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“Qui non ce n’è di Coviddi”

Una pandemia dopo l’altra, Napoli cambia pelle. Come sempre

Michele Masneri

Viaggio attraverso il tempo, lungo le cicatrici di una città che ha sempre scherzato con la morte. Oggi i turisti stranieri la disertano, ma la ripartenza passa dalle tante eccellenze rimaste all’ombra di maxicuorn e megapizze

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La pelle” di Malaparte doveva inizialmente chiamarsi la peste, ed è chiaramente il Baedeker e Google Maps per la città che conosce più infezioni forse al mondo: capoluogo infetto di nazione corrotta, Napoli è passata dalle pesti secentesche ai colera più moderni, una specie di parco a tema di infezioni e contagi, e poi però adesso è scampata miracolosamente al Covid: non ce n’è, Coviddi. Ma come è sopravvissuta la città, e come si riorganizza nell’estate post lockdown, nel delicato periodo di trapasso tra “tutti al mare” e “autunno caldo”, nell’estate senza stranieri e della riscoperta autarchica? Ecco il sopralluogo.

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La pelle” di Malaparte doveva inizialmente chiamarsi la peste, ed è chiaramente il Baedeker e Google Maps per la città che conosce più infezioni forse al mondo: capoluogo infetto di nazione corrotta, Napoli è passata dalle pesti secentesche ai colera più moderni, una specie di parco a tema di infezioni e contagi, e poi però adesso è scampata miracolosamente al Covid: non ce n’è, Coviddi. Ma come è sopravvissuta la città, e come si riorganizza nell’estate post lockdown, nel delicato periodo di trapasso tra “tutti al mare” e “autunno caldo”, nell’estate senza stranieri e della riscoperta autarchica? Ecco il sopralluogo.

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Alla stazione Garibaldi si prende il taxi e dentro si trova un velo: dai sedili del guidatore ecco un divisorio morbido, un manto, un perfetto séparé di cellophane, versione soft del plexiglas che alberga nel resto del mondo


     

Arrivato alla stazione dai treni dove è tutto un “Mi scusi, ho il posto otto, carrozza sette, anch’io”, perché come si sa il distanziometro collettivo è andato in tilt, alla stazione Garibaldi si prende il taxi e dentro si trova un velo: dai sedili del guidatore ecco un divisorio morbido, un manto, un perfetto séparé di cellophane, versione soft del plexiglas che alberga nel resto del mondo. Dad joke: dal cristo velato al taxi velato è un attimo, e però questo séparé artigianale inibisce il consueto show del tassinaro napoletano, la sbruffonata, il tentativo di allungare, la simpatia coatta, di non voler la tariffa fissa. Il tassista guida, non ti rivolge la parola, in un pertugio tagliato nel cellophane giù giù, sotto, verso il tunnel del cambio, si passano i soldi, e prendere un taxi a Napoli, esperienza normalmente sfiancante, diventa ora quasi un piacere (sarà una delle tante migliorie involontarie del Covid? Come l’aver insegnato internet ai più anziani? Ne siamo usciti migliori?). Si passa davanti al cantiere gigante ed eterno della metropolitana, davanti ai cartelli della autoproclamata “most beautiful metro in the world” e si arriva sul lungomare pedonalizzato. Napoli ci prova col dopo-Covid; la città che vanta il record delle epidemie dal medioevo a oggi, questa volta l’ha sfangata, e sta lì, a vedere che succederà, se la famigerata seconda ondata arriverà oppure potremo tornare alla normalità (concetto che poco ha a che fare con la napoletanità). Chi si aspettava grandi trovate nella città delle lacrime di Maradona e dell’aria di Napoli imbottigliata, delle magliette con la cintura di sicurezza disegnata, rimane però deluso; sì, il cellophane, ma è tutto lì, tutti hanno la mascherina, forse in un sussulto d’orgoglio verso quel nord che li ha sempre derisi nella loro terronaggine e ora è stato punito.

