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Le ragazze di Omero

Nadia Terranova

Provate a ribaltare con le voci delle donne le grandi epopee finora narrate solamente dagli uomini. Scoprirete Penelope che parla delle ancelle impiccate da Ulisse e Frine che vince sull’imperatore

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Il grande Achille. Il luminoso, splendido Achille; Achille simile a un dio. Montagne di epiteti che le nostre labbra non hanno mai pronunciato. Per noi era solo un macellaio”. L’incipit del libro di Pat Barker, Il silenzio delle ragazze, pubblicato da Einaudi Stile Libero nella traduzione di Carla Palmieri, è diventato da qualche anno un esempio di come si possa riscrivere una storia eterna con uno sguardo nuovo ma senza grottesche forzature di significato: non è necessario impoverirla, stravolgerla, cambiare il finale. Basta uno spostamento impercettibile ma titanico, basta capovolgere la prospettiva. Barker non tradisce né travisa le parole omeriche, piuttosto ne aggiunge altre, quelle delle schiave e delle mogli. Provateci: tornate all’Iliade dopo aver letto Il silenzio delle ragazze, che racconta la guerra di Troia con lo sguardo di Briseide, la cui identità è segnata dai suoi proprietari a partire dal nome, per lei infatti Omero usa il patronimico, indicandola come figlia di Briseo, sacerdote di Apollo. Ma Ippodamia, così il suo vero nome, era una principessa, data in sposa al troiano Minete, ucciso da Achille che la volle parte del bottino. Fu poi reclamata da Agamennone, che la chiese in sostituzione di Criseide. Con lei inizia la storia di Omero, con una donna contesa da due uomini. E se fosse stata lei a narrarla?

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Il grande Achille. Il luminoso, splendido Achille; Achille simile a un dio. Montagne di epiteti che le nostre labbra non hanno mai pronunciato. Per noi era solo un macellaio”. L’incipit del libro di Pat Barker, Il silenzio delle ragazze, pubblicato da Einaudi Stile Libero nella traduzione di Carla Palmieri, è diventato da qualche anno un esempio di come si possa riscrivere una storia eterna con uno sguardo nuovo ma senza grottesche forzature di significato: non è necessario impoverirla, stravolgerla, cambiare il finale. Basta uno spostamento impercettibile ma titanico, basta capovolgere la prospettiva. Barker non tradisce né travisa le parole omeriche, piuttosto ne aggiunge altre, quelle delle schiave e delle mogli. Provateci: tornate all’Iliade dopo aver letto Il silenzio delle ragazze, che racconta la guerra di Troia con lo sguardo di Briseide, la cui identità è segnata dai suoi proprietari a partire dal nome, per lei infatti Omero usa il patronimico, indicandola come figlia di Briseo, sacerdote di Apollo. Ma Ippodamia, così il suo vero nome, era una principessa, data in sposa al troiano Minete, ucciso da Achille che la volle parte del bottino. Fu poi reclamata da Agamennone, che la chiese in sostituzione di Criseide. Con lei inizia la storia di Omero, con una donna contesa da due uomini. E se fosse stata lei a narrarla?

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“Una volta, non troppo tempo fa, ho tentato di uscire dalla storia di Achille e non ci sono riuscita. La mia storia comincia adesso”, scrive la Briseide di Barker. Annie Ernaux ha scritto di aver sentito il potere di svicolarsi dalla vergogna e dalla condizione di vittima, di prendere il controllo su quello che le era successo nella vita, nel momento in cui ha cominciato a scrivere. Così, sempre più autrici sentono la necessità di guardare al mondo classico sottolineando, rafforzando o ribaltando le voci delle donne finora narrate dagli uomini. Mogli, schiave, ancelle, amanti, maghe: come sono le storie che conosciamo da sempre raccontate dal loro punto di vista? Come sarebbero state se a raccontarle fossero state loro stesse?

