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Viaggio nella Silicon Valley

Michele Masneri

Il quartiere Mission, a San Francisco, è un laboratorio sociale a cielo aperto. Il problema abitativo, la speculazione, gli arricchiti della tecnologia e la nuova economia, tra bar e barbieri. Un libro in uscita

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Pubblichiamo un estratto di “Steve Jobs non abita più qui” di Michele Masneri (253 pp., 19 euro) pubblicato da Adelphi in accordo con The Italian Literary Agency.

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Pubblichiamo un estratto di “Steve Jobs non abita più qui” di Michele Masneri (253 pp., 19 euro) pubblicato da Adelphi in accordo con The Italian Literary Agency.

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John (questo il nome di fantasia dell’efferato landlord) ha fatto il colpaccio di comprare l’appartamento da una foreclosure in una delle ultime crisi (frequentissime) pagandolo meno di un milione di dollari, ristrutturandolo poi con tutti gli ammennicoli che gli avrebbero permesso di affittarlo a techies cinesi o sfaccendati europei come me; un ampio living con pavimento resinato, una grande cucina a gas “italiana”, seppur di una marca che in Italia non ho mai visto, un frigorifero e lavastoviglie e lavatrice e asciugatrice high-end. Di fronte alla colonna bucato che emette misteriosi bip e diffonde una eccitante luce blu, coi piedi ben poggiati sulle resine riscaldate, provo i momenti di più intensa felicità. John ha una sua suite con bagno privato, e poi quattro camere con due bagni condivisi. Totale, almeno ottomila dollari di rendita mensile, maledetto. L’annuncio l’ho trovato su Facebook, nell’apposito gruppo “Bay Area apartments and sharing”, qui molto più battuto dei vari YouPorn, perché nella Valle la casa è un incubo e un’ossessione – ci sono queste continue storie di startupper che dormono nel vano scala o nel garage di villette fetide nei quartieri più estremi.

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Qui il problema sono i rumori. I rumori arrivano da ovunque: dalla strada; dai latinos che sbraitano sotto le mie finestre


    

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Qui però il problema sono i rumori. I rumori arrivano da ovunque: dalla strada; dai latinos che sbraitano sotto le mie finestre; dall’homeless seduto su una sedia da ufficio in pelle nera a cinquanta metri da qui, che solo raramente si rifugia nella Buick azzurra piena di adesivi e tutta bucherellata per le sparatorie di qualche gang; dagli autobus che ansimano sibilando su Valencia Street. Perfino dal padrone di casa, che talvolta riceve ospiti mettendo su degli Star Wars a tutto volume per coprire dei gemiti che trapassano le pareti di legno come fossero di carta velina. Continuo a chiedermi come sia possibile che le case californiane siano tuttora costruite in legno. Il legno qui è un’ossessione. Non solo le Victorians, cioè le casette vecchiotte col tetto a punta, ma anche le nuove costruzioni. Tutte in legno. Dicono: perché costa poco, e per i terremoti (ma sono tutti miliardari ormai! E in Giappone costruiscono splendide case antisismiche in materiali ignifughi). Di qui i micidiali incendi. Ogni famiglia ha una storia d’incendi, tanti il santino d’un morto bruciato. Idranti e spruzzini d’emergenza ovunque, e i camion dei vigili del fuoco, rossi e oro, lustrissimi, sfrecciano quasi in soprannumero. Soprannumero anche di caserme dei medesimi vigili del fuoco, che vengono visitate dagli scolari in tutte le ricorrenze possibili (di qui sospetti, complottismi: che sia la lobby dei pompieri a spingere per l’abitazione lignea).

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Non li sfiora comunque l’idea di passare al laterizio. La paura dei terremoti la risolvono col famigerato retrofitting; il comune può imporre infatti un kit antisismico, una specie di imbragatura metallica della palazzina: costa diecimila dollari, è l’incubo di tutti, quando ti tocca il retrofitting vai in bancarotta, ma se non lo fai ti piantano un cartello davanti a casa. Tipo lettera scarlatta. Lo stigma sociale naturalmente funziona. Se “retrofitti”, invece, puoi ampliare gratis la cubatura.

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Il mercato immobiliare è ormai “ridiculously expensive”, questo il commento standard. In città, nessuno abita da solo; si vive in appartamentoni divisi, con cessi e cucine in comune. Però senza biasimi né complessi, anzi riesumando il concept di comune – che qui è a chilometro zero, del resto. Costi immobiliari: camera in affitto, da millecinquecento al mese; monolocale, da duemilacinquecento; one-bedroom, quattromila.

