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Il quadro ecologico

Valentina Bruschi

Da New York fino all’Italia, le gallerie si fanno sempre più verdi. Koolhaas, dopo avere spasimato per Manhattan, ora torna alla natura

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Le gallerie d’arte diventano verdi: il luogo ideale di Cosimo Piovasco di Rondò, il celebre Barone Rampante del romanzo di Italo Calvino, che dopo un litigio con il padre, decide di trascorrere la vita sugli alberi e di non scendere più a terra. Immaginiamo Cosimo correre felice da Parigi a Milano fino ai pini di Villa Borghese a Roma, saltando di ramo in ramo sulle opere-alberi di artisti contemporanei, oggi che il tema ecologico è diventato centrale nella produzione di molte mostre. Forse Cosimo scambierebbe idee con Greta Thunberg e con i ragazzi di Fridays for Future sulla potenza vivifica della natura. Nel percorrere Central Park, lo immaginiamo incuriosito osservare il grande trattore parcheggiato sul marciapiede della Fifth Avenue davanti all’ingresso del Guggenheim Museum di New York, una macchina di oltre 15 tonnellate, gestibile in remoto tramite computer. Una trattrice supertecnologica per coltivazione intensiva voluta dall’archistar e scrittore Rem Koolhaas per stupire i passanti distratti e invitarli a visitare la sua mostra “segna-tempo” dal titolo, “Countryside, The Future”, aperta lo scorso febbraio al Guggenheim, poco prima del lockdown in Europa.

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Le gallerie d’arte diventano verdi: il luogo ideale di Cosimo Piovasco di Rondò, il celebre Barone Rampante del romanzo di Italo Calvino, che dopo un litigio con il padre, decide di trascorrere la vita sugli alberi e di non scendere più a terra. Immaginiamo Cosimo correre felice da Parigi a Milano fino ai pini di Villa Borghese a Roma, saltando di ramo in ramo sulle opere-alberi di artisti contemporanei, oggi che il tema ecologico è diventato centrale nella produzione di molte mostre. Forse Cosimo scambierebbe idee con Greta Thunberg e con i ragazzi di Fridays for Future sulla potenza vivifica della natura. Nel percorrere Central Park, lo immaginiamo incuriosito osservare il grande trattore parcheggiato sul marciapiede della Fifth Avenue davanti all’ingresso del Guggenheim Museum di New York, una macchina di oltre 15 tonnellate, gestibile in remoto tramite computer. Una trattrice supertecnologica per coltivazione intensiva voluta dall’archistar e scrittore Rem Koolhaas per stupire i passanti distratti e invitarli a visitare la sua mostra “segna-tempo” dal titolo, “Countryside, The Future”, aperta lo scorso febbraio al Guggenheim, poco prima del lockdown in Europa.

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“Le campagne sono cambiate drasticamente sotto l’influenza del riscaldamento globale, dell’economia di mercato, delle aziende tecnologiche e della politica. Oggi le campagne sono il luogo in cui si concentrano le forze più radicali e moderne della nostra civiltà, dove si sperimentano nuove trasformazioni scientifiche e sociali” afferma Koolhaas. Poco dopo l’inaugurazione, ai primi di marzo, la mostra viene chiusa a causa dell’emergenza da Covid-19, quando si decidono le stesse procedure di lockdown anche nella Grande Mela. Ora, tra poche settimane, il Guggenheim si prepara a riaprire al pubblico il 3 ottobre e il termine della mostra-evento è stata posticipata all’anno prossimo. Molto è stato scritto sul radicale cambiamento dell’oggetto di analisi del pensiero di Koolhaas, che nel 1978 era stato l’ideatore della celebre mostra-manifesto, sempre al Guggenheim, “The Sparkling Metropolis” e del fortunato libro, “Delirious New York”. Quarantadue anni fa Koolhaas analizzava la “manhattanizzazione” del mondo in uno studio che definiva “manifesto retroattivo” perché ripercorreva la storia urbanistica di New York diventata la città dello stupore e dell’imprevedibile. In realtà oggi la tendenza evidenziata da Koolhaas – l’esodo dalle campagne verso le grandi aree urbane in crescita esponenziale come le megalopoli asiatiche – si è in gran parte compiuta. Quella visione era frutto di un periodo storico preciso, all’alba degli rutilanti anni Ottanta, quelli del presidente Ronald Regan e dell’ascesa della finanza di Wall Street, quando Koolhaas celebrava la bellezza esaltante di quella metropoli che all’epoca lo affascinava. Architetture verticali e ardite, quasi una scalata verso il cielo, per l’architetto olandese erano espressione del “delirio” di New York: “La sua moltiplicazione all’infinito della Cultura della Congestione Totale”. Questa cultura secondo Koolhaas era il volano di Manhattan, l’ingranaggio che, giorno per giorno accelerava la sua macchina spettacolare. “Countryside” è curata dall’archistar insieme a Samir Bantal direttore di AMO, il think tank per la ricerca dello studio OMA, l’Office for Metropolitan Architecture, fondato da Koolhaas nel 1975 di cui è il braccio operativo nonché l’acronimo al contrario. Un’esposizione “che non ha nulla a che fare con l’arte”, precisa Koolhaas, prodotta insieme agli studenti di quattro università del mondo: la Harvard Graduate School of Design, la Central Academy of Fine Arts di Pechino, l’Università di Wageningen nei Paesi Bassi e l’Università di Nairobi.

