PUBBLICITÁ

L’altro Achille

Gaia Manzini

La sua vera battaglia non è con Ettore, ma con Odisseo. Due eroi con gli stessi sentimenti, ma che guardano alla vita in modo opposto

PUBBLICITÁ

No, non perdiamo mai la speranza che le cose possano cambiare. Ogni volta che rileggiamo un capolavoro, per quanto ne conosciamo a memoria gli snodi e la trama, torniamo spettatori puri e speriamo che le cose vadano in modo diverso. E’ il potere della grande letteratura: quello di farci credere nella vita, nelle sue infinite possibilità. Ogni volta speriamo che Anna e Vronskij possano essere davvero felici, speriamo che Madame Bovary trovi l’amore, che Andrej Bolkonskij non muoia, che Don Chisciotte continui senza fine le sue peregrinazioni. Come Matteo Nucci, speriamo che Odisseo (così si chiamava in greco Ulisse) possa fermarsi sulla spiaggia dove il fiume si getta in mare e la bellissima Nausicaa, figlia di Alcinoo, è arrivata a giocare con le amiche. Odisseo si fa largo tra gli arbusti, avanza come un leone, sicuro ed elegante nonostante abbia l’aspetto del naufrago. Le ragazze fuggono, tranne Nausicaa che in un attimo ha visto in lui il futuro marito di cui un sogno l’aveva avvertita. Potrebbe essere un incontro d’amore perfetto, invece è come se l’eroe non si accorgesse dello splendore della pelle, della grazia della ragazza. Pensa solo a conquistarne la fiducia per ricevere vesti e suggerimenti adeguati per arrivare in città.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


No, non perdiamo mai la speranza che le cose possano cambiare. Ogni volta che rileggiamo un capolavoro, per quanto ne conosciamo a memoria gli snodi e la trama, torniamo spettatori puri e speriamo che le cose vadano in modo diverso. E’ il potere della grande letteratura: quello di farci credere nella vita, nelle sue infinite possibilità. Ogni volta speriamo che Anna e Vronskij possano essere davvero felici, speriamo che Madame Bovary trovi l’amore, che Andrej Bolkonskij non muoia, che Don Chisciotte continui senza fine le sue peregrinazioni. Come Matteo Nucci, speriamo che Odisseo (così si chiamava in greco Ulisse) possa fermarsi sulla spiaggia dove il fiume si getta in mare e la bellissima Nausicaa, figlia di Alcinoo, è arrivata a giocare con le amiche. Odisseo si fa largo tra gli arbusti, avanza come un leone, sicuro ed elegante nonostante abbia l’aspetto del naufrago. Le ragazze fuggono, tranne Nausicaa che in un attimo ha visto in lui il futuro marito di cui un sogno l’aveva avvertita. Potrebbe essere un incontro d’amore perfetto, invece è come se l’eroe non si accorgesse dello splendore della pelle, della grazia della ragazza. Pensa solo a conquistarne la fiducia per ricevere vesti e suggerimenti adeguati per arrivare in città.

PUBBLICITÁ

 

Odisseo non è mai dentro il tempo che sta vivendo, ma sempre proiettato più in là, in avanti, verso il futuro. Non può scordare il ritorno che lo aspetta. Ma, scrive Nucci nel suo Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno (Einaudi), “non è forse questa la tragedia di chi è convinto di avere sempre tempo, tempo sufficiente per realizzare i propri sogni, e dunque immagina di poter rimandare, di poter continuare a progettare, e allora pianifica, procrastina?”. E intanto, pensando di ingannare il tempo, sta solo ingannando se stesso?

 

PUBBLICITÁ

Nucci si basa su una vasta bibliografia e rielabora alcuni episodi di entrambi i poemi; sono i corsivi del libro che rendono la lettura coinvolgente. “Il rumore dei chiavistelli ruppe la quiete gonfia di attesa di quel primo pomeriggio. Ettore comparve gigantesco sul suo cavallo che sudato, alzava il muso verso il cielo quasi bianco tanto potente era il sole nella canicola. Priamo vide Elena che cercava gli occhi del figlio. Avrebbe voluto dirle qualcosa ma si trattenne”. Racconta l’epica da narratore, mostrandoci come i grandi miti del passato – quelli all’origine di tutta la cultura occidentale siano imprescindibili perché calati nella vita: ineguagliabili nel saper dire, oggi come allora, dell’uomo. Del suo animo, della sua finitezza e della sua inesauribile grandezza.


Ogni volta che rileggiamo un capolavoro, per quanto ne conosciamo a memoria gli snodi e la trama, torniamo spettatori puri


 

PUBBLICITÁ

Nell’Abisso di Eros (Ponte alle Grazie, 2018) Nucci ci ha mostrato come la forza erotica sia il sentimento più forte all’interno dell’animo umano, capace di sovvertire le attese e di portarci verso le altezze inaudite come verso i baratri più profondi. Ci ha ricordato come Omero sia stato geniale nel raccontarlo molte volte in modo assolutamente contemporaneo, senza nominarlo mai, senza riferirsi a Eros come a una divinità. Poeti, filosofi, storici greci hanno saputo cogliere l’irrefrenabile potere dell’amore, che ci fa sporgere sull’abisso, che è un viaggio di conoscenza; l’amore che ci spinge a cercare quella bellezza in grado di brillare solo quando siamo noi stessi. Nucci ci dice chi siamo attraverso chi siamo stati, e lo dice bene: perché laggiù, indietro nel tempo, c’è tutto il prisma delle nostre possibilità.

