca dichiarazione di Arthur durante l’interrogatorio. Per poter arrivare all’imputazione e alla condanna, Verlaine fu sottoposto a un’ispezione corporale che si svolse la mattina del 16 luglio 1873. Il giudice Théodore Serstevens del Real Tribunale dei Belgi voleva provare “scientificamente” ciò che il suo incrollabile positivismo aveva intuito. Dopo aver prestato giuramento di totale riservatezza su quanto si apprestavano a fare, i medici Semel e Vlenninky di Bruxelles, entrarono nella cella dove un esausto detenuto di nome Verlaine Paul, di 29 anni, nato a Metz, nudo come un verme, fu esaminato con sapiente e microscopico furore per trovare sul suo corpo le tracce dell’abominio: “Le penis est court et peu volumineux, le glande est surtout petit…”, si legge nella relazione dei due scienziati, “L’anus se laisse dilater…par une écartement modéré des fesses, en une profondeur d’un pouce environ”. Da questi “segni”, formalizzati dalla scienza, il tribunale trasse la deduzione “che Verlaine Paul, di professione letterato, porta sulla sua persona tracce abitudinarie di pederastia attiva e passiva, che fanno sospettare delle consuetudini inveterate e antiche, e delle pratiche più o meno recenti”.

 

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Dopo la condanna, per combattere la profonda depressione in cui era caduto, Verlaine accettò di ricevere la visita del cappellano del “castello” di Mons. La sofferenza pesava sul suo animo rendendolo fragile, docile alle influenze. Viveva atmosfere di edificazione religiosa. Scrisse un dialogo poetico intitolato “Jésus m’a dit…”, accanto a cui pose un dolente canto dedicato ad Arthur, “Figliuol prodigo dai gesti di satiro”. Mentre Paul stava rinchiuso nel carcere di Mons, Arthur tornò a Charleville, la sua città natale. Nel granaio della ferme su cui dominava la madre, l’inflessibile Vitalie Cuif veuve Rimbaud, in preda a una febbrile creatività, Arthur completò l’opera sua più nota “Une saison en enfer”. L’avrebbe fatta pubblicare a Bruxelles nel 1875, con i soldi prestati dalla madre. che, per istinto, aveva forse cominciato a sospettare qualche genialità nello scapestrato figlio che, intanto, lasciata l’odiata Charleville prese a girare per l’Europa cominciando a costruire un itinerario tanto fantastico quanto illusorio sul quale da sempre si avventano vagheggiando i suoi più appassionati cultori. Attraverso le lettere che Arthur inviava a un compagno di scuola Ernest Delahaye, ormai l’unico blando rapporto con la città natale, ormai scarcerato, da Parigi Paul ne “spiava” gli spostamenti ironizzando: les voyages forment la jeunesse. Era a Stoccarda, “per studiare il tedesco” quando Paul riuscì a individuarlo e a scovarlo al 2 di Marien Strasse. Il 5 marzo 1875 Arthur scrisse all’amico Delahaye: “Verlaine è arrivato qui l’altro ieri, con un rosario tra le grinfie. Tre ore dopo avevamo rinnegato il suo dio e fatto sanguinare le 98 piaghe di N.S. E’ rimasto per due giorni, molto ragionevole”.

 

Fu allora che Arthur gli affidò un manoscritto che con titolo “Illuminations” Paul avrebbe pubblicato anni dopo; era certo che Paul sarebbe diventato uno dei più importanti poeti francesi del suo tempo, e anche generosamente disponibile a sostenere chi era capace di “creare letteratura”. Non si sarebbero mai più incontrati. Per Arthur altro vagabondare, fin all’estremo abbandono della “stramba Europa” per approdare all’avventura africana. Salpò da Genova il 19 novembre 1878. Allorché si videro l’ultima volta a Stoccarda erano passati cinque anni da quando, partito da Charleville, Arthur “sbarcava” a Parigi invitato da Paul, che, lette alcune sue poesie gli aveva scritto: “Venite subito, grande anima, vi aspettiamo”. Quando arrivò e incontrò la combriccola dei poeti parnassiani, presentato da Paul come un prodigio poetico, Arthur aveva già scritto alcuni capolavori e ne era consapevole. I poeti riuniti sotto l’insegna dei Vilains-Bonshommes, l’associazione di letterati dalle belle speranze, si riuniva attorno a un tavolo per l’agape sociale, una volta al mese. La cena cui fu ammesso il ragazzo di Charleville si tenne il 30 settembre 1871, in una sala del mezzanino sopra una mescita della place Saint-Sulplice. La serata era onorata dalla presenza di Théodore de Banville, uno dei ‘pontefici’ d’allora intervenuto per conoscere di persona il poeta delle Ardenne da cui aveva letto il manoscritto di “Ce qu’on dit au poète à propos des fleurs”, e ne era rimasto profondamente colpito.