   


Il mercato immobiliare è ormai “ridiculously expensive”, questo il commento standard. In città, nessuno abita da solo


 

La vecchia Misión è simbolo ed epicentro di questa leggendaria gentrification. Già quartiere messicano, oggi stradone tutte insegne, teatri déco, ristoranti cinesi e italiani frananti, nuovi negozi di zaini e riviste. L’antica fabbrica Levi’s è diventata una scuola privata, la libreria di Dave Eggers vende gadget a tema piratesco (e fa scuola ai bambini poveri). Palme e taquerías, aroma di cilantro: epitome di tutti i quartieri disagiati di vecchie metropoli, sottoposti a ripulitura e rimpacchettamento.

   

Che bello, però: murales e nuovissimi ristoranti almeno vegani, e accanto la via ancora infrequentabile, col morto ammazzato e il proiettile vagante e i tombini con gli scheletrini del día de los muertos. La Misión Dolores della Donna che visse due volte, e l’infilata di palme drammatica che sembra un invito ad andare più a sud, verso Los Angeles e San Diego e acque finalmente balneabili (e, in fondo, la collinetta estrema di Bernal Heights, poetica).

    

Costanti beghe identitario-speculative. Il quartiere di Mission è sempre laboratorio sociale: nel 2017 il solito Peter Thiel vuole aprire un co-working solo gay (benissimo), ma a prezzi inaccessibili alle minoranze non abbienti (malissimo). Giù altre polemiche. Non se ne fa niente. Il coffee shop, luogo di lavoro per migliaia di giovani senza casa né ufficio, diventa invece arena politica. Manny’s offre consueta scelta di avocado bio ma anche una bibliotechina specializzata in gender issues e femminismi local e biografie di politiche donne, e dalle sei del pomeriggio oscura l’Internet e invita a consultarla e parlare di politica come un circolo PCI della Garbatella. Finito il ciclo dei bar col wi-fi, fino a oggi il sacro Graal del freelance col suo computer, disposto a pagare qualunque prezzo per una connessione veloce, improvvisamente diventa cool trovare quelli sconnessi. E magari “a political bookshop and civic space”, come si presenta questo, con dibattiti per creare “better informed and more involved citizens”, con personaggi mica male: in una giornata tipo del 2019 trovi un incontro con Andy Kim, l’unico deputato americano di origini coreane, esperto di lotta alla proliferazione delle armi; qualche giorno dopo ci sarà la social media manager che sta gestendo la campagna elettorale della candidata Elizabeth Warren. Così da Manny’s, una volta spento il wi-fi, gli avventori vengono in parte rieducati (magari sono gli stessi programmatori ventenni che stanno killerando la democrazia con le nuove versioni di Twitter e Facebook e che prendono i torpedoni digitalizzati che li scaraventano giù nella Valle del Silicio). Però, cortocircuiti: pur essendo LGBTQ e ultraprogressisti e fieramente ebrei, i gestori di Manny’s sono ritenuti troppo entusiastici sostenitori di Israele, e dunque contestati (manifestazioni, boicottaggi, eccetera).

     


L’apertura della porta di casa è controllata da una app: si pigia un tasto sull’iPhone e il chip collegato alla serratura la aziona


    

Nella casa di Mission, i due tenants sono una ragazza di Seattle, Amanda, che è scesa a sud in fuga dalle piogge per fare l’insegnante privata da un imprenditore venticinquenne che ha brevettato una app per la meditazione online, e Philip, un americano-cinese che progetta come tutti la sua startup e tiene sulle pareti della sua camera una serie di lavagnette su cui appunta costantemente i progressi di quella sua impresa misteriosa. L’apertura della porta di casa è controllata da una app che si chiama Lockitron: si pigia un tasto sull’iPhone e il chip collegato alla serratura la aziona (quasi sempre, perché talvolta non funziona e rimango fuori di casa, imprigionato tra il cancello e questa porta e le pile dei “New York Times” imbustati nella plastica blu). A cena, Amanda, col suo accento incomprensibile del Nordovest, parla soprattutto del suo imprenditore che sta istruendo la figlia con tre istitutori diversi, tra cui un italiano e un cinese; l’americano-cinese beve molto caffè, ma mette subito in chiaro: “I’m not a sugar person” quando inopinatamente gli chiedo se gradisce dello zucchero, come se gli stessi offrendo cocaina. Anche la stanza che viene affittata su Airbnb è fonte di innumerevoli intrattenimenti: c’è la coppia di fidanzati che arriva per capodanno, uno di ventidue anni e l’altro di ottanta, vanno a un party estremo, il giorno dopo l’ottantenne emette dei rantoli preoccupanti dalla sua stanza – dovremmo chiamare un’ambulanza. Intanto, la stessa sera, una rissa a una festa molto lesbica nella taqueria al piano terra riconvertita in co-working, botte da orbi.