PUBBLICITÁ

 

Qualche anno fa è uscito Un’Odissea di Jay Mendelshon (Einaudi), struggente memoir in cui lo scrittore americano ripercorre il rapporto con il padre attraverso la lettura dell’epopea omerica, oggetto del corso universitario di cui è docente. Come se ci fosse un’interconnessione inevitabile tra filologia e memoria; come se il viaggio di Ulisse non fosse che un andare avanti e indietro nel tempo della coscienza; come se, in fondo, il passato di una famiglia non fosse poi così diverso da quello che trovi nei libri: perché semplicemente è vita.

PUBBLICITÁ

Se oggi amiamo Odisseo non è tanto per l’astuzia né per l’inganno, quanto per la sopportazione. Tra i due è l’uomo che vuole vivere


 

 

“Uno era leone. L’altro era polpo. Uno si avventava correndo veloce sulla terra pietrosa e la sua criniera bionda scintillava nel sole. L’altro scivolava sottraendosi e ricomparendo all’improvviso e nessuno poteva mai dire di averlo visto, tanto era opaca la luce in cui si muoveva”. Entrambi avevano il desiderio di uccidere la morte. “L’uno schivandola. L’altro disprezzandola”. Nucci racconta in Achille e Odisseo dei due eroi: i veri avversari di tutta l’opera omerica, nel loro essere opposti e simili allo stesso tempo; nel loro mostrarci strade diverse, ipotesi antitetiche di destini e di scelte. “Priamo non rispose (…) A lui interessava proteggere la sua gente e in primo luogo la famiglia e aveva a cuore innanzitutto il tempo che a lui stesso era rimasto da vivere. Si chiese se avesse vissuto più alla maniera di Achille o più alla maniera di Odisseo”. Perché Achille e Odisseo sono innanzitutto due uomini. Al punto che – si narra – nessuno dei due voleva partire per la guerra di Troia: entrambi, anzi, ordirono inganni pur di non lasciare la propria casa, pur di vivere la loro vita di affetti anonima, semplice, intensa. Quante volte ci è successo? Quante volte abbiamo assaporato nei sogni la fama, la realizzazione personale, una vita di viaggi e incontri, e poi quando ci si è presentata la possibilità abbiamo tentennato, abbiamo fatto un passo indietro: meglio stare tranquilli, godersi la pace rintanati nella nostra dimensione privata; goderci il tempo.

 

E così Odisseo, quando i messi arrivarono a Itaca, si fece trovare vestito di cenci a spingere un aratro aggiogato a un asino, cercando di dimostrare di aver perso il senno. Fu Palamede a svelarne l’inganno, appoggiando suo figlio Telemaco a un passo dall’aratro e provocandone la reazione allarmata, una reazione da padre cosciente e lungimirante (la vicenda era raccontata nei Cypra, perduto poema del Ciclo, i canti nati intorno alla guerra di Troia; di Palamede Odisseo troverà poi il modi di vendicarsi). Teti, invece, mandò il figlio Achille sull’isola governata da Licomede. Travestito da ragazza, il giovane rimase per un po’ nascosto tra le figlie del re. Quando sull’isola sbarcò il contingente acheo, fu proprio Odisseo a far uscire allo scoperto Achille grazie a un dono (ritorna in mente il celebre “timeo Danaos et dona ferentes”). Tra timpani, diademi e cembali c’è anche uno scudo meraviglioso cesellato di scene di battaglia. Achille nascosto tra le fanciulle, alla vista di quello scudo freme, non riesce a resistere, chi se ne importa delle raccomandazioni di Teti; in quel momento non gli importa neanche del figlio che sta per nascere da Deidamia, che ha amato segretamente durante il suo soggiorno.

 

E’ una rivelazione della coscienza e dell’istinto: in quel momento Achille vuole solo essere se stesso. Basta maschere, basta travestimenti. E’ il suo carattere a liberarlo dagli indumenti femminili, la sincerità del suo gesto. Odisseo non ha dovuto fare niente se non provocare una reazione. Sincerità contro inganno. E’ questa la lite tra i due più grandi eroi dell’antichità, dice Nucci. La lite che nessuno ricorda e di cui si persero le tracce. “Una lite che conosciamo noi tutti, sulla nostra pelle, fin quando (…) finiamo per dividerci, inesorabilmente fra coloro che sanno tacere e aspettano il momento opportuno e coloro che non sanno opporre freni al desiderio di gridare il vero”. Anche se ogni volta che pensiamo ad Achille lo vediamo combattere con Ettore, è Odisseo colui che eternamente gli si oppone.


