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L’arte dell’icona gay

Fabiana Giacomotti

Mentre le altre ci provano soltanto, Franca Valeri è stata un simbolo femminile idolatrato e indiscusso. Servono trasformismo e sicurezza

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Visto che donne non si nasce ma si diventa, gran battuta di Simone de Beauvoir che però in alcuni paesi come la Gran Bretagna sta distorcendo la percezione del genere femminile a svantaggio delle donne che non hanno problemi di identità e che terrebbero a conservarla continuando a definirsi tali anche sui documenti e non, per esempio, “menstruator” – che fra l’altro a un certo punto dell’esistenza diventa una qualifica difficile da mantenere – l’altra sera abbiamo ascoltato con attenzione Leopoldo Mastelloni mentre ricordava il ruolo fondamentale che Franca Valeri aveva avuto nella sua conoscenza dell’essere e del pensare donnesco. Essere donne non equivale all’essere femminili: può essere qualcosa di più, o qualcosa di meno. Per sgrossare in sintesi la questione evocando un recente confronto televisivo che ci ha dato da pensare, Sophia Loren rappresenta appieno e la donna e la femmina, mentre Raffaella Carrà incarna l’iperdonna del sogno omosessuale, un ideale enfatico che raramente include la femminilità. Or bene, come quasi tutti sanno, la compiantissima Franca Norsa, in arte Valeri, era una delle icone gay più indiscusse e idolatrate del nostro paese. Ne era pienamente consapevole, sapeva orchestrare e gestire la sua posizione con l’intelligenza e l’arguzia che non dobbiamo certo riconoscerle noi, e per questo era molto invidiata dalle altre donne che, in maniera spesso confusa, percepiscono il potere che l’intronizzazione assicura negli ambienti intellettuali e artistici, ma non saprebbero definirne i canoni e, soprattutto, i requisiti.

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Visto che donne non si nasce ma si diventa, gran battuta di Simone de Beauvoir che però in alcuni paesi come la Gran Bretagna sta distorcendo la percezione del genere femminile a svantaggio delle donne che non hanno problemi di identità e che terrebbero a conservarla continuando a definirsi tali anche sui documenti e non, per esempio, “menstruator” – che fra l’altro a un certo punto dell’esistenza diventa una qualifica difficile da mantenere – l’altra sera abbiamo ascoltato con attenzione Leopoldo Mastelloni mentre ricordava il ruolo fondamentale che Franca Valeri aveva avuto nella sua conoscenza dell’essere e del pensare donnesco. Essere donne non equivale all’essere femminili: può essere qualcosa di più, o qualcosa di meno. Per sgrossare in sintesi la questione evocando un recente confronto televisivo che ci ha dato da pensare, Sophia Loren rappresenta appieno e la donna e la femmina, mentre Raffaella Carrà incarna l’iperdonna del sogno omosessuale, un ideale enfatico che raramente include la femminilità. Or bene, come quasi tutti sanno, la compiantissima Franca Norsa, in arte Valeri, era una delle icone gay più indiscusse e idolatrate del nostro paese. Ne era pienamente consapevole, sapeva orchestrare e gestire la sua posizione con l’intelligenza e l’arguzia che non dobbiamo certo riconoscerle noi, e per questo era molto invidiata dalle altre donne che, in maniera spesso confusa, percepiscono il potere che l’intronizzazione assicura negli ambienti intellettuali e artistici, ma non saprebbero definirne i canoni e, soprattutto, i requisiti.

