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La cacciata di Nicholson dal Booker Prize e gli altri scalpi della cancel culture

Giulio Meotti

“Transofoba”. E il premio inglese caccia la cofondatrice. Licenziamenti a catena nel paese di George Orwell

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Roma. Un altro scalpo rivendicato dalla cancel culture. Stavolta in Inghilterra e al vertice del Booker Prize, il più prestigioso premio letterario del Regno Unito, assegnato ad Atwood, McEwan, Byatt, Ishiguro, Coetzee, Naipaul e altri.

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Roma. Un altro scalpo rivendicato dalla cancel culture. Stavolta in Inghilterra e al vertice del Booker Prize, il più prestigioso premio letterario del Regno Unito, assegnato ad Atwood, McEwan, Byatt, Ishiguro, Coetzee, Naipaul e altri.

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Emma Nicholson è stata rimossa dal suo incarico di vicepresidente della Booker Prize Foundation. Alcuni scrittori, guidati da Damian Barr, avevano chiesto che venisse cacciata, con il premio Booker Marlon James che l’aveva definita una “hater”. Nicholson è stata anche denunciata alla Commissione della Camera dei Lord, dove siede fra i Conservatori dopo una lunga militanza nei Libdem. La Booker Prize Foundation ha fatto decadere tutti i titoli onorari, il che significa che anche il presidente ha perso la posizione nonostante non fosse rimasto coinvolto nella polemica. Nicholson aveva definito la modella trans Munroe Bergdorf una “strana creatura” (ironia della sorte, la stessa Bergdorf non è estranea alla cancel culture, visto che è stata licenziata dalla L’Oreal per avere affermato che “tutti i bianchi” sono responsabili del razzismo). Lady Nicholson di Winterbourne, che aveva votato contro la legge che ha introdotto le nozze gay nel 2013, è la vedova dell’ex presidente del Booker, Michael Caine, che aveva ideato il premio con la moglie.

  

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Barr aveva sfidato il Booker su Twitter, dicendo che “come scrittore gay sono preoccupato che una persona che sta propagando pubblicamente opinioni omofobiche detenga una posizione di tale potere e prestigio nella vostra organizzazione”. Nicholson aveva detto al Guardian che avrebbe “molto rimpianto qualsiasi decisione di allontanarmi da un’organizzazione a cui sono stata associata per così tanti anni” e aveva respinto l’accusa di omo e transfobia.

  

Non è servito che la scrittrice Susan Hill, lei stessa nella giuria del Booker, e cinquecento altri romanzieri premiati abbiano protestato contro la rimozione della Nicholson, una paladina di tante cause umanitarie nel Regno Unito, che ha contribuito a salvare gli orfani rumeni, le ragazze yazide detenute come schiave del sesso dall’Isis e che ha anche adottato un ragazzo sfigurato nella guerra in Iraq. Non è una coincidenza il fatto che Nicholson sia legata a J. K. Rowling – la vittima di più alto profilo di una campagna di cancel culture lanciata da attivisti trans e dai loro alleati – tramite l’amicizia e la società di beneficenza Lumos, che hanno fondato insieme e che aiuta i bambini in difficoltà.

  

Scrittori e Nobel, un elenco incompleto

Se è in America che la cancel culture è al centro di un dibattito sensazionale, in Inghilterra sta facendo rotolare molte teste. Lo scrittore gay Gareth Roberts ha perso il lavoro in una serie per la Bbc Books per avere criticato l’ortodossia trans, così come è successo alla scrittrice Gillian Philip, che ha espresso solidarietà alla Rowling ed è stata cacciata come autrice di una serie per la Harper Collins. Lo scrittore Martin Shipton ha rassegnato le dimissioni da giudice del Wales Book of the Year per avere criticato Black Lives Matter, mentre il fondatore della ong MancunianWay, Nick Buckley, è uscito di scena dopo le critiche ai “guerrieri della giustizia sociale” che abbattono statue. Stella Perrett, vignettista del Morning Star, ha lasciato per una caricatura bollata come “transfobica”, mentre il Nobel della chimica Tim Hunt ha perso cattedre e titoli accademici per una battuta misogina.

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Un elenco incompleto che sta lì a testimoniare quanto grottesca sia la tesi secondo cui “la cancel culture non è reale”. E c’è anche chi, come Billy Bragg sul Guardian, protesta per la frase di George Orwell fuori dalla sede della Bbc: “Se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuole sentire”. Lo stesso Orwell che già nel 1945, in una prefazione mai pubblicata alla “Fattoria degli animali”, aveva capito tutto, scrivendo: “Il principale pericolo per la libertà di pensiero e parola in questo momento non è l’interferenza di organi ufficiali. Se gli editori e i redattori si sforzano di mantenere determinati argomenti fuori stampa, non è perché hanno paura dell’azione penale, ma perché hanno paura dell’opinione pubblica”.

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