Achille e Odisseo sono innanzitutto due uomini. Al punto che – si narra – nessuno dei due voleva partire per la guerra di Troia


 

Già a scuola avevamo imparato che Priamo, Agamennone, Achille, Odisseo , Patroclo e Priamo piangono e si disperano, ma forse non avevamo colto la portata delle loro lacrime. Matteo Nucci più che raccontare l’epica, la fa risuonare dentro di noi. Hannah Arendt ha sottolineato che Odisseo piange al canto di Demodoco perché sente parlare di se stesso in terza persona, prende distanza da sé e si vede. Eppure è solo quando piange, allontanandosi dal suo abituale controllo, che finalmente scopre chi è. Nelle Lacrime degli eroi (Einaudi 2013) Nucci ci riportava all’importanza di quelle lacrime: proprio perché oggi noi ci neghiamo il pianto, così come neghiamo la morte. E’ una negazione iniziata da Platone, perché le lacrime fiaccavano la ragione e riportavano la psiche alle sue contraddizioni; ma molto abbiamo perso con quella rinuncia. Nella continua specularità tra Iliade e Odissea quello che emerge con prepotenza è la fragilità degli eroi. La bellezza di quella fragilità. Il fatto che non esista uomo veramente realizzato che non sia in grado di misurarsi con le proprie debolezze. Achille piange quando Agamennone – costretto a restituire Criseide, figlia del sacerdote Crise – prende la sua Briseide. Piange Odisseo davanti al mare, per allontanare da sé le Sirene e la tentazione di vivere per sempre immortale insieme a Calipso. Ci sono poi pianti che non potremo mai dimenticare. Come quando Priamo esce dalle mura e si spinge di notte fino alla tenda di Achille per chiedere la restituzione del corpo di suo figlio. In silenzio Priamo si avvicina all’eroe e gli stringe le mani, le stesse mani che poco prima hanno ucciso Ettore. In quel momento Priamo non è solo il re dei troiani, ma un padre anziano, come quello che Achille non rivedrà mai più. In quel momento Priamo e Achille sono un padre e un figlio che hanno subito una perdita incolmabile. Non possono che stringersi in un abbraccio e piangere. E noi con loro. “Allora accade quello che questo poema di guerra, di vita e di morte, testimonia dall’inizio alla fine. Non possono esistere nemici su questa terra (…) Siamo soltanto esseri umani che si confrontano con la propria finitezza”. Piangiamo, abbiamo paura della morte. Abbiamo paura del fallimento: anche Ettore ce l’ha prima di sfidare Achille. Potrebbe fuggire e coprirsi di ridicolo, oppure affrontare la fine da guerriero: come ogni altro uomo, anche Ettore è solo dentro la decisione più importante, quella che segnerà il suo destino. Siamo sempre solo noi a dover decidere della sfida a cui ci stiamo consegnando. L’unico a non piangere mai è Paride. Ma Paride è un vile, è uno che fugge. Lui no, non sarà mai un eroe.


Nella continua specularità tra i due quello che emerge con prepotenza è la fragilità degli eroi. E la bellezza di quella fragilità 


 

Procede – questo saggio di Nucci – su un doppio binario: la pastosità della narrazione e il rigore dell’argomentazione. Ci mostra due uomini: Achille e Odisseo, che provano gli stessi sentimenti, ma guardano alla vita in modo opposto. Quello che cambia è come affrontano il tempo. Il tempo che è sempre prismatico e rimane fino alla contemporaneità l’elemento fondamentale della letteratura. Odisseo è sempre proiettato nel futuro. Il più celebre dei suoi inganni, quello ai danni del Ciclope, è tutto un sapersi muovere in avanti, anticipando. “Nessuno è il mio nome”. Achille invece è gettato nel presente. Tutta l’Iliade scaturisce dall’ira di Achille, dalla sua volontà di opporsi ad Agamennone. Achille non può che agire, non può che rivelare la sincerità delle sue intenzioni, l’impulsività del suo reagire. Se oggi amiamo Odisseo non è tanto per l’astuzia né per l’inganno, quanto per la sopportazione. Odisseo è l’uomo che sa sopportare perché vuole vivere. “Per vivere è necessario guardare oltre. Non si può reagire d’istinto, pensando solo al presente. Odisseo vive. Achille muore.” Lui, così veloce e atletico, cela il suo punto debole proprio là dove è più forte: nel suo “piè veloce”. E Odisseo rifiuta da Calipso proprio il dono più grande: l’immortalità. Qui Nucci ricorda uno dei miti più famosi: l’innamoramento di Afrodite per Adone. Un giorno Afrodite lo trova morente, buttato a terra in mezzo al bosco. Il dolore di Afrodite è senza fine. Mentre Adone muore, la dea grida: “Voglio morire anch’io”. E’ uno tra i passi tra i più intensi di questo saggio. Ci ricorda dell’invidia degli dei per la nostra condizione mortale. Nella mortalità sta la superiorità umana, quella di cui ci dimentichiamo. Nella nostra mortalità superiamo gli dei. È lì la nostra grandezza: nella finitezza che rende noi unici e le nostre decisioni non ritrattabili, definitive. “Solo ciò che è effimero è eterno”.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