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Sophia Loren rappresenta appieno e la donna e la femmina, mentre Raffaella Carrà incarna l’iperdonna del sogno omosessuale


 

Essere “icone gay” è un salvacondotto per molte destinazioni, di cui a tutti sono evidenti i vantaggi, primo in assoluto la conferma di possedere una mente brillante. L’icona gay idiota è un non dato, perché l’aura di superiorità estetico-culturale che ammanta l’omosessualità quasi a prescindere, e spesso a dispetto di un’ottusa ed evidente cafonaggine, garantisce patente di intelligenza a chiunque venga investita del titolo. L’icona gay potrà dunque essere svampita quanto vuole, ma lo sarà sempre per calcolo e per posa, mai per natura e predisposizione: una peculiarità che sospettiamo sia alla base dei tanti studi sull’impegno intellettuale di Marilyn Monroe, icona gay al limite dell’accettazione nella sua femminilità e sensualità evidenti, che però vengono bilanciate dalla tragicità della sua esistenza e dalla sua grande difficoltà ad affermarsi come attrice: un argomento capitale sul quale torneremo presto. L’icona gay-tipo può essere armoniosa nei tratti e nelle proporzioni, certamente bella, come la Rita Hayworth del “Bacio della donna ragno” e dell’immaginario di Manuel Puig, ma non è necessario. Altrimenti non ci si spiegherebbe perché lo sia in massimo grado Dolly Parton, donnina dai caratteri sessuali felliniani – seno abnorme, naso importante, statura minima – in realtà incredibilmente simile ad Anna Giovannini, “la paciocca” del presunto matrimonio parallelo del regista di Otto e Mezzo a cui tanto piaceva stravolgere i tratti del volto delle sue attrici, e la fronte rasata, e le sopracciglia ridisegnate, e la bocca ipertrofica. Caratteristiche che nessuna donna, potendo, vorrebbe proprio e che, eppure, nulla tolgono alla reverenza di cui le “icone gay” sono circondate, aureolate quasi, al punto che esserlo equivale ormai a una professione.


Massimizzando un carattere lo si decostruisce, permettendone a quel punto la sua progressiva imitazione e appropriazione


 

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Datevi tre minuti per sfogliare qualche magazine pop e troverete la locuzione accanto alle indicazioni anagrafiche: “Patty Pravo, 72 anni, storica icona gay” (oltre una certa età si entra nella hall of fame del genere). Mina, “tutti i motivi per cui è un’icona gay”. E poi Laura Pausini, icona gay tanto per l’impegno a favore delle unioni omosessuali quanto per la sua progressiva trasformazione da brutto anatroccolo in cigno, elemento che la apparenta sia alla definizione complessa ma scintillante di cui stiamo scrivendo sia a tutta la letteratura e all’immaginario che, in particolare nei paesi anglosassoni, riguarda il “maggot”, fase embrionale delle farfalle o altri insetti e che si incarna nella figura molto ambigua del caterpillar di Alice. Trasformazione, e con fatica e dolore. Cambiando, letteralmente, pelle. Con Giorgio Re, conservatore della Fondazione Ferré di raffinato multilinguismo che spesso posta sul proprio account facebook immagini di icone gay al maschile e al femminile (l’ultima, che ci ha molto colpite, è una foto di Rock Hudson che guarda con infinito amore Georde Nader, il suo compagno di una vita), proviamo a tracciarne i caratteri morali, concentrandoci come ovvio sulla “personalità” e finendo inevitabilmente sul “glamour”, che è definizione quasi altrettanto sfuggente di quella di partenza. Con Stefano Rianda, storico costumista della Rai, compagno ed erede di Corrado Colabucci con cui collaborò nella definizione dei caratteri della Carrà e della stessa Valeri (indimenticabili le mise di “Sì,Vendetta”, uno sceneggiato del 1974 purtroppo mai riproposto in queste settimane di celebrazioni per il centenario e in tempi fin troppo ravvicinati per la scomparsa dell’attrice), approfondiamo il coté trucco-parrucco: ammette che il punto di partenza sia “un transfert estetico-vestimentario” che permetta all’omosessuale maschio l’identificazione in quella figura terza che l’icona gay opportunamente abbigliata rappresenta, e la difficoltà di farlo senza scadere nella volgarità o nel trash, cioè nella cosiddetta “baracconaggine”, che è invece la deriva più facile da prendere. “Bob Mackie mi diceva sempre che per ‘noi’ la cosa migliore è il glamour”, ricorda Rianda, evocando “the true artist and living legend”, definizione Wikipedia, che in sessant’anni di carriera come costumista ha vestito tutte le icone gay transatlantiche che vi vengano in mente, reali o di plastica, da Joan Collins a Barbie a Cher – per cui creò due dei costumi più celebri della storia degli Academy Awards, (il nude look con pettinatura ellenistica per la vittoria con “Moonstruck” nel 1988 e la cresta con ombelico all’aria per la consegna della statuetta a Don Ameche nel 1986), dopo aver rifiutato di vestirla per anni perché gli ricordava “una cavernicola new age”. La leggenda dice che a un certo punto Mackie vide Cher in un’esibizione live di “I got you babe” con Sonny Bono, e che si innamorò dei “suoi codini e della sua energia” (altro elemento dirimente per l’assunzione nell’olimpo gay, la resilienza e la forza di spirito, prendete nota), trasformandola nel personaggio che si sa e conducendola per mano, anno dopo anno, fra chilometri di lurex e chili di toupet, alla conquista della statuetta.

