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Incantevole tristezza

Ugo Nespolo

Bellezza ipocrita, design e opere senza memoria. Il destino lugubre dell’arte in un mondo estetizzato e performante in cui tutto è merce o aspira feticisticamente a diventarlo

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“La saggezza non arriverà mai” (Guy Debord)

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Come ricordava Armando Torno nell’acuta recensione del libro del filosofo Fabio Merlini L’Estetica triste (Bollati Boringhieri, 2019), le biografie di Vincent Van Gogh riferiscono che il pittore, poco prima di suicidarsi, ha lasciato un foglio scritto con queste parole: “La tristezza durerà per sempre”.

 

Lo studio di Merlini non può prescindere proprio dall’analisi dell’aggettivo dismal, cioè triste ma anche deprimente e persino tetro, associato – senza tante possibilità di redenzione – all’economia, quella dismal science così acutamente definita nel 1849 dallo storico conservatore vittoriano Thomas Carlyle. Una scienza economica triste che pretende di “spiegare i comportamenti umani e le loro motivazioni sulla base del mero meccanismo della domanda e dell’offerta”. Si tratta di un’estetica che si associa volentieri con l’idea del cattivo infinito, l’idea cioè che il profitto possa crescere senza limiti in maniera noncurante del fatto che dietro l’estetizzazione forsennata delle merci si nascondano sovente condizioni materiali irrispettose e persino neoschiaviste di chi quelle merci produce.

 

Proprio la stessa estetica che governa il sistema dell’arte, quella costruzione del profitto arbitraria e insensata, l’ingordigia speculativa così evidente e preponderante che ha reso ripugnanti e volgari gli atteggiamenti esteriori e frigidi che sottendono per lo più a opache transazioni monetarie, intenso riciclaggio e solido mercato del falso. Siamo al trionfo della “bellezza ipocrita”, quell’aculeo tagliente di cui parla Friedrich Schlegel come totale incapacità di tanta arte contemporanea di “acquietare durevolmente l’animo”. La scelta indifferente dell’oggetto estetico da prelevare e promuovere innerva le sue radici in un terreno prossimo e fecondo, un vero e proprio must dal liberatorio andante postmoderno che suonava come anything goes e che presto è debordato nel paradosso divenuto credibile dell’adesso tutti artisti. Caduta la distinzione oggettiva tra arte e non arte, cade anche ogni distinzione a priori tra materia artistica e materia di uso comune. Ogni realtà è potenzialmente classificabile come oggetto d’arte, purché sia prelevata formalmente attraverso un evento decisionale in un processo di esteticizzazione indefinito.

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Consce della caducità e brevità dei propri valori di attualità, le merci scalpitano alla ricerca dell’ultima novità, tecnologica o estetica che sia


 

L’idea per cui le opere d’arte possano mutarsi in pretesti indispensabili all’efficienza di un sistema economico vorace, genera anche una frenetica esigenza di velocizzazione dei tempi di alternanza e sostituzione dei prodotti, la stessa che governa l’esile vita temporale delle merci tutte, dei loro processi d’esibizione, promozione, uso e consumo. Effetti collaterali di un’estetica triste che annulla tempi e desideri di riflessione, costruzione di teorie e valori veri, direzioni ideali presto sostituiti dalla fantasmagoria della merce e da una strumentale quanto artificiale innovazione sfrenata capace di generare il senso di un dinamismo immobile e ripetitivo.

 

Dissolti i tempi della tradizionale alternanza tra il tema del nuovo come tensione perenne della ricerca artistica e l’obsoleto come retaggio storico da scordare o rendere inattivo all’interno delle asettiche stanze dei musei, si ha con chiarezza la sensazione che il presente non possa far altro che muoversi al falso ritmo di un dinamismo di facciata, quello che trasforma il tema vitalistico e rigenerativo delle innovazioni in azioni fortemente conservatrici e per questo innocue e ripetitive.

