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Ricordi di un incontro con Franca Valeri

Giacomo Papi

La paura di sentirsi chiamare “Cretinetti!” e quel metodo di lavoro rigoroso

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Ho trascorso con la signora Franca una indimenticabile giornata di terrore nella sua casa sul lago di Bracciano, una villa moderna con un grande giardino ombroso sull’acqua in cui sguazzavano rumorose famigliole romane e silenziose barche a vela. Era il luglio del 2010, giornata caldissima. Stavamo lavorando a un libro-conversazione con Luciana Littizzetto che sarebbe uscito per Einaudi con il titolo “L’educazione delle fanciulle” (titolo alternativo: “A che cosa servono i maschi?”). La signora Franca aveva allora 91 anni e faceva già fatica a parlare. Aveva accettato a condizione di lavorare a distanza, mandando brevi testi che sarebbero poi stati montati in un dialogo. L’incontro era avvenuto in un grande albergo di Torino: la signora Franca si era presentata elegantissima, perfettamente in armonia con gli arredi di primo Novecento. Si era parlato del libro, ma l’incontro era servito soprattutto a guardarsi, ascoltarsi e piacersi. I testi cominciò a mandarli qualche settimana dopo. Erano perfetti, intelligenti fin nelle virgole, lavorati come gioielli, intoccabili. Il problema era che dovevano sembrare battute di un dialogo e che, però, non potevano essere tagliati, né rimontati. La seconda condizione categorica, non negoziabile, posta dalla signora era che la successione in cui erano stati pensati non potesse essere toccata per nessuna ragione. Fu il libro più difficile a cui abbia mai lavorato: un acrobatico lavoro a incastro tra le prose perfette di Franca e i pensieri spumeggianti di Luciana, incastonandole in modo che la conversazione avesse un filo, un senso, un ritmo. Senza la generosità di Luciana Littizzetto, che aveva detto talmente tanto che qualcosa da incastrare lo si poteva trovare sempre, l’impresa sarebbe stata impossibile.

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Ho trascorso con la signora Franca una indimenticabile giornata di terrore nella sua casa sul lago di Bracciano, una villa moderna con un grande giardino ombroso sull’acqua in cui sguazzavano rumorose famigliole romane e silenziose barche a vela. Era il luglio del 2010, giornata caldissima. Stavamo lavorando a un libro-conversazione con Luciana Littizzetto che sarebbe uscito per Einaudi con il titolo “L’educazione delle fanciulle” (titolo alternativo: “A che cosa servono i maschi?”). La signora Franca aveva allora 91 anni e faceva già fatica a parlare. Aveva accettato a condizione di lavorare a distanza, mandando brevi testi che sarebbero poi stati montati in un dialogo. L’incontro era avvenuto in un grande albergo di Torino: la signora Franca si era presentata elegantissima, perfettamente in armonia con gli arredi di primo Novecento. Si era parlato del libro, ma l’incontro era servito soprattutto a guardarsi, ascoltarsi e piacersi. I testi cominciò a mandarli qualche settimana dopo. Erano perfetti, intelligenti fin nelle virgole, lavorati come gioielli, intoccabili. Il problema era che dovevano sembrare battute di un dialogo e che, però, non potevano essere tagliati, né rimontati. La seconda condizione categorica, non negoziabile, posta dalla signora era che la successione in cui erano stati pensati non potesse essere toccata per nessuna ragione. Fu il libro più difficile a cui abbia mai lavorato: un acrobatico lavoro a incastro tra le prose perfette di Franca e i pensieri spumeggianti di Luciana, incastonandole in modo che la conversazione avesse un filo, un senso, un ritmo. Senza la generosità di Luciana Littizzetto, che aveva detto talmente tanto che qualcosa da incastrare lo si poteva trovare sempre, l’impresa sarebbe stata impossibile.

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Arrivammo per pranzo, in grande ritardo a causa di una coda infinita sulla Salaria. A terrorizzarmi, però, più che il ritardo, era la possibilità di rompere una sedia o versare il vino sul tavolo – mi capita spesso – e soprattutto l’eventualità concretissima che, dopo avere letto il manoscritto, la signora Franca non avrebbe concesso l’autorizzazione alla pubblicazione. Pranzando compresi che queste paure erano niente, se comparate al vero pericolo. La signora Franca, sempre circondata dai suoi cagnolini Cavalier King come la Regina Elisabetta, ascoltava e osservava con un’attenzione acuminata. Sentivi che sarebbe bastata una frase fatta, una parola utilizzata a sproposito, un pensiero volgare o, peggio, banale per sentirla sentenziare: “Cretinetti” e vedere naufragare il lavoro di mesi.