 

Dunque, riassumendo, si diventa icona gay dando prova o inscenando con la massima abilità il possesso di: intelligenza, personalità, carattere dai tratti preferibilmente maschili o comunque determinati, quindi resistenza alle difficoltà, mostrando però al contempo la disponibilità a una trasformazione estetica caricaturale dei propri caratteri sessuali primari e secondari, dunque una discreta malleabilità. Non facile, e spesso non condivisibile. Sempre estremizzando, Grace Kelly vestita da Edith Head in “Finestra sul cortile” non è icona gay, e non lo è mai stata neanche nella vita. Pur ammiratissima per la sua bellezza e la sua classe, Grace è modello etero: “L’icona gay è un modello possibile, non impossibile come lei”, ammette Re, ben sapendo che tutte le donne avrebbero voluto possedere la sua levigata bellezza mentre catalogano Cher nel reparto circense, come Lady Gaga negli anni della cura estetica di Nicola Formichetti, degli abiti di carne cruda e delle scarpe importabili e che pure si possono apparentare al concetto di glamour, qualunque cosa rappresenti ora, e non ci sono dubbi che ultimamente la nozione vada liquefacendosi nel mare magnum del luogocomunismo social (referenze dell’hashtag #glamour 28,5 milioni contro i 268 milioni di #cool, aggettivo immarcescibile, e i miliardi che accompagnano e declinano #hot, che vale tanto per JLo quanto per la prima poveracrista col sedere sporgente che vi capiti di incrociare sulla vostra bacheca).


Grace Kelly vestita da Edith Head in “La finestra sul cortile” non è icona gay, e non lo è mai stata neanche nella vita


 

E poi c’è la vita sentimentale devastata, modello tirata di Jep Gambardella contro Stefania nella “Grande bellezza” che infatti è sposata con un omosessuale, di cui parliamo invece con Quirino Conti, a cui ci avvicinano anni di collaborazioni, di scambi di vedute e di ammirazione, al punto di riconoscergli una ereditarietà ovviamente impossibile ma in linea diretta con il santo patrono dell’elite artistica omo che è Johann Joachim Winckelmann, il sovrintendente alle antichità di Roma, fra i fondatori dell’estetica del neoclassicismo, la cui inclinazione sessuale è ancora oggetto di dibattito così come i motivi del suo brutale assassinio in una locanda di Trieste, nel giugno del 1768. Winckelmann, o quella che Conti definisce “la capacità di distinguere, di riconoscere la bellezza ovunque si trovi”, è il modello primigenio della presunta (ma in buona parte anche effettiva) superiorità artistica omosessuale, dunque la matrice di ogni accreditamento presso la comunità. Da questa condicio sine qua non, osserva, si diramano due caratteri fondamentali: la vita tragica e l’enfasi estetica spesso caricaturale. “La difficoltà sentimentale è vista come un punto di incontro discreditante del maschile”, dice con quella sua voce arrochita dall’ironia che pare sempre sul punto di scoppiare in una risata, come in effetti spesso accade: “Pensa a Edith Piaf, Anna Magnani, Juliette Greco, la Callas: tutte declinazioni della mater dolorosa. Poi”, aggiunge, “c’è la caricatura del femminile, e questo è meno positivo, perché include la denigrazione di una probabile rivale. Né Sophia Loren né Brigitte Bardot, simboli di femminilità trionfante e risolta, sono mai state icone gay”. Ribattiamo che Liz Taylor, per dirla in napoletano, ci è sempre sembrata un gran femminone, e che però è madonnina omosessuale quant’altre mai. Forse per il suo impegno pro-diritti lgbt? Per la vita sentimentale travagliata? “Per entrambe le cose: è una rivale pericolosissima che ha saputo far scattare la complicità. L’omosessuale non ama mai fino in fondo una donna”.


