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La tristezza negli occhi di Marilyn e quel desiderio di essere amata

Simonetta Sciandivasci

Quando appariva lei, tutto il resto scompariva: la vita, i bisogni, il terrore. Eppure non era solo una diva, ma una semplice ragazza a cui capitava di piangere in tram

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Quando canta “I wanna be loved by you” in “A qualcuno piace caldo”, Marilyn Monroe ha trentatré anni. È da tempo la donna più bella del mondo, la più desiderata, la più ambita, l’ossessione degli americani che però non la sposerebbero né la amerebbero mai. E come potrebbero. Al loro fianco vorrebbero Doris Day: è lei la fidanzatina d’America, la donna che li fa sentire a casa al primo sguardo. Marilyn, invece, li smarrisce. Li disorienta. Marilyn è troppo e gli altri, inevitabilmente, sono troppo poco. È così inarrivabile che nessuno riesce a vedere nei suoi occhi lo stesso movimento che Pasolini vede in quelli di Claudia Cardinale: “Guardano solo con gli angoli accanto al naso”, scrive. E aggiunge: “Ha un viso di umile, di gatta, così selvaggiamente perduta nella tragedia”. A salvare Cardinale saranno sempre la sua ritrosia (dirà di no a Mastroianni, alla Universal, a Marlon Brando), il fare irrequieto e selvaggio, e prima d’ogni cosa il “viso da umile”, che a chiunque infonderà rispetto, forse timore, di certo misericordia. 

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Quando canta “I wanna be loved by you” in “A qualcuno piace caldo”, Marilyn Monroe ha trentatré anni. È da tempo la donna più bella del mondo, la più desiderata, la più ambita, l’ossessione degli americani che però non la sposerebbero né la amerebbero mai. E come potrebbero. Al loro fianco vorrebbero Doris Day: è lei la fidanzatina d’America, la donna che li fa sentire a casa al primo sguardo. Marilyn, invece, li smarrisce. Li disorienta. Marilyn è troppo e gli altri, inevitabilmente, sono troppo poco. È così inarrivabile che nessuno riesce a vedere nei suoi occhi lo stesso movimento che Pasolini vede in quelli di Claudia Cardinale: “Guardano solo con gli angoli accanto al naso”, scrive. E aggiunge: “Ha un viso di umile, di gatta, così selvaggiamente perduta nella tragedia”. A salvare Cardinale saranno sempre la sua ritrosia (dirà di no a Mastroianni, alla Universal, a Marlon Brando), il fare irrequieto e selvaggio, e prima d’ogni cosa il “viso da umile”, che a chiunque infonderà rispetto, forse timore, di certo misericordia. 

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Per Marilyn non vale niente del genere: lei ha un viso da ricca, un fare vizioso, un modo desiderante, una malia sovrumana che la fa sembrare irretente sempre, anche quando (spesso) è irretita. Canta “I wanna be loved by you”, lo fa magnificamente, è sexy in quel modo non carnale che riesce soltanto a lei, quel modo da icona. Ma ha già negli occhi quella tristezza che il mondo capirà tardi, e che lei nasconde in tutti i modi, perché quando arrivano le ragazze, deve arrivare l’allegria. Appare Marilyn e tutto scompare, soprattutto la sua vita, i suoi bisogni, il suo terrore. Le corre obbligo di accondiscendere gli altri e lo fa sempre, bene, a lungo, certa che le varrà una ricompensa, che le servirà a essere amata. Quando gira “A qualcuno piace caldo” ha già cominciato a capire che la sua è un’illusione. Canta “I wanna be loved by you” e in quel you invoca un paese intero, tenta di confessargli che ha bisogno d’amore, che ha dato tutto, che è una diva ma è anche una semplice ragazza, e non è vero che preferisce i diamanti agli amici, e certe volte le capita di piangere anche in tram, non soltanto su una Rolls Royce. 

 

 

È il 1959 e morirà tre anni dopo, nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962, in un modo inimmaginabile. Per anni, l’America parlerà della sua morte, dell’assassinio di Kennedy e del Vietnam con la stessa voracità con cui l’ha sognata, desiderata, talvolta detestata. Per gli americani tutto diventa la spia di una cospirazione e la morte di Marilyn, al pari della sua vita, sfama la morbosità, la mania persecutoria, il voyeurismo, il puritanesimo. È in quegli anni che comincia quel processo che Ballard chiama “la morte dell’interesse, la più agghiacciante vittima del secolo”. Per noi Marilyn è qualcosa di molto diverso, ma anche noi la usiamo. Per dire che il divismo hollywoodiano è stato assassino, per dire come non ammetteremo mai di ridurci per amore, o gloria, o sogni, per ribadire che noi siamo uniche e viviamo per amarci, non per farci amare, per evidenziare quali sono le tossicità da cui stare alla larga. 

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Quest’anno, dopo otto anni di silenzio, Fiona Apple ha pubblicato un disco, “Fetch the bolt cutters”, di cui l’America ha parlato moltissimo. Capolavoro, stato di grazia, mistica, cantico del mondo che verrà, che è venuto, che dovrebbe venire e non verrà, eccetera eccetera. La prima canzone si chiama “I want you to love me” ed è l’esatto opposto di “I wanna be loved by you”: dice voglio essere amata da te, proprio da te, così come sono e anche peggio di così, con tutto il mio orrore, i miei mostri, i miei capelli zozzi, il mio cattivo umore, le mie soverchierie, e se non ce la fai, arrivederci e grazie. Ed è così che vorremmo riuscire a farci amare tutte, indisponibili, del tutto indisponibili, a cedere anche soltanto un sorriso per far contento chi vorremmo ci guardasse, baciasse, amasse, sposasse, portasse a casa. Marilyn cedette più di un sorriso, prese tutte le forme che tutti volevano che prendesse, brava com’era a recitare i sogni, a incarnarli. Morì di questo, svegliandosi.

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