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La mafia immaginaria

Andrea Minuz

Da “In nome della legge” a Montalbano, così cinema e tv hanno trasformato il racconto di Cosa nostra

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Nell’Italia del dopo Covid le repliche di Montalbano hanno assunto un sapore ancora più sinistro. L’ennesimo ciclo di vecchie puntate era partito a fine marzo, in pieno lockdown, per “far fronte all’emergenza del Coronavirus” (così recitava il comunicato Rai), ma in quel momento tutta la tv era un flusso indistinto di “programmi registrati prima del dpcm sul Coronavirus” e Montalbano era solo uno dei tanti. Poi l’emergenza è rientrata, le scuole hanno riaperto, la televisione è ripartita, hanno rimesso in lockdown quelli del “Grande Fratello”, ma le repliche sono rimaste. Lunedì scorso, davanti a una puntata del 2016, il déjà-vu che evoca ormai ogni puntata di Montalbano ci parlava anche di qualcos’altro. Ecco che quella Sicilia arcaica, muta, immobile diventava la metafora perfetta di questo periodo sospeso, raggelato, intrappolato in una temporalità ciclica, tra un’emergenza alle spalle, l’incubo dei nuovi contagi e un vaccino che c’è ma non c’è ancora. Una metafora limpida, cristallina, perfetta. D’altronde, in un’ideale sala d’attesa del purgatorio italiano, nel brutto televisore a diciotto pollici sulla parete scrostata, sopra il display eliminacode (rotto), trasmetterebbero in loop una replica di Montalbano.

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Nell’Italia del dopo Covid le repliche di Montalbano hanno assunto un sapore ancora più sinistro. L’ennesimo ciclo di vecchie puntate era partito a fine marzo, in pieno lockdown, per “far fronte all’emergenza del Coronavirus” (così recitava il comunicato Rai), ma in quel momento tutta la tv era un flusso indistinto di “programmi registrati prima del dpcm sul Coronavirus” e Montalbano era solo uno dei tanti. Poi l’emergenza è rientrata, le scuole hanno riaperto, la televisione è ripartita, hanno rimesso in lockdown quelli del “Grande Fratello”, ma le repliche sono rimaste. Lunedì scorso, davanti a una puntata del 2016, il déjà-vu che evoca ormai ogni puntata di Montalbano ci parlava anche di qualcos’altro. Ecco che quella Sicilia arcaica, muta, immobile diventava la metafora perfetta di questo periodo sospeso, raggelato, intrappolato in una temporalità ciclica, tra un’emergenza alle spalle, l’incubo dei nuovi contagi e un vaccino che c’è ma non c’è ancora. Una metafora limpida, cristallina, perfetta. D’altronde, in un’ideale sala d’attesa del purgatorio italiano, nel brutto televisore a diciotto pollici sulla parete scrostata, sopra il display eliminacode (rotto), trasmetterebbero in loop una replica di Montalbano.

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L’idea della Sicilia come metafora dell’Italia, cara a Sciascia, è alla base dell’ultimo libro di Emiliano Morreale, critico cinematografico, firma di Repubblica, studioso e docente universitario, che si lancia nell’impresa un po’ folle di sistematizzare, analizzare e interpretare tutto o quasi il cinema di mafia, con l’appendice non trascurabile di fiction, serie tv, media, da “La Piovra” a “Montalbano” e oltre. Si intitola, “La mafia immaginaria. Settant’anni di Cosa Nostra al cinema, 1949-2019” (Donzelli, 344 pagine, in copertina il faccione di Alberto Sordi in “Mafioso”, di Alberto Lattuada), ma non è un elenco di film e sceneggiati, né una specie di “Mereghetti” o “Morandini” con la coppola e la lupara. Morreale prova a mettere insieme le traiettorie del cinema italiano, le vicende di mafia e l’uso scenografico della Sicilia intrecciandoli intorno a tre motivi di fondo, vale a dire: 1) l’idea che “quando si trova in difficoltà davanti alle grandi contraddizioni politiche e sociali, il cinema italiano sceglie non di rado di evadere in quella metafora dell’Italia che è la Sicilia”; 2) il fatto che la mafia “è una delle merci più vendibili del mondo, più della Dolce vita, più della cucina” e 3) la consapevolezza che “nessun film o prodotto televisivo ha mai scosso il mondo di Cosa nostra”. Anzi. Da Lucky Luciano che morì d’infarto a Napoli poco prima di incontrare il produttore americano che progettava un film su di lui, a Giovanni Brusca, arrestato mentre guardava il film di Giuseppe Ferrara su Falcone, a Michele Catalano, esponente del clan Lo Piccolo, acciuffato con la tv accesa sul “Capo dei capi”, la fiction Mediaset su Riina, Cosa nostra ha sempre avuto un debole per il cinema. Anche troppo.