 

Merlini delinea con chiarezza la relazione tra la scienza triste intrisa dell’idea che il profitto possa gonfiarsi senza limiti né morale in un processo di estetizzazione forsennata volta alla soddisfazione di bisogni spesso fittizi, insensibile alla totale indifferenza per le condizioni disumane cui sono sovente sottoposti i lavoratori di settori specifici come, ad esempio, la “brutale realtà dei processi di estrazione della columbite, un minerale metallico fondamentale per l’industria dell’high-tech” e che si ritrova tra l’altro in tutti i nostri smartphone. Rivalità e lotte per l’accaparramento, possesso e commercializzazione di questa risorsa producono effetti tragici a livello umano e disastrosi a livello ecologico tali da esser definiti dall’economista inglese Raj Patel “le esternalità insanguinate e maledette dell’elettronica”.

 

Ecco un passaggio diretto e pertinente tra la dismal science e l’estetica triste, quella che l’autore identifica principalmente nel design come alleato freddo e interessato all’estetizzazione continua, ma indifferente, di forme legate alle esigenze di quella moda effimera che brucia il tempo di apparizione, genera bisogni fittizi e pretende persino di essere oggi uno dei luoghi in cui, dopo peregrinazioni varie e scomparsa finale, si è ripresentata con l’arrogante pretesa d’incarnare i nuovi ideali di bellezza, proprio quelli per sempre scomparsi dal variegato terreno delle belle arti e presto sostituiti dal concetto di “indifferenza estetica”.


Il sistema dell’arte si è assunto il ruolo di poter eleggere a valori estetici e mercantili qualsiasi manufatto, gesto, intenzione


 

La bellezza, in arte considerata “un fossile fuori luogo”, è sul piano pratico rintracciabile addomesticata in non pochi aspetti della vita reale sotto forma di estetizzazione estrema – ad esempio – nella cura del savoir-vivre e nel design degli oggetti d’uso. Sottoposta a ritmi di accelerazione continui e all’esigenza di sparizioni rapide e rinascite interessate si trasforma presto in una bellezza ipocrita.

 

Proprio come le merci in genere con il loro carattere “mistico, enigmatico, magico, stregonesco e nebuloso” occultano spesso condizioni di lavoro opache e lontane dai dovuti caratteri di rispetto, sicurezza sociale ed equità di remunerazione, perseguendo piuttosto le bizzarrie presto mutevoli della moda e di un falso “feticismo dell’innovazione”, anche l’Artworld s’adopra col dovuto cinismo a far crescere e alimentare la sua vocazione finanziaria tentando – ormai vanamente – di far circolare con mezzi adeguati l’idea del collezionare come solido investimento. Merce tra le merci, l’arte cerca oggi con tutti gli artifici a disposizione di far brillare le prerogative confortevoli ed esclusive che solo questo speciale “universo del lusso” è in grado di promuovere.

 

L’arte ha giocato e gioca le carte proprie dell’incantamento delle merci e il bene artistico non ha potuto fare a meno di presentarsi, spesso vendendo illusioni, come solido asset class d’investimento alternativo – sbandierato come più remunerativo e sicuro rispetto al mercato borsistico, obbligazionario, immobiliare o delle commodities.

 

Soggetta proprio come le merci in balia della moda rapidamente mutevole, la creazione artistica accoglie come ineluttabile destino il principio dell’obsolescenza immediata, la sua sparizione e morte tenute provvisoriamente a debita distanza soltanto dalla persistenza di un valore economico consolidato e confermato sovente con non poca fatica e credibilità.