 

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Attraverso una serie di casi emblematici, le trasformazioni della campagna sono illustrate lungo i sei livelli del museo americano sotto forma di una grafica, stampata su una carta da parati, che sale lungo la spirale del museo prima di lasciare posto a immagini, film, materiali d’archivio, installazioni robotiche e analisi Big-data che rappresentano la molteplicità di voci e testimonianze raccolte durante la ricerca, sollevando questioni sul futuro dell’agricoltura, dell’alimentazione, sui cambiamenti climatici e le migrazioni dei popoli. A causa dell’emergenza pandemica, quando la popolazione chiusa in appartamenti cittadini sognava gli spazi aperti della campagna in piena primavera, la mostra di Koolhaas è stata erroneamente interpretata come un elogio del mondo bucolico, dove le persone si sarebbero sentite più libere, non condizionate da un “distanziamento fisico”. Ma in realtà il “futuro” al quale allude il titolo della mostra non significa che andremo tutti a vivere in campagna, quanto il sottolineare che è nelle zone rurali non urbanizzate che si cercano le chiavi per uno sviluppo sostenibile del pianeta e quindi per la conservazione delle città. Tempeste e incendi ci inchiodano davanti ad un’emergenza che non si può più ignorare e in tutto il mondo si svolgono mostre per educare il pubblico sull’importanza di salvaguardare il pianeta in cui viviamo. I percorsi espositivi offrono un modo alternativo di ricevere le informazioni: piuttosto che leggere articoli e cercare notizie da soli, in casa davanti ad uno schermo, le mostre (pandemia permettendo), consentono al pubblico di interagire in modo creativo e imparare con gli altri.

 

Guardando ad alcune delle istituzioni culturali più all’avanguardia ci si rende conto che, dalla quantità di esposizioni dedicate all’ecologia in tutto il mondo, siamo di fronte ad un vero e proprio movimento che ha origine dal mondo dell’arte e della cultura con l’obbiettivo di incidere sulle coscienze per generare consapevolezza e cambiamento. Infatti, il maggiore organismo mondiale di coordinamento museale, l’Icom – International council of museums – ha recentemente riformulato la definizione stessa di museo, istituzione preposta non solo alla conservazione e valorizzazione dei beni culturali, ma anche piattaforma per il dibattito sulle questioni urgenti della società, come le discriminazioni e l’ambiente. Uno dei primi musei d’Europa a ricevere il certificato Ecolabel, lo stesso che si trova sulle confezioni dei prodotti del supermercato per la qualità ecologica dei prodotti e dei loro processi di produzione è stata la Kunst Haus di Vienna, diventata “green museum” dal 2014, sotto la direzione di Bettina Leidl. Tra le rassegne in Italia c’è stata Manifesta 12 a Palermo nel 2018, con un titolo eloquente, “Il Giardino Planetario – coltivare la coesistenza” e la mostra “Foresta Urbana” in una osmosi di opere d’arte tra il Museo Riso e la città. L’anno scorso la Triennale di Milano ha raccontato i legami, oggi compromessi, che uniscono le persone alla natura, e sulle soluzioni possibili per ricostituirli in “Broken Nature – il design per la sopravvivenza umana” curata da Paola Antonelli del MoMA di New York. Uno spazio speciale della Triennale è stato dedicato alla sezione “La nazione delle piante”, un’esposizione divulgativa e immersiva curata da Stefano Mancuso, tra le massime autorità mondiali nel campo della neurobiologia vegetale e tra i consulenti dell’altra grande mostra, “Trees” alla Fondation Cartier di Parigi, che l’anno scorso restituiva agli alberi il giusto ruolo compromesso dall’antropocentrismo. L’esposizione raccoglieva anche le testimonianze, artistiche e scientifiche, di chi è in grado di guardare con meraviglia il mondo vegetale, come afferma il filosofo Emanuele Coccia: “Non c’è niente di puramente umano, il vegetale esiste in tutto ciò che è umano, e l’albero è all’origine di ogni esperienza”.