 

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Mangiammo, la signora Franca pretese anche che bevessimo vino. Non spaccai niente. Nel terrore di sbagliare, adottai la strategia di fare parlare lei il più possibile, accorgendomi che parlava come scriveva. Usava poche parole esattissime e non lo faceva per la malattia, ma per metodo: sembrava che ogni sua frase venisse a galla dal silenzio della sua intelligenza nella consapevolezza che abbondanza e frastuono avrebbero disperso ogni senso (“Bugiarda no, reticente” è il titolo di un altro suo libro). Usava le parole come spilloni con cui infilzare i significati, i ricordi, le cose capite e quelle destinate a rimanere un mistero. Eppure, me ne rendo conto solo adesso, disse tantissimo.

 

Raccontò della casa in cui era nata il 31 luglio 1920, ancora affacciata sul naviglio che allora scorreva in via Senato a Milano, di quando arrivarono le leggi razziali, di Lea Lebowitz, il suo primo personaggio, un’ebrea innamorata del rabbino (anno 1947), di Parigi e della Compagnia dei giovani, di Vittorio Caprioli e Alberto Sordi, della signorina snob, della Rai com’era una volta e dei suoi cani più amati, alcuni dei quali, mi pare, erano seppelliti in giardino. Raccontando scuoteva la testa. Sembrava osservare tutto da lontano, con severità ma senza giudizio, quasi che per lei la satira fosse uno specchio da alzare di fronte agli umani, non un modo per dare voti, sfottere e condannare.

 

Il caffè lo prendemmo in giardino, nella parte più in ombra. Al di là della rete le urla attutite di quelli che facevano il bagno e il sole sull’acqua. Era venuto il momento del giudizio. Tirai fuori il manoscritto, la signora Franca si mise gli occhiali e cominciò la lettura. Ero riuscito a rispettare il suo diktat di non toccare testi e sequenza, ma sapevo che in un unico punto, verso i tre quarti, non era stato possibile. Per non spezzare il dialogo avevo dovuto tagliare in due un suo testo e montarlo al contrario, mettendo davanti la fine e in fondo l’inizio. Sapevo che la sua approvazione si sarebbe giocata tutta su quel passaggio.

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Eravamo seduti intorno a un tavolino, su sedie di ferro, non comode. Il lavoro pretendeva decoro, anche formale, e una certa misura di sacrificio: sarebbe stato impensabile esaminare il testo su una sdraio. Leggeva in silenzio, e ogni volta che la sua testa oscillava mi assaliva la paura di una condanna – questo no, questo fa schifo, non mi piace, non è elegante, non è intelligente e non è spiritoso, cretinetti – invece non accadde. Leggeva concentrata in silenzio, interrompendosi solo per rivolgere qualche domanda precisa. La sua pretesa era evidente: quello che intendeva dire doveva essere inciso sulla pagina nell’unico modo in cui poteva essere detto.

 

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Nel silenzio, la lettura si avvicinava pericolosamente al passaggio critico. Notai un fremito in più, e sollevò gli occhi, senza smettere di scuotere la testa. Mi fissò in silenzio, esigendo una risposta alla domanda che non aveva formulato. Provai a spiegare che era l’unico taglio di tutto il libro e che rispettare la successione e l’integrità dei testi era stato difficilissimo, ma che ogni altra soluzione sarebbe stata peggiore. La signora Franca mi guardò ancora, pensando. Poi abbassò gli occhi e terminò la lettura. Chiuse il manoscritto e, per la prima volta, invece di muovere la testa a destra e sinistra, la spostò dall’alto verso il basso, per annuire. Il libro era approvato. Ripartendo per Roma, più sollevato, le dissi: “Signora Franca, è da stamattina che ho il terrore di sentirmi dire ‘Cretinetti’”. Sorrise, forse, e senza smettere di scuotere la testa, sussurrò: “Ecco, appunto”.

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