 

Avendo vissuto gli anni che Mario Perniola definisce di “destabilizzazione del mondo dell’arte”, un mondo già contaminato e carico di contraddizioni interne, abbiamo – senza stupore – assistito anche alla svolta fringe e all’abbattimento delle barriere che formalmente dividevano i percorsi dell’arte dei professionisti (Insider Art) da quelli dell’arte di tutti (Outsider Art). La Biennale del 2013 col suo “Palazzo Enciclopedico” ha sancito con autorità e leggerezza questo principio e ha dato la stura ai resti ormai illeggibili dell’adesso tutti liberi. Il sistema dell’arte con la destrezza e la naturalezza consueta si è assunto il ruolo di potere, a suo piacere, eleggere a valori estetici e mercantili qualsiasi manufatto, gesto, intenzione, dichiarazione volontaria e persino involontaria o presunta.

 

La promozione, si sa, ha i suoi strumenti e le sue vetrine che proprio come nei Passages benjaminiani accendono luci e spot per dar lustro e vita alle merci e calamitare i passanti, dar colore e mascherare il dramma del tragico con l’attrazione del superficiale, seppellire il tema di una possibile arte memoriale, quella che ha tentato di legare la propria espressività alla testimonianza e alla critica del tempo attuale.

 

Conviene intanto mettere in evidenza come la rottura degli argini inaugurata dall’esperienza filosofico-estetica di taglio duchampiano, pur con il suo immenso valore storico e artistico, abbia condotto l’arte in un territorio di voluta concettualità che ha relegato la lettura delle esperienze estetiche all’arbitrio di una pratica solo colta. Intanto si sono prudentemente allontanate, o tenute in sott’ordine, specialmente in ambito statunitense, tutte quelle forme espressive per le quali l’arte deve essere sempre legata – e testimoniare – un contesto etico se non politico.


Caduta la distinzione oggettiva tra arte e non arte, cade anche ogni distinzione a priori tra materia artistica e materia di uso comune


 

E’, ad esempio, la posizione del grande filosofo americano Noël Carroll quando scrive: “Ricontestualizzare arte ed estetica entro un più ampio quadro di pratiche sociali quali la memoria, non sarà solo positivo per la società e l’arte ma per gli stessi studiosi di estetica”. Egli combatte l’idea dominante di un’arte che vive in uno spazio autonomo, d’isolamento, ed è considerata come valido fatto estetico soltanto nel caso in cui fornisca valore in sé, quindi un valore intrinseco ovvero “la contemplazione formale del lavoro stesso”. Se così fosse, dice Carroll, che ne sarebbe ad esempio dell’arte memoriale, un’arte connessa alla sua utilità sociale?

 

Nella storia molte sono le opere che hanno avuto da fare con la memoria, basti pensare a L’Iliade o al Mahabharata, alle Cattedrali o alle Chiese, Monasteri, all’iconografia del Cristo, alle vicende dei Santi, poesia e romanzi, il cinema, la Messa dell’Incoronazione di Mozart e poi Liszt, Tchaikovsky e tanto, tanto altro ancora. Carroll si chiede come farebbe un freddo teorico estetico di quelli che imperversano nell’Artworld di fronte ad esempi come questi e a negare d’essere di fronte a opere d’arte e non di Kitsch. Non si può (dice) perdere l’Eneide, la Nike di Samotracia, l’Arazzo di Bayeux.

 

Contro l’idea del filosofo Gary Iseminger per il quale l’arte sarebbe invece destinata soltanto a fornire transazioni estetiche, l’arte memoriale – dal momento che sa fornire l’ethos di una cultura – diviene fondamentale per la continua costruzione dell’ordine sociale. L’arte per l’arte con i suoi esili e sterili estetismi e le sue fumose informazioni ha fallito il compito di contare nel sociale, relegandosi in un territorio autocelebrativo utile, quasi soltanto, all’imposizione di valori economici arbitrari ed a svolgere una marginale funzione di carattere per lo più decorativa, sfornando gadget via via più nuovi ed attraenti da collocare in un universo già saturo d’inutili ripetizioni differenti.