   

Una volta alla settimana arriva la squadra di latinos pulitori. Le pulizie sono lo status symbol supremo a San Francisco. Hanno un prezzo unitario, non tratti né sul tempo né sulla persona. Generalmente, cento dollari a botta. Quando hai deciso di fare l’investimento, arriva uno squadrone (sempre e solo latinos) armato di spray dei più svariati tipi, tutti dall’odore supertossico, più aspiratori industriali a tracolla. Puliscono tutto senza usare una goccia d’acqua. Insistono perché tu esca di casa, in modo da non avere testimoni. Il costo micidiale di queste squadre genera scarsa pulizia. È facile sentire: “Ah, io ci tengo moltissimo, faccio pulire casa almeno una volta al mese” (da cui la leggendaria sporcizia delle case sanfranciscane).

    

Il costo esagerato e il servizio scadente delle pulizie sono pari a quelli dei parrucchieri, uno degli altri drammi di San Francisco. Lasciando da parte infatti l’auto senza conducente e le intelligenze artificiali, la disruption siliconvallica è arrivata per prima nel salone del barbiere. A San Francisco infatti la vetusta struttura proprietaria dei saloni di bellezza non esiste più da tempo, così come l’antico taxi a tassametro; vi si è sostituito un modello appunto condiviso ove un gestore di salone subaffitta a parrucchieri e sciampisti, che gli corrisponderanno un fisso o una percentuale.

   

Così non sorprende trovare su usci e botteghe la scritta “available chair”, “poltrona disponibile”, che all’inizio non si comprende. Si prenota assolutamente solo via app, poiché pochi tollerano il walk-in, cioè il presentarsi di persona. Una volta lì, si noterà subito una certa tensione: siccome i poltronisti tagliatori e sciampisti sono a quel punto in diretta concorrenza col loro vicino, il liberismo selvaggio del pettine si vede plasticamente in quegli sguardi un po’ pietosi tipo cane al canile (sceglimi! sceglimi!) e un po’ rabbiosi (sceglimi, perdio! devo pagare l’alta pigione della seggiolina). I prezzi all’interno dei saloni per signora sono variabili: due tagliatori anche in apparenza molto simili, uno accanto all’altro, avranno tariffe diversissime a seconda dei diplomi e dei background e delle autostime.

    


A San Francisco la vetusta struttura proprietaria dei saloni di bellezza non esiste più da tempo; vi si è sostituito un modello condiviso


    

In generale, poi, nonostante la rottura del monopolio, i prezzi del servizio non sembrano scendere: anche oltre i duecento dollari. Ciò spiega le chiome sfibrate e artigianali di molte startupper e capitane d’azienda anche molto danarose e note; dal parrucchiere si va infatti una volta l’anno, o per qualche matrimonio o laurea o quotazione in Borsa. Cessa l’abitudine alla piega. E, come per le pulizie, siccome così fan tutti diventa normalissimo.

    

Nel quartiere affluente-riflessivo di Noe Valley, vicino al Castro, accompagno un’amica da un parrucchiere scovato su Internet. Sceglie il tagliatore-startupparo residuale, quello cioè non opzionato da nessuno tramite prenotazione elettronica (c’è sempre, è il più nervoso, e non si sa se è nervoso perché non viene mai scelto o se viceversa non viene scelto perché di umore nero). La sventurata viene spedita al lavaggio, con getto d’acqua violento tipo auto, su un lavello inox da canaro; poi le applicano una tintura con pantone inaccurato e, alle sue rimostranze, il parrucchiere probabilmente sfinito dal logorio della concorrenza perfetta urla: “Questa signora sta invadendo il mio spazio personale! Questa signora mi sta rendendo molto nervoso!”, e lei con costernazione paga i duecentocinquanta dollari di conto, nonostante sia improvvisamente diventata mora.

