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Cultura e orgoglio di uno strumento

Il mandolino non suona solo a Napoli. E' il tremolo dell'umanità

Francesco Palmieri

Storia, personaggi e interpreti di una musica che ha conquistato e commosso il mondo. Che ha stregato poeti e compositori, persino il cinema. Che ha attraversato le guerre: ricordate la “Leggenda del Piave” o il Capitano Corelli?

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Mannaggia ai poeti. Non c’era, una volta, notte immobile d’estate senza che tremolo di mandolino o arpeggio di chitarre la facesse vibrare per il bene di volenti o nolenti ascoltatori. Il “piacevole lamento”, the pleasant whining of a mandolin evocato da T.S. Eliot, lungamente colorò l’aria che tira sopra la Terra desolata. E offrì a Giuseppe Ungaretti succo ristretto per rapidissima poesia, che appunto intitolò Mandolinata: “Mi levigo / come un marmo / di passione”. Mannaggia ai poeti specie nelle notti estive, quando Lucio Piccolo giù a Capo d’Orlando riascoltava melodie inudibili nella villa visitata da musici fantasmi: “Da molt’anni sono morti / i mandolini e le chitarre / ma questa notte / girano le serenate / tanto è antica la luna / e battono gli sportelli a gli androni / e risplendono i vetri/all’alte balconate”.

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Mannaggia ai poeti. Non c’era, una volta, notte immobile d’estate senza che tremolo di mandolino o arpeggio di chitarre la facesse vibrare per il bene di volenti o nolenti ascoltatori. Il “piacevole lamento”, the pleasant whining of a mandolin evocato da T.S. Eliot, lungamente colorò l’aria che tira sopra la Terra desolata. E offrì a Giuseppe Ungaretti succo ristretto per rapidissima poesia, che appunto intitolò Mandolinata: “Mi levigo / come un marmo / di passione”. Mannaggia ai poeti specie nelle notti estive, quando Lucio Piccolo giù a Capo d’Orlando riascoltava melodie inudibili nella villa visitata da musici fantasmi: “Da molt’anni sono morti / i mandolini e le chitarre / ma questa notte / girano le serenate / tanto è antica la luna / e battono gli sportelli a gli androni / e risplendono i vetri/all’alte balconate”.

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Mannaggia ai poeti che sono morti, ma continuano a parlarci e con loro i mandolini a trillare, perché forse meglio sarebbe fare come la “lei” della canzone Voce ‘e notte, storia di struggente amore tra una ragazza maritata a forza e un “lui” non rassegnato; ossia sarebbe meglio tenerci via dalle finestre per non sentire serenate, e piuttosto dormire o fingere di dormire adesso che – tenetelo presente – siamo sposati a un 2020 talmente digitale, svelto e sabbioso da rendere mineralizzata persino l’aria in cielo dove pare trasgressione, se vi spicca il volo, qualsiasi sentimento più intimo e personale. La delicata acustica necessaria ai mandolini s’è ristretta troppo a cagione dell’infaticato frinìo di cicale, l’opposto di un’orchestra, che ridonda senza armonia e zittisce mai, annaspando in un continuo rumore per esistere.


Hanno vinto loro, direbbe il mandolinista scrittore Giuseppe Marotta, hanno vinto “gli algidi nemici del ‘sentimento’”


 

Hanno vinto loro, direbbe il mandolinista scrittore Giuseppe Marotta, hanno vinto “gli algidi nemici del ‘sentimento’, gli odierni guastatori della Maginot romantica”? (Aggiungeva però un “per me s’impicchino”). Ha vinto un’altra volta chi menziona il mandolino per contrapporlo alla fabbrica, come ha fatto Vittorio Feltri reiterando la convenzionale scissura tra una italianità meridionale zuccherosa e indolente e l’altra, di mera e mesta operosità nordica? Lunga e ostinata è la lista di chi è ricorso al mandolino quale simbolo dell’irrisione. Lunga quanto l’elenco di chi, per esempio Simona Ventura al Festival di Sanremo del 2004, lo ha consegnato al passato e quella gaffe è memorabile non per permalosità, piuttosto perché lo strumento è vivo, ha conquistato una decina di cattedre nei conservatori italiani e la Penisola è popolata di orchestre a plettro amatoriali ma di qualità che perpetuano una tradizione condivisa nel mondo e l’arricchiscono di repertorio. Oggi è il Giappone, con un paio di milioni di strumentisti, il Paese cui spetta il primato mandolinistico, ma la passione s’è diffusa ovunque, dalla Corea del Sud alla Germania e all’Est Europa senza contare gli Stati Uniti dov’è impensabile il bluegrass senza un mandolino F-style Gibson.