 

Ben consce della caducità e brevità dei propri valori di attualità, le merci tutte scalpitano senza respiro alla ricerca dell’ultima novità, tecnologica o estetica che sia, confermando anche per gli individui “la possibilità maggiormente a portata di mano di esprimere la propria vitalità” nell’inseguire quegl’irresistibili oggetti del desiderio in una sorta d’inconscio rapimento che Benjamin giudica come estraniazione da sé e dagli altri e che Baudrillard interpreta come gesti utili a distrarci dal sentimento dello scacco.

 

Abolita in arte la certezza che il nuovo possa avere in sé qualità da proporre a titolo di valore e di garanzia, l’intricato sistema di promozione e comunicazione della merce-arte si è valso – sino all’attuale drammatica variante imposta dalla corrente pandemia – di un articolato meccanismo fondamentalmente basato sui temi propri della teatralità dotata anche di una geniale trama sceneggiata.

 

Teatralità come eccesso, enfasi, platealità, artificiosità, istrionismo, tappe ed elementi di una logica della produzione di valore (e di plusvalore) che – come scrive ancora Baudrillard – è sovente contemporanea al processo inverso, quello della sparizione dell’arte, poiché “più ci sono valori estetici sul mercato meno c’è la possibilità di giudizio”.

 

Teatralità che con i suoi elementi ci avvicina al grado zero dell’arte “quello del suo vanishing point e della sua simulazione”. Enfasi e istrionismo sono fin troppo facili da associare ai paradossali eccessi nelle comunicazioni delle dominanti Case d’Asta. Ad esempio le parole pronunciate dall’ex Presidente di Christie’s Brett Gorvy quando, con poco ritegno nell’enfatizzare il valore di uno dei cinque Balloon Dog di Jeff Koons per una sessione di vendita “si è pronti a fare la storia” e definisce l’opera come “il Sacro Graal per collezionisti e fondazioni ed il suo possesso posiziona immediatamente”.


L’arte per l’arte con i suoi esili e sterili estetismi e le sue fumose informazioni ha fallito il compito di contare nel sociale 


Della platealità si occupano con maestria i Musei con la loro vocazione crescente di non-luoghi tendenti alla spettacolarizzazione delle opere e alla celebrazione di sé stessi alla maniera – ad esempio – del Guggenheim di Frank Gehry a Bilbao o all’inutile e persino irritante e costosissima ristrutturazione del MoMA a New York dove, tra l’altro, è chiaramente in atto un’operazione di ridimensionamento espositivo dei valori delle storiche Avanguardie europee a tutto favore di una totale e presunta preminenza di valori autoctoni e quindi sciovinistici. Disneyficazione ed effetto Beaubourg per un museo che secondo Baudrillard ha più da fare con l’ipermercato che con un luogo di diffusione della cultura. Un monumento alla dissuasione culturale dove le masse sono partecipi ad un rito che non capiscono e che – in fondo – hanno sempre detestato.

 

Eccessi ed Artificiosità sono l’originale sostanza delle Fiere dell’Arte e del loro – ormai pallido – e costitutivo mercato. Frieze, Art Basel Miami, Londra, Bogota, Mumbai, Shanghai, New York, un flusso – ora a forza sopito – di appuntamenti tanto agognati quanto imperdibili. Trafelati, di destinazione in destinazione, la crème del jet-set multi milionario, corre festante di stand in stand, di lounge in lounge, di party in party, corteggiata al limite del sopportabile da mercanti più che servizievoli ed interessati.

 

Zero stupore nel constatare che la profezia del situazionista Guy Debord, per la quale l’intero sistema sociale, economico, estetico e politico ci avrebbe trovati e lasciati immersi in una spettacolarità generalizzata in cui l’epica delle merci, le loro passioni e contraddizioni sarebbero state dominanti, quella spettacolarità propria di un mondo – a sentire Fabio Merlini – estetizzato e performante in cui tutto è merce o aspira feticisticamente a diventarlo. Un mondo per molti divenuto inospitale.

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