 

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Lo notava già Michele Greco parlando nell’aula bunker al maxiprocesso di Palermo, in un passaggio ormai celeberrimo: “Io le posso dire una cosa, signor presidente: che la rovina dell’umanità sono certi film, film di violenza, film di pornografia. Perché se Totuccio Contorno avesse visto ‘Mosè’ e non ‘Il Padrino’, non avrebbe calunniato l’avvocato Chiaracane… invece Totuccio Contorno, purtroppo, ha visto ‘Il Padrino’”. Quello di Salvatore Contorno, detto “Totuccio”, uomo fidato di Stefano Bondate, era insomma un problema di gusti cinematografici: si fosse lasciato ispirare da Charlton Heston, “Mosé” in Technicolor e Cinemascope nei “Dieci Comandamenti” di De Mille, anziché da Marlon Brando e dai picciotti di Coppola, non staremmo qui neanche a celebrare il processo. Michele Greco non potrà nulla neanche contro l’inarrestabile vocazione cinematografica del figlio, Giuseppe Greco, che nel 1981 prova a cavalcare l’ultima ondata della commedia sexy all’italiana producendo, coi soldi del padre, “Crema, cioccolata e pa…prikà”, con Renzo Montagnani, Barbara Bouchet e un cameo di Franco e Ciccio: un disastro al botteghino e uno dei rari casi di investimento finanziario sbagliato della mafia. Lo arrestano dopo aver trovato le magliette promozionali del film a casa di un latitante e scoperto che la macchina usata sul set era una Mercedes gentilmente messa a disposizione da Nino Salvo. Ma Giuseppe Greco con Cosa nostra non aveva in realtà nulla a che fare. Assolto in Cassazione, esce indenne dal processo e nel 1992 cambia nome per poter proseguire indisturbato la sua attività artistica.

 

A firma di Giorgio Castellani (il cognome della madre) usciranno, “Vite Perdute”, una specie di sequel di “Meri per sempre”, altro disastro al botteghino, e “I Grimaldi”, ritratto epico-elegiaco del padre Michele, un “grande affresco, pieno di dramma, di passione, di sentimento”. Qui siamo all’apoteosi. L’attore scelto per interpretare “Il Papa” (Adriano Chiaramida, la cui somiglianza con Michele Greco, come ricorda Morreale, è impressionante) viene doppiato da Peppino Rinaldi, la voce italiana di Don Vito Corleone nel “Padrino” di Coppola. Il cortocircuito è completo. “Sublimazione di una mafia arcaica e contadina”, il film di Giuseppe Greco scompare ben presto dalle sale ed è oggi quasi invisibile (ne conserva una copia positiva la Cineteca Nazionale), ma la carriera ricca di flop di questo sfortunato Ed Wood della mafia resta uno tra i capitoli più bizzarri e commoventi della storia cinematografica di Cosa nostra. Sempre al maxiprocesso di Palermo spunteranno fuori anche i primi legami tra boss e set cinematografici. Scrive infatti Morreale che il cinema di denuncia non solo non scuote, ma al contrario “può essere una fonte di affari”. La storia del cinema italiano “è piena di racconti sulle autorizzazioni più o meno indirette delle mafie locali alle troupe venute da Roma. Nel 2011 le intercettazioni hanno documentato l’interesse della famiglia di Porta Nuova per la fiction “Squadra antimafia”, tramite il nipote del capomandamento Calogero Lo Presti che faceva da service per la produzione” (c’è tutto in “Enzo, domani a Palermo!”, il film di Ciprì e Maresco del 1999, sgangherata storia di Enzo Castagna, organizzatore cinematografico siciliano che collaborò con De Sica, Pasolini, Tornare, e finì condannato per una rapina di mafia).

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Pare insomma che la rete di relazioni tra il cinema e la mafia non sia meno complessa dell’imprendibile groviglio mafia-politica. Siamo di fronte a una materia incandescente, insidiosa, smisurata. Occuparsi dei film di mafia significa finire a scrivere “un bel mammozzone”, come mi diceva qualche tempo fa Morreale mentre stava finendo il libro. Perché “La mafia immaginaria” non è solo una storia dei professionisti del “mafia-movie” (termine in uso nel mondo anglosassone, dove ci si è prodigati in studi e ricerche importanti sul fenomeno), ma un lavoro che si interroga sugli usi tattici, strategici, simbolici del “film di Mafia”. Sul “senso culturale” di questa copiosa produzione e su come, quanto e perché il cinema ha contribuito alla costruzione del nostro immaginario sulla mafia e i mafiosi. Il cinema italiano (Morreale lo precisa subito) non ha quasi mai raccontato davvero la mafia. Si è casomai inventato “un mafiaworld parallelo, che ha influenzato la percezione del fenomeno da parte dell’opinione pubblica, e perfino i modo in cui i mafiosi si sono visti”. Così, “anziché chiederci quanto il cinema sia stato attendibile nel raccontare Cosa nostra” (pochissimo) si va “alla ricerca delle regole di funzionamento di un genere, raccontando la sua formazione e il suo senso culturale”. Si parte quindi con Pietro Germi. Il 1949 del titolo è l’anno di “In nome della legge”, un western alla John Ford ambientato in Sicilia con un finale apologetico che all’epoca notano in pochi, ma che col tempo ha trasformato “In nome della Legge” nel nostro “The Birth of a Nation”, con gli uomini d’onore di una volta al posto del “last minute rescue” del Ku Klux Klan di Griffith. Poi, per tutti gli anni Cinquanta, “in concomitanza con un sostanziale silenzio dell’opinione pubblica e dei mezzi di informazione principali, la mafia è assente dagli schermi”. Il passaggio decisivo si gioca tra il 1962 e il 1963, con “Salvatore Giuliano” di Rosi, “Mafioso” di Lattuada, “Un uomo da bruciare” di Valentino Orsini e Paolo e Vittorio Taviani.