 

Un’altra mostra che ha riaperto da poco dopo il lockdown è “Among The Trees” alla Hayward Gallery di Londra, che riunisce il lavoro di quaranta artisti internazionali che ci invitano a “pensare ai ruoli essenziali che gli alberi e le foreste svolgono nella nostra vita e nella nostra psiche”, come dichiara il curatore Ralf Rugoff, ex direttore dell’ultima Biennale di Venezia. In questi giorni si è concluso un concorso internazionale di progettazione che invitava designer, architetti, accademici, artisti, poeti, filosofi, scrittori a ripensare radicalmente l’istituzione museale, rendendola un soggetto protagonista di azioni a favore dell’ambiente. Il risultato sarà presentato a Glasgow l’anno prossimo e tra i giurati troviamo la giovane curatrice italiana Lucia Pietroiusti, ideatrice di “General Ecology”, il programma speciale e continuo della Serpentine Gallery di Londra avviato da oltre due anni con incontri, mostre e approfondimenti interdisciplinari, tra cui “Back to Earth” partito lo scorso aprile. Tornando in Italia, da pochi giorni si è aperta nel parco di Villa Borghese, “Back to Nature”, a cura di Costantino d’Orazio, un festival con concerti e incontri per valorizzare la natura dei parchi storici della Capitale attraverso l’arte contemporanea che include spettacolari installazioni ambientali di Mario Merz e Edoardo Tresoldi, tra i tanti, oltre alla personale di Benedetto Pietromarchi a cura di Paolo Falcone nel Museo Bilotti nell’Aranciera, dove l’artista ha realizzato sculture inedite dando nuova vita a radici rovesciate. Un modo per riscoprire la socialità all’aperto tra storia, natura e creatività contemporanea. Si tratta di un movimento che nasce da quegli artisti che vivono di intuizioni visionarie e che da diversi lustri lavorano su queste tematiche, evidentemente poco recepite, finora, dal sistema globale e dalla società dei consumi. Oggi, tra i più famosi c’è Olafur Eliasson che quest’estate ha creato una app che permette ai bambini di far parlare gli oggetti e le piante, lanciando milioni di messaggi da condividere con il mondo, per sensibilizzare – soprattutto gli adulti – sulla difesa degli ecosistemi. Marco Scotini, curatore del Pav – Parco Arte Vivente – fondato dall’artista Piero Gilardi nel 2002, in un’ex area industriale fuori Torino per focalizzare l’attenzione su progetti che legano l’arte alla natura, ha posto l’accento sulla concezione ecologica già presente nel lavoro degli artisti italiani, tra gli anni Sessanta e Settanta, quando si parlava ancora di “difesa” dell’ambiente e non si era ancora arrivati al famoso “punto di non ritorno”. Tra questi, Gianfranco Baruchello (classe, 1924), che nel 1973 fonda l’Agricola Cornelia S.p.a., sottraendo terre alla speculazione edilizia intorno alla Capitale, per unire agricoltura e cultura dieci anni prima dello spettacolare intervento di Joseph Beuys alla VII Documenta di Kassel, l’appuntamento quinquennale dell’arte mondiale, dove posò le pietre per la piantumazione di 7.000 querce, un’opera aperta e ancora in divenire. E gli oceani che sono gli indicatori più allarmanti del cambiamento climatico in atto? La mecenate Francesca Thyssen-Bornemisza – figlia del famoso collezionista Hans Heinrich, che mise insieme la più grande collezione d’arte dopo quella della Regina Elisabetta, ora esposta nell’omonimo museo di Madrid – ha creato la Fondazione TBA21 a Vienna nel 2002, da cui nel 2011 è nato un ramo operativo, la TBA21-Academy, per studiare gli oceani unendo i diversi saperi scientifici con il linguaggio dell’arte.

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L’anno scorso l’Academy ha aperto uno spazio espositivo in Italia, l’Ocean Space, nell’ex chiesa di San Lorenzo a Venezia, “città monumento all’Antropocene”, che adesso espone la mostra “Ocean Transformations” dello studio londinese Territorial Agency con diverse video installazioni che mostrano l’intensità delle attività dell’uomo sulle acque del pianeta, e sulla cui facciata è proiettata una linea orizzontale continua di luce led gialla che segna il possibile futuro livello del mare entro la fine del 21 ° secolo e, allo stesso tempo, segnala che c’è ancora tempo per attuare misure drastiche per prevenire tale risultato. Dagli oceani al mar Mediterraneo, si torna in Sicilia, alla Fondazione Federico II di Palermo, diretta da Patrizia Monterosso, che ha dato poco inaugurato la mostra “Terracqueo”: un percorso articolato in 8 sezioni e 324 reperti, dalla geologia ai giorni nostri, passando per il commercio, le guerre, le navigazioni e l’archeologia subacquea, con un reportage fotografico contemporaneo che racconta il grande dramma delle migrazioni, causate anche dai cambiamenti climatici. La mostra include un capolavoro senza tempo: la scultura in marmo alta quasi due metri dell’Atlante Farnese (II sec. d.C.) dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli che – come sottolinea Milan Kundera – ci ricorda che l’uomo porta sulle spalle il suo destino come il gigante Atlante si è fatto carico del peso della volta celeste.

 

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