 

Dal giorno del suo arrivo a Parigi, Arthur non fu mai solo. Paul lo accompagnava ovunque. Colpiti da folgore, trascorrevano insieme i giorni e le notti. Ebbri di vitalità e d’assenzio, vagavano come sonnambuli estasiati. Si perdevano tra la folla, si nascondevano nelle bettole. Parlavano. Continuavano a parlare. Esistevano soltanto loro, uno per l’altro. Furono giorni di confidenze estreme e passione. Paul aveva intuito la strana e potente genialità di Arthur e se ne era ubriacato. “Si trattò, in principio – ricorderà in “Confessions” – non di una attrazione, di una simpatia qualsiasi tra due nature diverse, quella del poeta e la mia; piuttosto di una ammirazione, un vacillamento estremo di fronte a un ragazzo di sedici anni che aveva scritto delle cose al di sopra e al di là della letteratura”. La fatale sera del 30 settembre 1871 Arthur lesse i suoi versi. Cominciò con quelli del “Bateau ivre”: “Comme je descendais des fleuves impossibles”. Soggiogante l’effetto che fecero. Attorno a una tavola in disordine, fumando, i parnassiani ascoltavano esterrefatti. Nessuno riuscì a dissimulare il proprio stupore. “Leggeva i suoi versi senza enfasi e senza intonare la voce. Sembrava un ragazzino che stesse confessando una grande pena, con una sorta di urgenza interna”. Il ragazzo venuto da Charleville stava mettendo in scena il proprio ideale: diventare altro da sé. Io è un altro.

 

Alla cena dei Vilains-Bonshommes, Paul e Arthur era arrivati confusi in loro stessi. Tutti si resero conto di una più che esibita intesa. La sorte aveva predisposto per entrambi. Da quei giorni il loro nome e le loro vite saranno uniti per sempre. Da allora a Parigi saranno Paul e Arthur a dare senso e illusoria postuma notorietà a un cartellone di sconosciuti, ammessi per una comparsata sulla scena. Senza i due sarebbe impossibile evocare fantasmi di poeti inabissati nel tempo. Tutta gente spinta verso le lusinghe della fama, verso il miraggio dell’immortalità ingannevole, propria del letterato disperso nella confusione dell’esistente. La citazione di un nome determina la gloria di un attimo. Riesuma un letterato che deve ai due “sciagurati” l’illuminazione momentanea della propria vita soltanto attraverso il nome. Salvo acribie accademiche di natura entomologica, la memoria ha quasi cancellato anche il più celebre: Banville, un decano; e anche il povero Coppée, dalla prospettiva mancata, che sopravvive soltanto perché vittima sacrificale di Arthur che scriveva versi scurrili imitando il suo stile: i celebri falsi Coppée. Coppée cercò di difendersi dicendo che Arthur era un imbroglione, un mistificatore, un piazzista. I soi disant letterati d’allora: un cimitero scomparso.

 

Riaffiorano perché quella sera stavano a un simposio letterario, ognuno con le proprie ansie e le orgogliose ambizioni. Ritornano perché hanno spettegolato e si sono scandalizzati del modo di vivere di due confreres. Per loro Arthur grondava impazienza e sinistro candore, era un cinico disabusato, un gran balordo timido. Paul un satiro impenitente. Qualcuno si pentì di un’occasionale frequentazione: aver bevuto con i due al medesimo tavolo. Alcuni accettarono di posare per Fantin-Latour nel celebre Coin-de-table, il ritratto di gruppo con i due ‘diversi’. Mérat volle essere cancellato dal dipinto. Il pittore fu costretto a ‘coprirlo’ con un vaso di gerani. Improvvida decisione quella di Mérat: gli sfuggì l’occasione dell’immortalità, sia pure di una comparsa. Lo scandalo suscitato da un innamoramento poetico, letteratura come vita, con declinazioni da conciergerie dilagò certo dalle violente deprecazioni della moglie di Paul. Ma l’onda della ciarla dilagò tra la società delle lettere. Per i due fu usata la nomenclatura “del caso”: da sodomiti a tutta la sproloquieria ironico-sbrindellato-sconcio per passare forse a omosessuali, una definizione che cominciò a circolare allora, coniata nel 1869 dal letterato ungherese Karl-Maria Kertbeny. Più tardi lo schizzinoso Remy de Goncourt avrebbe visto Arthur soltanto come un marmocchio mitragliato di acne, un pustoloso. Ma chi non poté conoscerlo per ragioni generazionali e lo incontrò soltanto leggendolo lo venerò: Paul Claudel lo ammirava come l’illuminatore di tutte le strade dell’arte, della religione e della vita; Jacques Rivière paragonò idealmente il giovane encombrant al messaggero terribile di un’apocalisse.