La Penisola è popolata di orchestre a plettro amatoriali ma di qualità che perpetuano una tradizione condivisa nel mondo


 

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Paradossale Italia, che invece di tempo in tempo se lo scorda oppure se ne vergogna e bisogna rammentarle la storia, o la favola, da capo affinché del mandolino si vanti dandogli finalmente un posto nelle scuole e nei licei musicali invece del petulante e anodino flauto dolce. Un tremolo stonato non disturba mai, magari commuove; ma il principiante che soffia nel flauto è desolante per l’intero vicinato.

 

Era il 1961, ma si può ripetere anche adesso, quando il più grande mandolinista della storia, il cagliaritano Giuseppe “Pippo” Anedda, mandò in visibilio le platee statunitensi in una memorabile tournée. Non fu casuale la data, che celebrava il centenario dell’unità d’Italia, né fu casuale l’entusiasmo della Farnesina: “Lei ha dissolto il luogo comune dell’Italia-spaghetti, Napoli-mandolino, in così poco tempo”, lo complimentarono al ministero degli Esteri e lo invitarono a un nuovo giro di concerti in Spagna. Rari i luoghi del mondo dove Anedda (morto nel ’97) non abbia suonato, nobilitando il mandolino con la riscoperta della letteratura musicale originale rimasta sepolta negli archivi musicali europei dal ‘700 e che il maestro andò a scovare con pazienza fino a Uppsala in Svezia. Incorporazione dello strumento, Anedda ne espresse l’autentico spirito che unisce l’alto e il basso, facendo della musica colta e di quella popolare due sorelle ladre a vicenda, che s’arricchiscono nel derubarsi. Passò pertanto con disinvoltura dall’esecuzione della Ciaccona di Bach alle incisioni di canzoni classiche napoletane, tuttora reperibili in commercio. Stupì le sale di concerto mettendo in programma Beethoven, Scarlatti e De Falla ma indossò i panni del “posteggiatore” nel film Totò cerca pace, imbracciando il mandolino accanto al tavolo dove il principe de Curtis sedeva con Ave Ninchi.


Era il 1961 quando il più grande mandolinista della storia, Giuseppe “Pippo” Anedda, mandò in visibilio le platee statunitensi


 

Perché questo è il mandolino: sia i concerti che gli dedicò Antonio Vivaldi sia Torna a Surriento. E questa è forse la musica stessa, una freccia che trapassa e unisce il facile e il difficile, il vecchio e nuovo purché entrambi siano belli. Alla faccia degli snob.

 

Pizza e mandolino. Certo che è vero. C’è una donna che incollò il binomio e ancora lo perpetua malgrado molti l’abbiano dimenticata: la fascinosa regina Margherita di Savoia. Né fatua né fatuamente intellettuale, rammendò con setose pezzuole un’unità d’Italia mal compiuta e mal proseguita. Mandolinista assidua, le intitolarono decine di orchestre a plettro in tutta Italia, le donarono composizioni musicali e pregiati strumenti che ancora si conservano in museo. Giuseppe Pettine, un maestro molisano emigrato in America dove avrebbe divulgato lo strumento, le dedicò il suo Patetico concerto in sol maggiore per mandolino e pianoforte, abbozzato sui treni da pendolare nel Rhode Island. Oggi il Patetico ancora lo suonano anche in Giappone, e negli Stati Uniti la ditta Vega omaggiò Pettine con un modello di mandolino e persino un tipo di plettro (la penna di celluloide, e un tempo di tartaruga, con cui si pizzicano le corde). Era quella l’Italia che dedicava alla regina una nuova pizza, col fiordilatte accanto al basilico e al pomodoro a replica del tricolore: la “margherita” brevettata a Napoli dal pizzaiolo Raffaele Esposito. Pizza e mandolino sì, ma è la storia d’Italia tra le corti reali e i cortili, tra miseria e nobiltà, emigranti e musicanti.


Pizza e mandolino. Certo che è vero. C’è una donna che incollò il binomio e ancora lo perpetua malgrado molti l’abbiano dimenticata


 

E’ la storia di Giovanni Ermete Gaeta, che diventò famoso con il nome d’arte di E. A. Mario e non uscì da un conservatorio ma dalla piccola bottega paterna di barbiere dove un giorno un viaggiatore distratto dimenticò un mandolino che lui prese a strimpellare, studiando sulle dispense che un generoso giornalaio gli offriva in lettura: La musica senza maestro edita da Sonzogno. Imparò da solo, ma imparò bene e avrebbe composto per tutta la vita sul mandolino canzoni su canzoni: da Balocchi e profumi a Vipera a Tammurriata nera, alla celeberrima Leggenda del Piave che “fu” l’Italia e fu suonata all’arrivo del Milite Ignoto al Vittoriano. La scrisse nella notte tra il 23 e il 24 giugno 1918, poi approfittando del suo impiego alle Poste salì col mandolino su un treno che recapitava le lettere in prima linea e accompagnò un amico bersagliere, il tenore noto col nome d’arte Enrico Demma, a cantare la Leggenda al suo reparto dove ne distribuì le ‘copielle’.

