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“Questa strana e incontenibile stagione”

Il nuovo libro sul nuovo mondo di Zadie Smith, scrittrice dell’inatteso

Simonetta Sciandivasci

La scrittura non è un fatto creativo, è l’esercizio di un controllo perché gli scrittori non fanno altro che opporre resistenza al caos, all’inevitabile, all’insensato

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Il nuovo libro di Zadie Smith s’intitola “Intimations”. Lo ha scritto tra marzo e maggio, Londra e New York, vita di sempre e “casino globale”. Non è un libro sulla quarantena ma dalla quarantena, un libro che della reclusione non fa il suo oggetto, ma il suo punto di vista.

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Il nuovo libro di Zadie Smith s’intitola “Intimations”. Lo ha scritto tra marzo e maggio, Londra e New York, vita di sempre e “casino globale”. Non è un libro sulla quarantena ma dalla quarantena, un libro che della reclusione non fa il suo oggetto, ma il suo punto di vista.

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Il titolo italiano è “Questa strana e incontenibile stagione”, che è la parte di una frase che lei scrive a un certo punto: “Sono una scrittrice di romanzi. Che può ammettere, arrivata a questo punto, durante questa strana e incontenibile stagione di morte che si scontra con la fioritura dei denti di leone, che a volte la primavera sboccia anche dentro di me, e che la luna mi dà delle scosse all’umore”. Sta ragionando sulla sua identità, ha appena ammesso che se essere donna sia un fatto biologico o culturale non le importa, anche se c’è stato un tempo in cui le è importato moltissimo, un tempo che prima della pandemia le sembrava corrente e che adesso, invece, è lontano, indebolito e anzi annullato da “un aprile senza precedenti” che è arrivato nella sua vita, nella vita di tutti, a rendere insensata ognuna delle sue frasi. Una delle cose che Smith fa in questo libro, ragionando sulla morte, la vita, gli Stati Uniti, i privilegi, il contagio, l’identità, è mettere alla prova, cioè in pericolo, le cose in cui ha creduto per tutta una vita. Le cose che tutti abbiamo creduto, pensato, dedotto, conquistato, svestendole e, come primo risultato, ridimensionandole. La scrittura, innanzitutto.

 

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L’anno scorso aveva pubblicato sulla New York Review of Books un pezzo sulla fiction e sull’importanza dell’immaginazione, sulla chance imperdibile che ogni libro offre a chi lo scrive di uscire fuori di sè. Lo aveva fatto per difendere la libertà di scrivere storie che non per forza aderissero ai dati anagrafici del loro creatore, intervenendo sul tema dell’appropriazione culturale, che prima del Covid era uno dei reati intellettuali più duramente perseguiti dai social network, i direttori del New York Times secondo Bari Weiss. Lo aveva fatto per dire che una scrittrice bianca deve poter scrivere di neri, una scrittrice nera di bianchi, un eterosessuale di transessuali, eccetera eccetera, perché “l’incontro tra uno scrittore e il suo lettore non si può predeterminare, davanti a un libro siamo liberi”. Diceva in sostanza che in letteratura l’identità non solo non conta: non deve contare. In “Intimacy” fa un passo in più, perché non ha niente da difendere – nessuno di noi aveva niente da difendere, in quarantena, a parte i nervi e i ricordi – e dice: la scrittura non è un fatto creativo, è l’esercizio di un controllo perché gli scrittori non fanno altro che opporre resistenza al caos, all’inevitabile, all’insensato, al mistero che è l’esperienza umana. La ragione per cui molti non hanno scritto durante il lockdown è questa: è stato impossibile esercitare quel controllo; il virus è arrivato, l’inatteso s’è compiuto e non c’è stato modo di trasformarlo, tenerlo a bada, spiegarlo, alienarlo. E’ per questo che scoprire se l’identità sia innata o costruita è del tutto irrilevante. E’ per questo che Smith usa così bene la prima persona e scrive del mondo intero quando parla dei suoi sensi di colpa e dei suoi privilegi, il più importante dei quali è raccontarci di aver visto delle peonie anche se erano tulipani, restituirci la realtà corretta dal suo sguardo nel quale ha la sfacciataggine o la presunzione (“mi affascina presumere”) di raccogliere anche il nostro. Ci è vicina perché ha fatto della scrittura un fatto pratico, e la pandemia l’ha aiutata ad ammetterlo: “Scrivere è nuotare in un mare di ipocrisie”. Per non annegare, basta sapere che è come fare le crostate: un modo di fare qualcosa, impiegare il tempo.

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