   

Per i maschi va un po’ meglio: da Barber Joe, classico salone su Market Street, ci sono una ventina di postazioni, ognuna con i suoi cinque-sei rasoi elettrici appesi alle pareti come trofei di caccia (ci sono solo rasoi: se si vuole un taglio con le forbici, ormai vintage come un vinile, c’è un sovrapprezzo di cinque dollari). All’ingresso c’è un iPad con app “saltacoda” per chi non si fosse registrato online. Ci si può affidare all’algoritmo che sceglierà il primo barbiere disponibile (dunque ti manderà ancora da quello residuale), oppure si può puntare su uno specifico, ma ci vorrà più tempo. Anche lì, lo sbrocco è frequente, lo si è sperimentato: una volta ho impostato la app su “random”, ma poi manca solo un numeretto per poter andare dal proprio preferito; un gentile cliente mi dice: prego, vada pure, toccherebbe a me ma le lascio il posto; noi si ringrazia, ma a quel punto il poltronista residuale protesta, alzando anche la voce: avevamo scelto l’algoritmo, e l’algoritmo aveva scelto lui. Interviene il capo-salone che, come succede nelle nuove drogherie Amazon senza droghiere o col supervisore nell’auto senza conducente, tiene comunque d’occhio la situazione. Il poltronista residuale verrà degradato, il suo rating abbassato, la sua esistenza online e offline deteriorata. (…)

  

Anche Mark Zuckerberg abita a Mission, contribuendo a far alzare i prezzi. Oggi molto vituperato per le svendite di privacy e le influenze male$che sui processi democratici, quasi impresentabile, il fondatore di Facebook era stato – in epoche che paiono lontanissime – acclamato addirittura come risposta all’elezione di Trump: per qualche mese si era pensato a lui come possibile redentore della California offesa. Poi ci si è resi conto del paradosso: da un presidente eletto forse con Facebook truccato, al truccato i Facebook in persona. Eppure sembrava seriamente un candidato ideale, Zuck2020 aveva tutte le carte in regola: non è un subumano come taluni founder siliconvallici, non è trucido come Travis Kalanick di Uber, non ha i tic di Musk, né i capelli improbabili di Thiel, né il grigiore di Tim Cook. Piace a tutti, è pio, ha sposato una solida dottoressa asiatica, sforna figli, è la force tranquille, non progetta isole fantasiose, non costruisce razzi o tunnel, non è flamboyant come altri startuppari rampanti e viziosi tipo Evan Spiegel di Snapchat (ma quella è Los Angeles, è Silicon Beach, è un’altra storia). “Ha l’energia di un ragazzo e l’esperienza di un uomo”, per dirla col Dentone di Alberto Sordi. E gli è sempre piaciuta, la politica. Gioco preferito: Civilization, cioè fondare imperi.

    

Però, prima di avere difficoltà globali, a San Francisco gli sono andate tutte abbastanza storte anche a livello di quartiere. Su Valencia Street, la grande stradona palmata che attraversa Mission, già a fine 2016 compaiono strani cartelli. C’è il faccione di Zuck con una corona di $ori al collo e una scritta: “Via i tecnofascisti da Mission!”. Oltre a essersi comprato un compound qui (aggregando varie case, disturbando molto i vicini con estremi lavori di ristrutturazione), oltre al villone a Palo Alto, per non saper né leggere né scrivere Zuckerberg e signora si son presi pure una tenuta alle Hawaii, qualche centinaio di ettari. Non c’è infatti solo Thiel che progetta isole artificiali, oltre ad avere vasta proprietà (e passaporto) neozelandese; tutti i siliconvallici cercano assiduamente un rifugio da non si sa cosa: calamità, pandemie, rovesci fiscali, invidia degli dèi. Come se queste fortune clamorose accumulate molto in fretta consigliassero dei piani B a prova di estradizione.