 

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Il canto di Penelope di Margaret Atwood (pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie nella traduzione di Margherita Crepax) è una messa in discussione della banalizzazione della moglie di Odisseo, percepita come donna paziente, fedele, pacata, un modello di virtù che resiste ai Proci e aspetta il suo uomo, tiene buono il figlio, piange, prega, non esce di casa, mentre lui attraversa il Mediterraneo innamorandosi di donne e di isole. Atwood fa parlare Penelope dall’Ade, morta e finalmente libera di dire la verità, e intorno muove il coro delle sue dodici ancelle impiccate da Odisseo e Telemaco perché erano state le amanti dei Proci. Scopriamo così una donna ironica, tagliente, audacemente poetica, vivida e dalle virtù non solo reattive. Scopriamo storie di donne sopravvissute in mondi maschilisti e gretti. “L’Odissea di Omero non è l’unica versione della storia”, scrive Atwood, “Il mito aveva tradizioni orali e locali, poteva essere raccontato in modo diverso a seconda del luogo di provenienza. Io non ho tratto il materiale per questo libro solo dall’Odissea, soprattutto per quanto riguarda i particolari sulle origini di Penelope, sugli anni giovanili e sulle voci scandalose che circolavano sul suo conto”. Tornano il rovesciamento della prospettiva e il dare spazio a voci che si levano quando si sono zittite le altre: “Ora che tutti gli altri hanno parlato a perdifiato, è giunto il mio turno. Lo devo a me stessa. Ci sono arrivata per gradi: narrare è un’arte minore, la esercitano donne, anziane, mendicanti girovaghi, cantanti ciechi, ancelle, bambini – gente che ha tempo a disposizione.”

 

Dopo aver letto Atwood o Barker, tornare al testo omerico è un’esperienza arricchente che non toglie nulla al capolavoro ma aiuta a congiungere dettagli, ne aumenta la ricezione in profondità e complessità. Se le riscritture sciatte tendono a banalizzare e non fanno venire voglia di conoscere l’originale (propinare la versione edulcorata e immiserita di una storia dà anzi la falsa illusione di conoscerla), quelle con un preciso punto di vista e una robusta conoscenza del testo aumentano il desiderio di avvicinarsi o riavvicinarsi al classico che le ha ispirate. A volte diventano dei classici a loro volta. Se avete letto Jane Eyre parteggiando per Jane e poi Il grande mare dei Sargassi di Jean Rhys, che è la storia di Bertha, la moglie pazza di Rochester, avrete voglia di rileggere Brontë per cogliere quello che lo sguardo di Jane non aveva voluto vedere, e poi di nuovo Rhys per capire meglio la denuncia del colonialismo nelle sue pagine. Tornando al mito e all’Odissea, a tutte le donne che vi compaiono è dedicato un libro di Marilù Oliva, L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre (Solferino), in cui Penelope è innanzitutto una madre infuriata per il trattamento che un branco di estranei arroganti sta riservando al figlio. Ninfe e dee, intanto, osservano gli uomini, scisse tra l’amore e il senso di superiorità: “I mortali sono noiosi e prevedibili”, ammette Calipso, “ma il cuore mi infonde il desiderio di rivedere l’eroe e toccare la sua pelle ispessita dalle tante traversie”, mentre per Atena lo sguardo è decisamente più altezzoso – “Gli uomini, diversamente da noi che viviamo la fisicità solo come impulso momentaneo, si illudono che essa sia un viatico verso l’infinito”. Splendido l’attacco delle sirene: “E’ da tanto che io e le mie sorelle aspettiamo che passi qualcuno per spolparlo di carni e midollo e lasciar poi luccicare le sue ossa al sole, come miriadi di trofei scolpiti dalla morte che decorano le coste della nostra isola. Non è per malvagità che noi Sirene ci nutriamo dei naviganti e di chiunque si imbatta nella zona del nostro canto, no: noi siamo così perché lo siamo diventate, predatrici del mare per necessità, fameliche perché non abbiamo mai ricevuto nulla, un sorriso, una coppa di acqua che disseta, un’offerta da mani amiche”. Sirene colte nella loro origine rapace, con magnifiche piume rosse, viola e verdi, sono anche nelle illustrazioni di Daniela Tieni che corredano un libro di Giulia Caminito destinato ai bambini (Mitiche. Storie di donne nella mitologia greca, pubblicato dalla Nuova Frontiera JR). A seguire, le Moire chiudono un viaggio cominciato con Pandora e passato per Penelope, Medea, Antigone e altre, in una sfida riuscita, trovare un equilibrio fra la complessità e l’atrocità del racconto antico e la fame di storie dei più piccoli. “Dalla prima donna all’ultima, dalla moglie all’assassina, dalla fedelissima alla terribile”, scrive Caminito, “ogni creatura pensava d’essere libera”.

