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Scrivere della depressione

Campbell, Carrère e il punto della salvezza

La depressione raccontata dal comunicatore inglese e dallo scrittore francese. Due viaggi molto diversi e un incontro

Paola Peduzzi

L'ex spin doctor di Blair scrive di depressione per aiutare anche gli altri, lo scrittore francese a volte non vuole aiutare nemmeno se stesso

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La prima volta che Alastair Campbell mi ha parlato della sua depressione è stato a Firenze, nell’aprile del 2018. Io volevo discutere del governo giallo-verde che si stava formando in quel periodo, della Gran Bretagna frastornata dalla Brexit, del futuro della sinistra soprattutto, il Labour e non solo, ma lui girava attorno al buio, al suo e a quello di questa stagione politica, intrecciandoli. Era in Italia per partecipare a un seminario internazionale sulle malattie mentali, ripeteva il suo slogan – “Dobbiamo parlare” – come se stesse guidando il movimento di liberazione contro il tabù della depressione. Era senza pudore, così come “Living Better”, il memoir-manuale che Campbell ha appena pubblicato nel Regno Unito, è senza pudore, perché nascondersi, mentire, fingere è uno sforzo che se sei depresso non riesce a sostenere – e non serve a nulla. Campbell dice tutto, con candore e brutalità, non si assolve mai, ringrazia la sua famiglia, va a cercare le origini di queste sue ossessioni psccotiche, le rintraccia nei suoi fratelli, in suo padre, in suo figlio, crolla, si rialza, si commuove e fa commuovere, e infine guarda oltre. Il racconto personale è una guerra logorante in cui non ci si salva mai, Campbell non si salva mai: mi aveva raccontato che è in grado di riconoscere i sintomi della depressione in arrivo, ha preso dimestichezza con questo suo precipitare, eppure la conoscenza e l’esperienza non servono, “è sempre come la prima volta”. Uguale, anzi peggiore, perché pensavi di aver trovato il modo di prevenire e circoscrivere questo buio e invece no: vince  lui. 

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La prima volta che Alastair Campbell mi ha parlato della sua depressione è stato a Firenze, nell’aprile del 2018. Io volevo discutere del governo giallo-verde che si stava formando in quel periodo, della Gran Bretagna frastornata dalla Brexit, del futuro della sinistra soprattutto, il Labour e non solo, ma lui girava attorno al buio, al suo e a quello di questa stagione politica, intrecciandoli. Era in Italia per partecipare a un seminario internazionale sulle malattie mentali, ripeteva il suo slogan – “Dobbiamo parlare” – come se stesse guidando il movimento di liberazione contro il tabù della depressione. Era senza pudore, così come “Living Better”, il memoir-manuale che Campbell ha appena pubblicato nel Regno Unito, è senza pudore, perché nascondersi, mentire, fingere è uno sforzo che se sei depresso non riesce a sostenere – e non serve a nulla. Campbell dice tutto, con candore e brutalità, non si assolve mai, ringrazia la sua famiglia, va a cercare le origini di queste sue ossessioni psccotiche, le rintraccia nei suoi fratelli, in suo padre, in suo figlio, crolla, si rialza, si commuove e fa commuovere, e infine guarda oltre. Il racconto personale è una guerra logorante in cui non ci si salva mai, Campbell non si salva mai: mi aveva raccontato che è in grado di riconoscere i sintomi della depressione in arrivo, ha preso dimestichezza con questo suo precipitare, eppure la conoscenza e l’esperienza non servono, “è sempre come la prima volta”. Uguale, anzi peggiore, perché pensavi di aver trovato il modo di prevenire e circoscrivere questo buio e invece no: vince  lui. 

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Quel che Campbell non riesce a fare quando sta male prova a farlo quando sta bene, e scrive scrive scrive. Il suo intento è sensibilizzare, perché la politica e cambiare le cose è la sua  dipendenza più grande, quindi dopo aver indagato il male su di sé, lo spin doctor, il comunicatore, il giornalista sbuca fuori per spiegare agli altri come si sopravvive. Questa parte del libro, con gli elenchi, le teorie, le scale di misurazione (la sua è al contrario: se sei a 1 sei euforico, se sei a 10 sei morto, lui è arrivato a 9, quando vuoi morire, ed è convinto, s’è convinto che al 10 non arriverà) e i consigli è quella cui Campbell tiene di più, perché applica  alla malattia mentale il suo pragmatismo scozzese: se ne esce, si può vincere.

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Ho letto “Living Better” assieme a “Yoga”, l’ultimo romanzo di Emmanuel Carrère sulla sua depressione (un rientro scoppiettante), due mondi lontanissimi che si avvicinano in un punto preciso. Carrère voleva scrivere un manuale sullo yoga, si è ritrovato in un ospedale dove è stato sottoposto a quattordici elettrochoc, precipita e riesce a raccontarsi e raccontare, esatto come solo lui sa essere. Non vuole aiutare nessuno a sopravvivere, a volte nemmeno se stesso, tutto ruota attorno a lui e al male e al sapersi e saperlo raccontare, soltanto alla fine si proietta fuori da sé, si getta ancora  nelle “vite che non sono le mie”. E’ qui che il comunicatore britannico e lo scrittore francese si ritrovano. Nell’altro.  Carrère in un’isola, Campbell in sua moglie Fiona, che è la protagonista della sopravvivenza e scrive nel manuale la sua parte della storia, quella in cui devi andare a nuotare molto spesso per ritrovare la forza di convivere e quella in cui non devi mai dire  “non è niente” se non lo pensi per davvero. E’ qui, nell’intreccio con le vite degli altri, nell’amore per gli altri, che si ritrovano Campbell e Carrère, il punto della salvezza.

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