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Foto Ansa


 

Sul lungomare che sembra Ipanema tanti fanno jogging. Al grand hotel Santa Lucia a giugno è stato arrestato Emilio Fede, che qui era sceso per venire a trovare la moglie: è venuto giù dalla Lombardia appena cessato il lockdown ma è stato prontamente arrestato da solerti carabinieri, come Pinocchio; oggi la direttrice dell’hotel dice al Foglio che l’albergo, aperto nel 1906, non era mai stato chiuso nei suoi 114 anni di storia. Nemmeno per le varie epidemie, e le varie ondate di colera (ultime, quella del 1974 e del 1980). Adesso i turisti stanno ricominciando ad arrivare, dice. Nella sala colazione sono quasi tutti italiani; è l’estate dell’italiano che se può riscopre le città, Napoli Venezia Firenze, i Musei vaticani e Pompei, come in un grand tour domestico, e “nonostante un tasso di riempimento delle camere del 60 per cento” pare che si senta la mancanza del turista americano, il principe dei turisti, quello magari ciabattone ma che lascia laute mance; e che scende qui o all’hotel accanto, l’Excelsior, quello in cui va Tony Soprano in una memorabile puntata della saga. Anche Alfonso Mattozzi, re dei ristoratori di lusso, non aveva mai chiuso, ed è rimasto traumatizzato: settantaquattro anni, quinta generazione di una dinastia che nasce pizzaiola, tiene a precisare, Mattozzi, che si divincola e scatta, nel suo “Europeo”, locale che dal nome nasceva sulle speranze di una città aperta, che con l’autarchia si incupisce; lui in sala controlla tutto, dirige i fritti, indica le bufale, bacia mani consunte (“Ciao Violante carissima”), saltella, quasi danza, tra i tavoli, poi porta una bottiglia di champagne a un vecchio playboy al tavolo con una francese, ma il playboy lo ferma: non champagne, facciamo prosecco, ecco la crisi, e il Mattozzi si incupisce, mentre l’orchestrina canta “’O Sole mio” di fronte ai fritti fatali: il Mattozzi arranca e si spiaggia. E’ triste, il Mattozzi, il suo locale che ha visto attori e celebrità e giornalisti pare pieno ma mica tanto, dice, ha messo sei dipendenti in cassa integrazione; anche i suonatori hanno l’aria mesta. C’è paura, dice, paura per quel che succederà: e se c’è stata una guerra, non c’è oggi certo l’entusiasmo dei dopoguerra, quello con gli americani a Napoli. E la premiata ditta Mattozzi non aveva chiuso neanche per il colera del 1884: anche allora le autorità, però borboniche, ordinarono il lockdown, ma il bisnonno si impuntò, e siccome la pizza cuoce a 450 gradi, distrugge qualunque batterio, Colera o Covid che sia, dunque rimasero aperti. Persino durante la Seconda Guerra mondiale, quando non c’era niente da mangiare se non la carne Spam portata dagli Alleati. Quella di cui parla Malaparte nella “Pelle”, inno appunto alla città infettiva: e lì, una delle scene più cinematografiche è quella del gran pranzo al palazzo dei duchi di Toledo, sotto gli affreschi di Luca Giordano: qui il più gran raccontatore di pranzi della letteratura italiana (come quell’altro lunch al Golf di “Kaputt”) descrive i camerieri in livrea che portano sotto grandi cappe d’argento massiccio un misto di Spam e granturco bollito, schifati non tanto dal cibo che gli tocca servire ma da quei nuovi invasori, gli americani: “Era l’alto, l’antico, ossequiente, libero disprezzo del servidorame napoletano per tutto ciò che è rozzo padroname straniero”; il rozzo padroname straniero però oggi manca, e chissà che ne sarà delle migliaia di pizzerie e baretti e “street food” che sono sorti in questi anni, gli anni del boom demagistrico, col turismo strabordante e l’enorme crescita di locali, con caffetterie hipster che strizzano l’occhio a quelle americane, e il cibo che straborda, pronto a inciccionire ulteriormente i popoli obesi scesi dalle enormi navi da crociera, che oggi non attraccano più. E insomma si respira un pensiero sovranista, in fondo, in questa estate dell’Italia agli italiani: è tempo di “ripensare il turismo”, già, ma che vuoi ripensare? Non è che puoi sostituire le navi da crociera piene di trigliceridi e Lord Byron coi bauli che scende dal veliero e va dal Mattozzi.