 

Le barberie furono i conservatori del popolo, i vivai musicali dove non c’era posto per un pianoforte e raramente compariva il nobile violino, quello che il prodigioso Anedda avrebbe voluto studiare, ma costava almeno 15 lire e il padre non glielo poté permettere. Ripiegò pertanto sul vecchio mandolino che tenevano in casa senza sapere che il destino gl’indicava la strada con rarissima chiarezza anche quando lo mandò come aiutante dal barbiere. Molti anni dopo il nipote di Anedda, Emanuele Buzi, concertista di livello internazionale e docente al conservatorio di Palermo, avrebbe incontrato a Cagliari un vecchietto ancora arzillo, che ricordava “Pippo” in pantaloni corti fare funambolismi con il mandolino negli intermezzi di barbe e capelli.


E. A. Mario imparò da solo, ma imparò bene e avrebbe composto per tutta la vita sul mandolino canzoni su canzoni


 

E fu in una barberia di via Plebiscito a Catania che maturò l’inclinazione di Giovanni Gioviale, forse il più grande mandolinista siciliano del secolo scorso, il quale poi sarebbe riuscito a diventare anche primo violino al teatro massimo Vincenzo Bellini e avrebbe girato il mondo rimanendo tre anni negli Stati Uniti, dal ‘26 al ‘29. I titoli di alcuni suoi brani restituiscono l’epoca prima di ascoltarli: Viale fiorito, L’ultimo amore, Balliamo l’ultima Mazurka sprigionano i profumi di lillà, di saponi e lozioni evaporati ma che tradotto lo spartito in musica ripigliano corpo anche a suonarli adesso.

 

Quando non era quella dei barbieri, la platea dei mandolini fu rappresentata dagli avventori dei caffè: giravano fra i tavolini “gavottisti” e “posteggiatori”, come il giovanissimo Enrico Caruso che si rivelò al pubblico una sera cantando la romanza Occhi di fata di Luigi Denza (musicista degnissimo, per sua ventura o sventura noto quasi solo per Funiculì funiculà). Ma non sempre la clientela era allettante: il napoletano Caffè Uccello di via Duomo lo riempivano studenti e poetucoli spiantati sicché i suonatori, “indimenticabili facce di rassegnati alla musica, dopo il primo giro di piattello si dileguavano disgustati” ricordò Giuseppe Marotta. Più tardi avrebbe confidato all’amico giornalista Salvatore Maffei di avere cominciato a studiare il mandolino assieme al figlio del guappo Luigi Finizio, detto (ma non in sua presenza) ’o cacagliello, il balbuziente, e al figlio del titolare del bar Frustaci in via Marina, il quale li accompagnava su un vecchio pianoforte nel retrobottega. Il trio si sciolse ben presto, perché sia il guappo sia l’esercente contrastavano la passione dei rispettivi ragazzi, ma se il primo ebbe successo il secondo fallì, giacché Pasquale Frustaci sarebbe diventato un affermato direttore d’orchestra.


Le scuole servirebbero a perpetuare questo popolo di mandolinisti, che chissà perché di tanto in tanto si vergogna


 

Cadenze perfette o note “sgarrate”, strumenti d’acero prezioso come quelli dell’arpinate Luigi Embergher e dei napoletani Vinaccia e Calace, auditorium di galattica modernità o afose trattorie, il concerto in si bemolle maggiore di Pergolesi o il popolare allegretto di ’O paese d’’o sole e gli stornelli romani: non c’è limite all’estensione del mandolino, che con l’accordatura per quinte in sol e i perfezionamenti alla tastiera e alla meccanica può riprodurre tutto il repertorio violinistico, col tremolo che garantisce la “tenuta” delle note e che, secondo i dettami del sommo liutaio e compositore Raffaele Calace, “è la cosa più essenziale dello strumento”, racchiudendo “quella delicata suggestione che conquide gli ascoltatori”. Sarà per paradosso il suo protagonismo in una messe di canzoni del repertorio napoletano, celtico o greco a svantaggiare il mandolino, quasi insistito riferimento a un folclorico passato che si presume consunto. La sua carezza alla storia si fa coltellata oleografica, mai abbastanza compensata dall’eccellenza dei virtuosi che recuperano pagine barocche e beethoveniane, però to the happy few.