     


Costanti beghe identitarie e speculative. A Mission, nel 2017, il solito Peter Thiel tenta di aprire un co-working solo gay


    

Mission rappresenta benissimo i contrasti della San Francisco di oggi, in piena crisi identitaria: il quartiere, già pericoloso e sgarrupato, ora popolato di negozi di bici, di zaini hi-tech, di caffè Ritual e Four Barrel e tutte le declinazioni del coffee shop (ma rigorosamente senza Starbucks), è oggi zona di struscio per startupper e unicorni – le aziende digitali da più di un miliardo di dollari –, che hanno preso il posto degli spacciatori e dei freaks di un tempo. Ma i bellimbusti della Silicon Valley, che in tutto il mondo invidiamo, qui sono visti come coatti arricchiti. Un vecchio editore sanfranciscano amico di Ferlinghetti mi fa il suo lamento: “Non abbiamo niente contro di loro, per carità, però almeno se ne stessero in quella benedetta Valle” – e parla non degli homeless, ma dei magnati tecnologici. I vecchi abitanti fricchettoni di San Francisco odiano gli Zuckerberg e i loro derivati – in particolare i travet che la mattina salgono a bordo dei famigerati torpedoni che li portano giù verso la Valle, creando traffico e smog (ed essendo Mission nella parte più a sud della città, è anche il quartiere più amato dai suddetti travet, che così risparmiano strada e dormono un po’ di più la mattina).

   

Zuck ha comprato casa nella zona più nobile di Mission, sulla Ventunesima all’incrocio con Dolores Street, vicino al parco immortalato mille volte da Looking in giù, dove tutta l’umanità giovane sciama al primo raggio di sole: con musiche, plaid, canne, vista meravigliosa sullo skyline, tanti cani. Tra la drogheria più cara del pianeta (Bi-Rite, con commessi-attori e playlist sofisticate), la Tartine Bakery e il Fellow Barber con enormi ficus, angolo di riviste da tutto il mondo, e unguenti vari tra cui una linea di surf hair a base di acqua salata (il taglio da uomo parte da sessanta dollari). Per le solite esigenze di privatezza Zuck ha rilevato varie case, unendole, e la classe media riflessiva naturalmente è insorta. Un vicino di casa ha scritto una lettera alla polizia perché i due suv di scorta occupano il marciapiede. Una storia più interessante riguarda il signor William Gordon Kinzer, sessantuno anni, originario della Florida: nel 2015 ha ricevuto un’ordinanza restrittiva dopo aver deciso di trasferirsi (in un’auto) di fronte a casa Zuckerberg, per più comodamente molestare le maestranze che stavano ristrutturando la magione. “Come ci si sente a fare gli schiavi di un criminale” era una delle cose più gentili che diceva agli operai e alle quindici guardie del corpo di Zuckerberg, contro cui invocava “il castigo di Dio”. Quindi è stato allontanato, e subito i vicini hanno protestato per i maltrattamenti inflittigli (al molestatore). E’ una storia molto sanfranciscana: il signor Kinzer, che soffre di disturbo bipolare, era venuto a San Francisco a stare dal suo vecchio amico Bill Kennedy, che abita a cinquanta metri da casa Zuckerberg. Dopo qualche mese se n’era andato perché stava meglio, poi è tornato in città ridotto peggio di prima, ma ha preferito dormire vicino a casa dell’amico, in macchina, forse per non disturbare, e non gli sarà parso vero di trovare una vittima perfetta come Zuckerberg (normalmente, quando si hanno attacchi psicotici, ce la si prende col papa, coi presidenti, si issano bandiere a caso; uno Zuckerberg nei paraggi non capita tutti i giorni).

   

A parte il povero signore bipolare, non si sono registrati però altri attacchi: forse perché la casa, con astuta mossa padronale, è stata scelta in cima a una delle salite più ripide di San Francisco, e richiede polmoni e polpacci d’acciaio. Ci sono distrazioni sul percorso, anche: ad esempio la casa di Tom & Jerry, inserita in tutte le guide della città, non per i due personaggi dei cartoni, con cui non c’entra niente, ma perché ospita le più incredibili decorazioni natalizie, opera e passione dei padroni di casa, il vetrinista Tom Taylor e il neurologo Jerry Goldstein, che vi abitano amorevolmente da più di quarant’anni. Fra le attrazioni, un albero di Natale alto venti metri e illuminato da millequattrocento lampadine, e un garage trasformato in camino, sopra il quale pendono due calze alte un metro e ottanta, piene di orsacchiotti giganteschi. Un sorridente orso polare di peluche cavalca un treno a dimensioni reali, mentre un carnevale di fiammiferi oversize gira e fischia attorno alla villetta inestimabile.

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