E i “locals” saranno poi così meglio? “De Magistris lo chiama il lungomare liberato, il lungomare dove corrono queste famiglie e queste signore debordanti con tatuaggi”, mi dice Cherubino Gambardella, dandy e archistar napoletana. “C’è il mondo dei circoli, quello qui sotto, l’Italia, col suo presidente, il marchese Roberto Mottola di Amato, elegantissimo, bello come un attore, e poi ci sono, cinque metri più in là, questi che corrono sul lungomare appunto “liberato” cioè pedonalizzato. Qualcuno pensa che sia stato fatto ad arte, questo passeggio, una specie di vendetta del sindaco contro gli abitanti di Chiaia, quel che resta di borghesia e nobiltà che vota a destra”, dice Gambardella, e “c’è tutto un movimento di signore inferocite contro i runner”. Vengono in mente le pagine più feroci di “Fratelli d’Italia”, di Arbasino, su Napoli: “Quelle belle ragazze e signore così seducenti nella loro larghezza, quando urlano tutte insieme in sottana su strada o dalla finestra scolando quella loro mitica leggendaria favolosa pasta che fra i capelli sciolti e il peperoncino e il basilico evoca e convoca come minimo Virgilio e de Lamartine e le sirene e le cernie e i castrati e gli angioini e gli aragonesi e Piccinni e Pulcinella e Jommelli e le porcellane della Real Fabbrica e le gouaches, accendendo più di qualunque Marilyn Monroe o Rita Hayworth i sensi e l’intelletto del turista appassionato che bramerebbe sposarle tutte, subito, e magari avere tante cognate, cugine, zie, sorelle, tutte in casa, che parlano e parlano in napoletano, scolano la pasta, ingrassare insieme, e non lasciarle mai più…”.

 


Prudenza sul lungomare, tutti con la mascherina: “I napoletani in realtà sono dei fifoni, mica come i romani che sono spacconi, e se la spassano”


  

Piuttosto, dice Gambardella, “De Magistris ha un talento per il pop sfrenato. La sovrintendenza gli ha bloccato il progetto per un “Cuorn”, un gigantesco corno di 60 metri di altezza e 30 di base”, e questo corno ha scatenato le ire non solo dei cittadini e della società civile, ma anche della stessa famiglia De Magistris, con la cognata che s’è ribellata su Facebook al sindaco e al di lui fratello (e di lei compagno); e intorno al maxicorno, un beneaugurante percorso della buona sorte, grazie all’installazione di “n. 12 corni, dell’altezza di 270 cm, realizzati in vetroresina e decorati da 12 artisti locali, lungo un percorso cittadino”. Oltre al cuorn e bicuorn, anche una megapizza lunga due chilometri, per finire nel record dei primati, e un albero di Natale gigantesco, che durò fino a Pasqua, dunque venne subito soprannominato l’Uovo”, dice Gambardella.

 

Tra maxicuorn e megapizze, e alberi-uova, a Chiaia, finalmente guizzi della creatività napoletana: se altrove la pandemia ha messo in ginocchio il mercato degli affitti brevi, qui la polizia ha scoperto ultimamente che molti bed & breakfast si erano riciclati come bordelli: gli agenti dell’Unità operativa Chiaia hanno effettuato controlli in 12 bed & breakfast e case vacanze che destavano sospetti. Infatti dalle verifiche incrociate sulle pagine internet delle pubblicità di strutture per turisti e di siti di incontri, salta fuori che gli indirizzi e le utenze telefoniche sono gli stessi.

 


Foto Ansa


 

E’ un po’ un ritorno al passato, nota Gambardella. “Nello stesso palazzo, al piano terra, un tempo c’erano i poveri, al primo e secondo i nobili, all’ultimo gli artisti e le puttane. Prima di Garibaldi: poi lui la trasforma da capitale in una specie di strambo capoluogo dove la casa diventa un sistema che si chiude, e i quartieri diventano chiusi, non c’è più interscambio: tranne che a Posillipo, il quartiere degli ascensori sociali, dove quando fai i soldi vai a vivere”. E qui c’è l’aneddoto di Gianni Punzo, tycoon e self made man dell’Interporto, che ricevuto in un palazzo tipo duchi di Toledo, davanti alla padrona di casa che ripete: “Punzo… Punzo…”, lui la interrompe: “Signora, io non vi posso ricordare niente: io vengo dalla ferrovia, e dalla ferrovia per arrivare a Posillipo ci ho messo quarant’anni”.