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A dicembre del ’63 viene istituita la Commissione parlamentare antimafia, e nel giro di pochi mesi escono (per Einaudi), “Il giorno della civetta” di Sciascia e “Mafia e politica” di Michele Pantalone, il saggio che fornisce alla borghesia degli anni Sessanta, specie a quella del continente, “il più efficace schema interpretativo del fenomeno”. In quel momento, la lettura che ne dà il cinema italiano è in gran parte quella di “un fenomeno feudale legato al mancato sviluppo economico”. Una lettura che naturalmente è centrale anche nel “Gattopardo”, ma che nel decennio successivo si innesterà sulle forme del cinema politico, esplorando zone d’ombra, misteri, complicità dello Stato in un arco che arriverà fino al “Divo” di Sorrentino e al bacio tra Riina e Andreotti, una scena che nel film sembra più uno spot Mibact contro l’omofobia che un pezzo di denuncia civile. Si può parlare dei film di mafia come un genere? Sì e no. Di fronte alla mafia, il cinema italiano ha più che alto squadernato tutti gli schemi narrativi e i generi a disposizione, con una certa prevalenza del cinema civile, certo, ma anche con varie anomalie ed eccentricità inclassificabili: il musical di Roberta Torre, “Tano da morire”, i lavori di Ciprì e Maresco, o una formidabile trilogia hardcore con Selen, “Concetta Licata”, che sfiancata da quasi quattro ore di orge in prigione diventerò collaboratrice di giustizia e simbolo immacolato dell’antimafia. Siamo d’altronde nel 1994, a ridosso delle stragi di Capaci e via d’Amelio che, si capisce, cambiano tutto. Da lì in poi le immagini della cronaca, le invenzioni del cinema e della fiction, le fiaccolate, i lenzuoli, le marce contro “tutte le mafie”, i vini della legalità fatti con l’uva dei terreni confiscati alla mafia, diventano un unico gigantesco “mammozzone”. La vedova Schifani in lacrime che chiede ai mafiosi di inginocchiarsi ai funerali per i morti di Capaci è l’icona di un sistema di immagini dove c’è dentro ormai tutto.

 

Si arriva così al diluvio di fiction sulla mafia di questi anni, ai biopic a forma di santino su giudici, inquirenti, giornalisti, si arriva a Pif e alla “necessità di costruire una memoria pedagogica dell’antimafia” (è il 2013, sul palco della Leopolda Pif si lancia in un’arringa contro la mafia letta su un iPad con la cover rossa, come l’agenda di Borsellino: nasce “l’antimafia pop”). Oggi però la mafia è “vintage”, un “sottoinsieme di modernariato filmico e televisivo d’epoca”. Come ricorda Morreale, “non lo si è notato spesso, ma negli ultimi vent’anni nessun film su Cosa Nostra è ambientato al presente”. Tranne uno: il folle, apocalittico e nichilista, “La mafia non è più quella di una volta”, di Maresco. E’ “una versione molto per i poveri della ‘Società dello spettacolo’ di Guy Debord”, dice Maresco intervistato da Morreale, perché “della mafia oggi non si parla più se non nelle fiction” e “tutto è allo stesso livello: mafia, antimafia, cerimonie istituzionali”. Se parli con i giovani sottoproletari, dice Maresco, ti rispondono, “mi piacerebbe fare il killer, ma se non posso anche il carabiniere va bene”. Oppure c’è l’insopprimibile fascino del pittoresco, la Sicilia turistica dei romanzi di Camilleri dove la mafia, “è un ingrediente tra gli altri, ma non quello decisivo”. Con Montalbano si torna infondo alla Sicilia dei primi delitti di mafia, al mondo feudale, alle foto di Natale Gaggioli, reporter palermitano che dedicò la sua vita a documentare i morti ammazzati di Cosa nostra. Come ricorda Morreale, “Gaggioli si portava sempre dietro una pala di ficodindia, la pianta simbolo di una Sicilia circondata dal mare, inondata dal sole, conosciuta nel mondo per la sua conca d’oro o la cima innevata dell’Etna”. Quando Gaggioli arrivava sul luogo del delitto, dava un’occhiata alla luce, faceva due calcoli, piazzava il suo ficodindia vicino al cadavere, quindi scattava. La spiegazione era semplice: “Se non le facessi così, le mie fotografie oltre lo Stretto non le comprerebbe nessuno”.

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