 

Ma tanto Claudel quanto Rivière non avevano mai incontrato il ragazzo di Charleville. Stéphane Mallarmé non lo aveva conosciuto. Visto soltanto una volta. Gli era sembrato un “angelo in esilio”, un’aria fieramente e malamente cresciuta “da ragazza del popolo, di condizione lavandaia per le sue grandi mani arrossate dai geloni. La bocca dalla piega scontrosa e beffarda”. Non avrebbe certo immaginato che la propria poesia, con quella di Tristan Corbier, sarebbe “finita”, nel 1884, assieme a quella di Arthur nella celebrata edizione dei Poètes maudits. Il “mito” fu infinito come una diffusa ciarla. Il 20 ottobre 2004 venne battuta all’asta presso il celeberrimo Hôtel Drouot a Parigi una lettera. S’accese una vivace competizione tra quanti volevano mettere le mani sul reperto. Ignoto l’acquirente. Si trattava della lettera di uno sconosciuto a un altro sconosciuto. Scritta su carta sontuosamente istoriata in blu di prussia, “Compagnie du chemin de fer franco-éthiopien de Djibuti à Addis-Abeba”, la missiva era partita da Dia-Daouna il 16 dicembre 1911. Un oscuro Adolphe Mariette inviava a un altro supercarneade, certo Pierre Quillard, spacciandogli una vecchia storia. La raccomandazione era sottintesa: di ciò che raccontava nessuno deve sapere niente. La ciarla era tagliata su un tipo vissuto da quelle parti più di vent’anni prima: “Ah, a proposito di A. Raimbaud (sic, anche impreciso questo Mariette) a seguito di una mia indagine ho appreso ch’egli passava qui per un sodomita (passif) universalmente apprezzato dai residenti della savana imboscati in queste parti al tempo del suo soggiorno. Le persone che mi hanno informato ignoravano che Raimbaud (di nuovo sic) fosse un poeta, e ancora di più fosse accusato di fare il bel cascamorto con Verlaine. Mi hanno voluto dire che era un usuale trafficante d’armi di contrabbando. Raimbaud (sempre sic) era un bel tipo, un ragazzo gentile. Comunque è morto e il suo ‘Bateau ivre’ se non gli conferirà immortalità, gli consentirà comunque diritto all’epitaffio di ragazzaccio prodigioso”.

 

Cosa importasse a quei due modelli di curiosità quale vita conducesse Rimbaud quand’era in Africa è un mistero: allorché, abbandonata la poesia, era diventato “un altro”. Quando la lettera fu vergata Rimbaud era morto da vent’anni e diffusa la sua fama di poeta. I due epistografi, Mariette e Quillard, fanno parte di quella curiosa schiera di tipi che, a diverso titolo, si sorpresero, con voluttà, d’averlo forse incrociato, vantandosene. Anche se era un pellestorta. Senza l’insensatezza della ciarla nessuno ricorderebbe più i vari Bardey, Grisard, Righas, Sotiro, Vaillant mercanti che Rimbaud incrociò in Africa e soprattutto Pierre-Eugène Dufour alias Paterne Berrichon, l’intrigante che aveva sposato la torpida Isabelle, sorella di Arthur, al solo fine di mettere le mani sulle carte di Rimbaud, farne commercio e “assemblare” una inattendibile edulcorata biografia per “difendere” l’onore familiare. Grazie all’attenta cura di Paul Verlaine, dal 1888, i versi di Rimbaud venivano celebrati. Qualcuno gli scrisse in Africa: “Forse non sapete che siete diventato una specie di figura leggendaria”. Non rispose. Stava ormai in un’altra dimensione. Partì la caccia ai dettagli della sua esistenza. La drammatica morte avvenuta il 10 novembre 1891 nell’Hôpital de la Conception di Marsiglia aumentò la dose. Un mese dopo Arthur Rimbaud entrava nel cimitero di Charleville, inumato in una tomba nei pressi dell’ingresso, a sinistra entrando.

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