 

Ma tornando sul lungomare liberato, e andando in giro, si nota una certa prudenza, un assembramento con juicio. “Perché ciò che è più forte adesso a Napoli è un senso di precarietà”, mi dice lo scrittore Diego De Silva: “Una fortissima ambiguità tra la voglia di rifarsi dei mesi passati quasi incarcerati, e il timore di cosa succederà, perché i napoletani in realtà sono dei fifoni, mica come i romani che sono spacconi, e se la spassano”. In effetti, a Napoli, molte più mascherine che a Roma. Anche nei ristoranti e nei bar, tanti controlli e disinfezioni e distanziamenti. Vuoi vedere che il continuo flirtare con la morte, lo sport preferito dei napoletani, questa volta gli ha messo paura davvero?

 

Del resto a Pozzuoli si è sempre individuato uno degli accessi principali al regno dei morti greco-romano governato dal dio Ade, il lago d’Averno cantato da Virgilio nell’Eneide, quando Enea, su consiglio della Sibilla cumana, raccoglie qui il ramo d’oro. E cosa sono le infinite chiese e statue e tombe e palazzi se non un colossale trionfo della morte? Forse bisognerebbe farci un parco a tema dell’infezione, a Napoli, cambiando finalmente il modello turistico della città, entrando in una nicchia forse redditizia. “E’ una lunga storia: nella peste del 1656 due terzi della città morirono, nonostante la città si fosse preparata per tempo”, mi dice Antonella Cilento, scrittrice, gran conoscitrice di Napoli, titolare di una famosa scuola di scrittura. “All’epoca gli spagnoli si stavano preparando perché l’avevano avuta già in Spagna, c’erano già degli ospedali pronti, dei lazzaretti. Ma quando scoppiò non ci fu niente da fare, esplose la confusione, si tennero nascoste le informazioni, e i morti furono talmente tanti che non si sapeva più dove seppellirli. Fu un’esperienza che poi divenne cronica, a Napoli: le epidemie si susseguirono ogni due o tre anni per quattrocento anni: il colera del 1974 me lo ricordo anche io che ero nata quattro anni prima. Erano tutte epidemie legate a un tipo di condizioni abitative, alla sporcizia, alla città che si era fortemente assembrata, arrivando nel Cinquecento a 400.000 abitanti, qualcuno dice addirittura 700.000, insomma Parigi e Londra messe insieme”, dice Cilento. “Questa volta il tipo di condizione ambientale che determina l’epidemia è diversa: per anni è stato legato alla pulizia, all’acqua, al sistema fognario, come alle condizioni igieniche delle case, e adesso invece riguarda i luoghi più industrializzati, e non il sud, che ha la straordinaria disgrazia di non avere un’attività economica primaria, e dunque un’aria pulitissima”. Chiedo dunque a Antonella Cilento indicazioni per un tour delle pestilenze a Napoli, una giornata covidica-vintage. “Ah, allora, in via Tribunali, alla fine, vicino al Pio Monte della Misericordia, c’è un lazzaretto che è stato un ospedale a tutti gli effetti fino agli anni 70 dentro il palazzo di Sergianni Caracciolo. Se lì tu bussi, c’è qualcuno a cui dai due monete, e questo ti fa entrare” (le due monete sono napoletanità in purezza). “Un altro luogo è il cimitero delle Fontanelle: lo utilizzarono per la peste, perché si dovevano seppellire i cadaveri, ma si seppelliva anche chi era ancora vivo, parenti di cui ci si liberava: si davano a quelli che passavano a prendere corpi attraverso le strade, sperando di evitare il contatto in agonia”. Ma alla fine dell’epidemia, il 14 agosto 1656, scoppiò un tremendo temporale, dal chiavicone, cioè dalla cloaca massima sotto via Toledo, risalirono gran parte dei corpi che erano stati seppelliti sottoterra e buttati appunto dentro gli acquedotti e dentro le fosse. La risalita dei cadaveri fu una cosa spaventosissima: da qui nasce il culto delle capuzzelle, cioè si va appunto nelle grandi fosse comuni come il cimitero delle Fontanelle, si adottano i teschi, si comincia a pregare per persone, per morti che non si conoscono come forma di espiazione per i molti morti della propria famiglia”.