“Pensa a Edith Piaf, Anna Magnani, Juliette Greco, la Callas: tutte declinazioni della mater dolorosa”, dice Quirino Conti 


Dunque, la corona di alloro si può anche perseguire, il potere omosessuale ammansire? “Ricordo un aneddoto che mi raccontò una delle donne più vicine a Karl Lagerfeld, Anne Marie, che era molto amica di Diana Vreeland. Un giorno, entrò nella camera dove la direttrice del Fashion institute del Met, icona gay per eccellenza, si stava preparando per una serata, dandosi delle gran pennellate di rosso sulle guance. Le domandò come mai esagerasse a quel modo col fard: ‘Mia cara’, le rispose, ‘laddove è impossibile la grazia, è fondamentale la caricatura’”. Alla base di tutto, riconosce Quirino Conti, mentre discorriamo delle difficoltà di Fellini con i caratteri maschili del Satyricon, che Piero Tosi riconosceva come troppo effeminati, impossibili per gli episodi etero del film, “c’è un discorso molto poco leale nei confronti della donna. Guarda Mina, la sua evoluzione estetica negli anni: e la stempiatura, e le sopracciglia strappate e ridisegnate ad arte. Diciamolo col cuore, e con la massima ammirazione per la sua arte: è un mascherone, non è una donna. Una caricatura dei travestiti americani”. O forse una riscrittura, un ipertesto. “Esattamente. Prendiamo Anna Magnani nella ‘Rosa tatuata’: non è una donna, è una ultra-donna, cioè una caricatura. Spinta dal testo verso una formalizzazione dell’ipertrofia caratteriale”. La verità, osserva, è che massimizzando un carattere lo si decostruisce, permettendone la progressiva imitazione e appropriazione: “Molti anni fa”, ricorda, e qui sconfiniamo in Kubrick e nell’ipertesto di Schnitzler, “da Valentino facemmo uno studio sui modelli di commercializzazione di Versace. Venimmo a scoprire che nella zona newyorchese, una volta al mese, si tenevano riunioni ipersecretate di professionisti, avvocati, banchieri, che organizzavano concorsi di miss femminilità en travesti, facendo incetta di abiti Versace. Imitavano la femminilità nella sua concezione maschile, esasperandola”. Non sappiamo se si tengano ancora, di certo è un modello che abbiamo visto applicato altrove, anche a Roma, notoriamente il giorno in cui l’amico Giuti Piccolo, proprietario della sartoria Farani, trovò in archivio un tutù da ballerina classica un po’ troppo fuori misura e, un passo dopo l’altro, scoprì che era appartenuto al costumista premio Oscar Danilo Donati per le sue imitazioni della Taglioni. Si trattava, ovviamente, di un divertissement. Ma talvolta è difficile percepire chi sia “in drag” fra chi disegna a progetta il drag e chi lo indossa.

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