Milano riparte dal Teatro alla Scala. Ancora
<p>Un simbolo di ripartenza. Lì vanno i denari maggiorati degli sponsor e i miracolosi tagli chirurgici operati dal direttore generale Maria Di Freda, lì va l’affetto dei benemeriti abbonati</p>
Per ultimo, ed è la prima volta a una conferenza stampa, arriva il professor Giovanni Bazoli, salendo a due a due i gradini che portano dal foyer al Ridotto Toscanini con le addette dell’ufficio stampa dietro che faticano a tenere il ritmo, saluta le signore della prima fila con un cenno del capo da dietro la mascherina, si siede senza più proferire parola e allora capisci che Milano ha deciso, ancora una volta, di ripartire dal Teatro alla Scala.
Lì vanno i denari maggiorati degli sponsor (Intesa e Bracco, moltissimo) e i miracolosi tagli chirurgici operati dal direttore generale Maria Di Freda che servono per non chiudere il bilancio con 23 milioni di rosso di bilancio, equivalenti a tre mesi di lockdown (“si chiude in pari con l’accordo di tutti anche per gli amortissatooori, quanto è difficile questa lingua”, vezzeggia il sovrintendente Dominique Meyer).
Lì, alla Scala, va l’affetto dei benemeriti abbonati, attuali, futuri e presunti, che una ricerca internazionale e poderosa della Makno di Mario Abis (4500 intervistati, uno sproposito, e quasi tutti “incredibilmente rispondenti in pochi minuti”) certifica in larga maggioranza pronti a rinnovare la sottoscrizione e tornare alla Scala anche subito, al massimo a settembre che è appunto la data in cui verrà approntato un programma di big hits, sia per titoli sia per volti e voci.
L’amministrazione ha rivisto e trattato nuovamente in poche settimane oltre cento contratti; qualcuno, come Daniel Baremboim che chiuderà il programma il 5 dicembre con l’esecuzione delle Variazioni Diabelli, ha deciso di devolvere il proprio compenso all’istituzione. Si va sul sicuro con qualche sprezzatura e qualche sorpresa, esattamente come sta facendo la moda che nelle ultime settimane ha presentato centinaia di pezzi qualitativamente sofisticatissimi ma molto facili e facilmente desiderabili. Non è il momento di sperimentare; è il momento di stringersi a coorte per non arrivare alla seconda strofa.
Dunque, ecco Zubin Mehta che dal 15 settembre dirige Traviata nell’allestimento storico di Liliana Cavani che avrebbe dovuto rappresentare il teatro in Giappone nel mondo parallelo senza Covid e che invece arriva in forma di concerto al Piermarini. Ecco la Bohème a novembre nell’allestimento-omaggio a Franco Zeffirelli e due diversi cast, di cui uno di allievi solisti, a tenere la scena. Riccardo Chailly ha tenuto per sé il frutto dei suoi ultimi studi, ed è la versione originaria dell’attacco del terzo atto di Aida, andata in scena per il solo debutto al Cairo nel 1871. Dalle carte del lascito verdiano di villa Sant’Agata, consultabili dall’anno scorso presso l’Archivio di Stato di Parma, sono uscite circa cento battute (otto minuti d’opera) pressoché inedite, ancora prive dell’attacco strumentale originale, della celeberrima aria solistica di Aida “o cieli azzurri”, ma soprattutto con un coro a quattro voci “alla Palestrina” di cui Verdi parla in alcune lettere ma di cui si era persa traccia se non nel “Te decet hymnus” del Requiem composto nel 1874 per le celebrazioni della scomparsa di Alessandro Manzoni. Per una di quelle congiunture non del tutto disgraziate anche in quest’anno disgraziatissimo, il Requiem aprirà questo programma scaligero “rivisitato undici volte”, come dice Chailly, con una grande esecuzione nel Duomo di Milano il 4 settembre che sarà trasmessa in diretta da Rai5 e da Arte e che sarà replicata il 7 settembre nel Duomo di Bergamo e il 9 in quello di Brescia, le altre due città della regione Lombardia più colpite dalla pandemia.
Un simbolo di ripartenza, e una prova del potere del presidente della Fondazione Scala, il sindaco Beppe Sala, in un programma che è carico di simboli e di portebonheur europeisti, vedi l’esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven il 12 settembre. Il governatore Fontana con i suoi imbarazzanti camici non viene menzionato neanche una volta, nemmeno nelle chiacchiere pre-riunione e sono segnali che contano.
Si alza invece l’arciprete del Duomo di Milano Gianantonio Borgonovo e spiega che sì, Gian Galeazzo Visconti era una testa calda, “per certi versi”, ma che insomma la fabbrica del Duomo, “nata come casa dei milanesi e simbolo dell’Europa intera” è opera sua, e ne parla come se il duca che compare sulle guglie della cattedrale nelle vesti di san Giorgio non fosse morto di peste nel 1402 ma avesse esagerato con la movida di ieri sera sui Navigli (che sono in buona parte opera sua anche quelli, peraltro). La sincronia storica che tanto ci preoccupa declinata in versione cancel culture è fonte di assoluta allegria quando la vedi mettersi all’opera così, in mutual culture, cioè community.