  

“E’ stato un culto molto sentito e praticato a Napoli a dispetto della Chiesa di Roma fino alla fine degli anni Sessanta”, dice Cilento. “Poi è diventato un fenomeno più che altro turistico: però avere in casa la capa del morto era una cosa molto comune, esattamente come avere una fialetta di sangue che si scioglieva: c’erano centinaia, migliaia probabilmente di fialette di sangue che facevano il miracolo di San Gennaro e Santa Patrizia in tutte le case napoletane, per cui c’era chi l’aveva in casa la testa del morto e invece andava appunto alle Fontanelle e faceva un piccolo altarino”.

 

Ma continuando il tour delle pestilenze: “La Certosa di San Martino al Vomero, certo, dove la peste non arrivò mai, ma da lì Micco Spadaro ne dipinse i quadri principali. E poi l’Ospedale degli Incurabili, uno dei luoghi dove si fanno per la prima volta le autopsie, un posto straordinario perché hanno sotto un’enorme piscina dove sono conservati più di un milione di cadaveri. E c’è la bellissima farmacia, e il museo delle arti mediche”.

 

Parto allora per questo tour: obiettivo, l’ospedale degli Incurabili e la sua farmacia, dopo aver telefonato per sincerarmi che sia aperto (molti musei sono chiusi). Una voce stranamente gentile mi dice che invece è aperto. Benissimo: per arrivare agli Incurabili supero piazza Bellini e i suoi baretti, mi inerpico in una salita, ed ecco una specie di distretto bombardato della sanità napoletana: prima, su un montarozzo, il centro di salute mentale, poi, scendendo, una serie di vicoli bombardati con varie edicole votive a Padre Pio, e strani negozi di camici e accessori da infermiere che sembrano suq arabi. Dopo una Yaris senza finestrini e trasformata in monolocale abitato, ecco Santa Maria degli Incurabili, appoggiata a giganti tralicci. E’ chiusa perché né è crollato un pezzo. Cerco allora il Museo delle Arti mediche, e alla fine un enorme edificio deserto in cui entro attraversando dei cortili. Cartelli indicano “Museo” e “Anatomia umana”, che non si capisce se è il museo, della anatomia umana, o proprio il reparto ospedaliero, al primo piano. Il telefono nel frattempo non trova campo, il gps arranca. Salgo, ed è tutto deserto. Alle pareti, ritratti di celebri patologi napoletani ottocenteschi. Strani macchinari medici con sopra cartelli “non toccare”. E chi tocca? Pare di essere in un’opera di Damien Hirst, e del resto l’artista che ama sale operatorie e farmacie proprio a Napoli volle esporre nel 2004, all’apice della carriera, per una sua prima mostra antologica. Tra tutti i posti del mondo, proprio a Napoli, come se avesse trovato qui un luogo ideale per la sua estetica da psicopompo. Scendo sotto, nel gabbiotto dei guardiani, uno strano tipo vestito da motociclista, con le unghie laccate di nero, mi dice che il museo è chiuso, e non è possibile che qualcuno abbia risposto al telefono. Lo esclude, mentre mangia un grosso sfilatino con dell’olio che gli cade sui pantaloni. Sarà stata allucinazione pestilenziale? Alla fine rinuncio, passo davanti al Policlinico e al suo ospedale da campo allestito per il Covid, un tendone blu.

 

