Il dolore e la morte. Non ci salverà la tecnica

Sergio Belardinelli

È davanti all’uomo sofferente che irrompe il senso della nostra umanità. L'esempio dei medici rimasti vicini ai pazienti durante la pandemia

In questo tempo di coronavirus il dolore e la morte hanno fatto di nuovo irruzione sulla scena pubblica. Avevamo fatto di tutto per rimuoverli o quanto meno per non farli vedere; forse ci eravamo persino illusi di poterli sconfiggere; invece sono ritornati entrambi in tutta la loro scandalosa, incomprensibile e ineluttabile realtà. Le immagini dei camion militari che nottetempo portano via le bare dagli ospedali di Bergamo resteranno impresse per sempre nella nostra memoria. Dopo esserci illusi che tutti i nostri problemi fossero soltanto problemi “tecnici”, quei camion ci riconducono bruscamente alla fragilità della nostra condizione umana; dovrebbero dirci qualcosa sui limiti del nostro potere, il potere della medicina, della scienza e della tecnica, e invece ci gettano in una sorta di sconforto per essere stati abbandonati al dolore e alla morte.

 

Impariamo così a nostre spese come la nostra epoca sempre più tecnicizzata ci tolga con una mano ciò che ci offre con l’altra. I progressi della medicina ci aiutano a fronteggiare e guarire malattie che fino a ieri uccidevano senza essere nemmeno conosciute, ma al tempo stesso fa crescere in maniera esponenziale il nostro bisogno di sicurezza e le nostre aspettative di salute, fino a trasformare la malattia e la sofferenza in una sorta di scandalo insopportabile. Chi più chi meno, oggi viviamo tutti nell’illusione che tutto sia tecnicamente possibile. Anche quando lo sviluppo scientifico-tecnologico desta qualche preoccupazione, in realtà tendiamo a pensare che saranno comunque la scienza e la tecnica a porre rimedio ai nostri problemi. Ciò accresce la presunzione che le cose del mondo dipendano soprattutto da noi, dalla nostra potenza; esaspera il nostro desiderio di benessere ma anche il rischio della frustrazione.

 

Quanto alla salute, in questa prospettiva, essa non è più un dono, il dono più prezioso che Dio o la natura possono fare agli uomini, ma diventa un “diritto” da rivendicare a ogni costo. Se si è ammalati, bisogna guarire per forza. Se non si guarisce la colpa è dei medici. Un po’ come accade di fronte ai terremoti: la prima cosa che facciamo non è quella di indignarci per una fatalità che sentiamo magari ingiusta, ma andiamo a caccia di coloro che non hanno costruito le case nel rispetto dei criteri antisismici. Il coronavirus potrebbe scuoterci rispetto a questa sorta di “reincantamento” del mondo su base tecnologica. Ma per venirne a capo ci vorrebbero risorse psicologiche e culturali che forse non abbiamo o non abbiamo più, e così rimaniamo come prigionieri del nostro mondo incantato, magico.

 

Come aveva intuito in modo geniale Max Scheler, la magia non va classificata tra le forme di sapere metafisico o religioso, bensì tra le forme del sapere tecnologico. Andiamo dal mago o dal fattucchiere soprattutto perché ci è insopportabile riconoscere che, poniamo, per una certa malattia non ci sia nulla da fare; ci è insopportabile non conoscere in anticipo se questo o quell’affare andranno in porto, se la nostra vita sarà più o meno soddisfacente e via di seguito. Ciò che non dipende da noi (ossia la maggior parte delle vicende decisive della nostra vita) viene guardato con sempre maggiore diffidenza, rimosso quasi. Così, per una sorta di delirio di potenza, stiamo perdendo il senso della realtà, il senso del nostro vero bene, diciamo pure, il senso della nostra condizione umana. A furia di “artifici”, “artefatti”, “astuzie”, ci siamo come convinti che tutto dipenda da noi. E invece le cose che contano per davvero – la nascita, la morte, la salute, la malattia, solo per citarne alcune – si sottraggono a questo nostro potere.

 

Non possiamo scegliere di non ammalarci o di non morire; possiamo soltanto sperare di “guarire” e di procrastinare la nostra fine. “Principium scientiae moralis est reverentia fato habenda”, scriveva Hegel nelle sue Habilitationsthesen. Ci vuole “riverenza” nei riguardi delle cose che non dipendono da noi, altrimenti rischiamo di andare contro i mulini a vento. E per quanto questa “riverenza” nei confronti del dolore e della morte sia resa difficile dalla cultura presente, è pur vero che i morti di questi mesi l’hanno imposta di nuovo all’attenzione di tutti. Senza volerne in alcun modo sminuire l’efficacia e l’impegno etico nel combattere l’umana sofferenza, abbiamo semplicemente constatato i limiti della scienza medica e che è illusorio pensare di poter risolvere tecnicamente il problema del dolore. Questo infatti, nonostante i progressi tecnici, risorge costantemente anche all’interno del suo inquadramento tecnico, col rischio che non resti altro da fare che occultarlo e addirittura rimuoverlo.

 

Si pensi soltanto ai vecchi abbandonati nell’indecente solitudine di qualche ospizio oppure alla mestizia e allo squallore di certi funerali che sembrano svolgersi in vergognosa clandestinità, nel frastuono indifferente del traffico cittadino: esempi eloquenti di un fastidio pubblico nei confronti del dolore e della morte, ma anche riprova della ineliminabilità del dolore e della morte, nonché del fatto che l’umano trova proprio in queste situazioni limite la sua differenza specifica. Per farla breve, è proprio di fronte a un essere umano che soffre o che muore che vediamo irrompere con maggiore prepotenza il senso della nostra “umanità”. È nel bisogno di essere accettati e amati nella nostra sofferenza che si rispecchiano la luce e l’ombra del nostro comune destino. Ce lo hanno insegnato soprattutto quei medici che nei primi mesi della pandemia hanno sacrificato la loro vita per stare vicini ai loro pazienti.

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