 

In realtà non lo sono né le donne né gli uomini: “Neanche gli dèi, neanche Zeus stesso, potevano niente di fronte a chi decretava la vita e la morte”. La sorte è una trama di fili, l’umanità una grande tela e le tessitrici sono creature dalle sembianze di vecchie signore, né maghe né dee, né madri né spose. Le Moire sono il capitolo più affascinante di Mitiche: Cloto che sceglie i fili, Lachesi che le intreccia e Atropo che li taglia hanno un potere superiore perfino alla volontà di Zeus. Per loro le vite degli umani non sono reali, esiste solo il gioco incantato della tessitura: i corpi sono filamenti, le anime intrecci. L’incessante lavoro delle tre ha un nucleo armonioso e terribile, ali di mistero e di inafferrabilità. Comandano tutti i fili: la morte portata da Pandora – è con lei che Caminito comincia –, il legame fra Odisseo e Penelope, la ragnatela di Aracne: “Tra le dita nodose delle Moire passarono i fili di ogni mortale, loro videro sorgere templi, cadere città, conobbero guerre perse, battaglie vinte, osservarono i soldati venire feriti e le donne nascondersi in casa, nulla le mosse a dispiacere, ma come meccanismi perfetti continuarono a ordire, senza piangere per il dolore o sorridere della bontà”. Sempre per i più piccoli, già Beatrice Masini, in un libro ormai diventato un classico (Signore e signorine. Corale greca, pubblicato da Einaudi ragazzi), ha raccontato la bellezza e il coraggio delle creature greche, da Alcesti a Lisistrata, facendo comprendere anche agli adulti ragioni diverse dietro scelte appiattite troppo spesso su un unico racconto.

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Uno sguardo diverso sui sentimenti e sull’eros lo offre Eva Cantarella, nel libro Gli amori degli altri (La nave di Teseo), con i racconti di eroine e dee, da Alfeo e Aretusa a Edipo e Giocasta. Ma è nel capitolo dedicato ai rapporti che esulano da eros e philia che troviamo le due categorie di donne meno narrate tra le mortali: le prostitute. Da un lato le pornai, donne che si vendevano per pochi soldi per strada e nei bordelli, dall’altro le hetairai, che accompagnavano gli uomini in tutte le occasioni sociali da cui le mogli greche erano escluse. Nessun uomo avrebbe voluto partecipare a un banchetto di soli uomini e per ogni donna onesta sarebbe stato disdicevole esserci: per fortuna, le etere erano invitate ai simposi a discutere di filosofia, di politica e di pettegolezzi, e potevano vivacizzare conversazioni a rischio di noia. Venivano pagate non solo per avere rapporti sessuali con il loro accompagnatore, ma anche per la loro intelligenza e brillantezza, questo faceva sì che il legame si trasformasse spesso in qualcosa di duraturo ed esclusivo. Tra le etere, potevano esserci donne che grazie alla loro bellezza, perspicacia e cultura diventavano famose, come Frine, che durante la festa di Poseidone a Eleusi entrava in mare nuda e con i capelli sciolti, una visione tanto ammaliante da avere ispirato famose Afroditi di scultori e pittori. Frine aveva amministrato sé stessa così bene da essere diventata ricchissima, e quando Alessandro Magno aveva raso al suolo Tebe si era offerta di ricostruire la città a sue spese, a patto di essere ricordata in una targa che avrebbe dovuto recitare così: “Alessandro l’ha distrutta, Frine l’ha fatta rinascere”. La città si rifiutò di considerare una donna (e una prostituta, per giunta) più grandiosa di un imperatore: piuttosto che quell’umiliazione, meglio non ricevere neppure una moneta. In fondo, la storia della messa a tacere delle donne è la storia di una millenaria ottusità: da qualche parte Frine se la sta sempre spassando, e i tebani stanno ancora cercando i soldi per rialzarsi.

 

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