Deluso da questo infection tour (anche la tomba di Leopardi, che qui morì per colera, al momento è chiusa), mi chiedo dunque cosa si potrebbe fare per cambiare narrazione e turismo a Napoli: incontro Pietro Nunziante, docente di Design alla Federico II ma soprattutto anima della Apple Developer Academy, cioè la piccola Silicon Valley napoletana, la scuola che la Apple ha aperto in vari punti del mondo e per l’Italia ha scelto Napoli, quattro anni fa, con grande spolvero anche nazionale, e inaugurazione di Renzi dopo che aveva regalato la maxi caffettiera a Tim Cook. Ministro dell’Università è oggi l’ex rettore proprio della Federico II, Gaetano Manfredi, che all’epoca si disse “orgoglioso di aver centrato il bersaglio rispettando i tempi e dimostrando che a Napoli si può fare bene ed essere competitivi”. Si arriva a questo avamposto Apple a Napoli: non villette basse come a Cupertino, ma invece il solito traffico pazzotico napoletano, mentre il lungomare ricorda più Rio de Janeiro e un tram nuovissimo però sfreccia verso la periferia ed “è una linea che ora collega con l’Academy”, dice Nunziante. Alla fine arriviamo, in questo posto che si chiama San Giovanni a Teduccio (il nome deriva da una statua del santo che rimase impigliata nelle reti dei pescatori, un tempo: mentre il toponimo deriva da Teodosia, figlia dell’imperatore romano Teodosio che pare possedesse una villa qui). E’ l’ex quartiere operaio di Napoli: un po’ Bronx mediterraneo, ci hanno girato diverse scene di “Gomorra”. E però gli emissari della Apple andarono un po’ in giro, pensarono a Bagnoli, ma poi scoprirono questo posto che gli piacque, dice Nunziante, e infatti qui, in mezzo al disastro, ecco un modernissimo campus che improvvisamente mi ricorda davvero quelli californiani, con le sue pareti di vetro e gli enormi cortili piantumati. Il complesso, gigante, è costruito su quello che era un tempo uno stabilimento di pummarola della Cirio (appese alle pareti di vetro scintillante ci sono ancora delle vecchie fotografie di lavoratrici, tutte rigorosamente donne).

 

Dentro, entriamo, è deserto, gli studenti sono via, e chissà se torneranno. La Developer Academy, la prima in Europa, dura nove mesi e raduna 378 studenti ogni anno che studiano le app che poi gireranno sui vari dispositivi tra iPhone e iPad. Non serve una laurea, ma basta il diploma e la conoscenza dell’inglese: ci sono enormi aule per maxischermi, zone riunione e zone per le presentazioni, l’arredamento è siliconvallico con divani e poltrone in colori accesi. E qui non c’è solo la Apple Academy, ma anche avamposti tecnologici di Cisco, Deloitte, CapGemini, l’Innovation Center di Intesa, oltre a dipartimenti della Federico II (“L’anno prossimo parte il corso di laurea in Impatto sociale”, dice Nunziante); e una grande cucina per gli studenti; e affacciandosi alle finestre si vede il centro direzionale di Napoli, in lontananza, che potrebbe essere Los Angeles. La metropolitana arriva a trecento metri da qui, e appunto c’è il tram, uno di quei tram nuovi e veloci che pare una città del Nordeuropa. Gli studenti arrivano da trentasei paesi, insomma è un successo internazionale, poco conosciuto, di Napoli. I corsi che dovrebbero partire a settembre come ogni anno però ora slittano a gennaio; sempre che non succeda qualcosa, che la seconda ondata del Coviddi tanto temuta non arrivi.

 

Scendiamo a prendere un caffè, al bar “University” si serve caffè Moreno, tra guantiere di babà, accanto sta per aprire una nuova pizzeria “Fratelli Tibello”, insomma Mountain View è lontana, e però accanto al bagno ecco una gigantografia di Steve Jobs. Tra i balconi cadenti e i neon pulsanti e le panze e le canottiere dei passanti fa un po’ strano, però il caffè è buonissimo e costa 75 centesimi, e ci sono trattorie dove si pranza con 7 euro, e insomma viene in mente che se torneranno, gli studenti, se questa seconda ondata di Covid non arriverà, Napoli potrebbe davvero essere un’alternativa a tante altre piazze universitarie più cool – e anche San Giovanni Teduccio in fondo con un po’ di “urbanistica tattica”, e un branding milanese tipo “WeBa”, West of Bagnoli, non avrebbe molto da invidiare a NoLo, solo che qui le case costano mille euro al metro e non cinque-sei. E insomma il sud scalcagnato potrebbe essere un’alternativa, un nuovo modello di qualcosa, nel dopo Covid, che nessuno ha capito cosa sarà, ma sarà qualcosa di diverso (e in fondo non dimentichiamoci che anche l’università di Stanford, cuore della Silicon Valley è nata grazie a un’epidemia a Napoli: il giovane gentiluomo Leland Stanford Jr, erede di un impero delle ferrovie, si ammalò infatti qui nel 1884, e in sua memoria i genitori costruirono la celebre università americana. Chissà se Tim Cook ne è al corrente).

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