 

Però che c’è di male, in fondo in fondo, se un anziano napoletano associa quei suoni semplicemente a felici giornate trascorse al ristorante D’Angelo, che fu reame di don Mimì Pedullà detto (anche in sua presenza) manella d’oro – e il soprannome spiega tutto. E bene lo spiegò il regista Sergio Corbucci in Giallo napoletano, pellicola del 1979 ispirata a Hitchcock e Totò, in cui il protagonista interpretato da Marcello Mastroianni è un professore di mandolino zoppo, costretto dai rovesci di fortuna a rallegrare i clienti di un ristorante al Borgo Marinari. Nella scena iniziale accompagna il cantante nel brano comico Fatte fà ‘a foto, debitore del duraturo successo agli smaccati doppi sensi di carattere sessuale; poi, all’annuncio che eseguirà “un pezzo classico”, il compunto maestro s’avvicina al tavolo dove siede una coppia e domanda: “I signori preferiscono Bach, Vivaldi, da Venosa?”. Gratificato o mortificato col regalo di diecimila lire e un “preferiamo essere lasciati in pace”, il maestro s’allontana claudicando per non suonare più.


Con l’accordatura per quinte in sol e i perfezionamenti alla tastiera e alla meccanica può riprodurre tutto il repertorio violinistico


 

Bach, Vivaldi, da Venosa. Almeno un giusto assolo spetta al terzo: perché le stravaganze della storia hanno voluto che Palazzo San Severo in piazza San Domenico Maggiore, già dimora del principe alchimista Raimondo di Sangro, sia diventato sede della liuteria Calace dopo avere ospitato nel ‘500 Gesualdo da Venosa e la sua tragedia. Il gigante del madrigale, il precursore del cromatismo, fece risuonare nel palazzo le sue note ma pure le urla di terrore della moglie Maria d’Avalos, sorpresa con l’amante Fabrizio Carafa e massacrata con lui dal musicista e dai suoi servi in una notte del 1590. Che alcuni secoli dopo la musica sia tornata nel Palazzo con l’arte liutaia regala un abbellimento, un trillo in più, un’acciaccatura alla storia mandolinistica seminata lì dal fato con l’ultima generazione di una stirpe – i Calace – che inizia dal carbonaro Nicola nel 1825 e si dipana fino a oggi passando per Raffaele, morto nel 1934, autore e virtuoso dello strumento che portò in un lungo tour in Giappone, che editò la rivista Musica Moderna e fu insomma, a tutto tondo, un mentore del mandolino. (I suoi Preludi sono ancora inclusi nei programmi dei concerti e rappresentano una sfida alla perizia degli esecutori). E come traboccò di gioia quasi infantile il maestro Calace, quasi fosse vittoria personale, quando Mahler pubblicò la Settima sinfonia con cui apriva l’orchestra al mandolino: “Gli albori di una vittoria” titolò l’editoriale su Musica Moderna. Perché c’era sì il precedente di Mozart con la Serenata nel Don Giovanni, ma il mandolino stava sulla scena e non sotto o addirittura – scarseggiando esecutori all’altezza – era sostituito nella prima metà dell’Ottocento da pizzicati di chitarra o di violino che suscitarono il disgusto di uno spettatore quale Hector Berlioz.

 

Rovesciando il tempo come una clessidra sarebbe forse quella vecchia Italia di pizza e mandolino, percorsa nelle notti estive da tremoli e arpeggi, a sentirsi vergognosa di questa, dove quei suoni quasi non vibrano più. Anche quando fu musica scassata e artigianale, mani sulle tastiere di tisici del dopoguerra, quelli che Bufalino raduna in cerchio nella Diceria dell’untore mentre la loro febbre defluisce, “con un’armonica, un mandolino, e due tre voci spossate a furia di rincorrersi e d’accordarsi”. Fu, dalla Sicilia alle Langhe, la musica ricordata negli stessi anni da Nuto all’Americano ch’è rimpatriato, ed è La luna e i falò di Cesare Pavese dove si rievoca il ritorno a notte alta e il “suonare, suonare, lui, la cornetta, e il mandolino, andando per lo stradone nel buio”. O furono – e si vorrebbe dire sono – le notti di Posillipo cantate a Napoli da Ferdinando Russo, dove “nu suono ‘e manduline/passa tremmanno, all’aria,/e arriva anfino a me”. Mannaggia ai poeti. E mannaggia ai professori di mandolino che a loro diedero spunti, come don Aniello Aponte soprannominato Dispari per l’impossibilità di combaciare con uomini e fatti, insegnante di Marotta con “dita lunghe e sordide”, “mani che avevano suonato un intero giorno, sporche sì ma di musica”.

 

Che il romanticismo non sia tutto, che lo strumento sia sensuale lo asserisce il canone estetico napoletano che vagheggia donne col “culo a mandolino”, mentre il capitano Antonio Corelli, nel romanzo di Louis De Bernières ispiratore di un film di successo, il paragone lo fa tra la cassa dello strumento e il seno dell’amata ragazza greca Pelagia. Lei è partecipe di tre accordi che sul mandolino si formano sopra i primi tre tasti: do, re e sol. “Gioca con un gatto e ride, ed è un sol. Inarca un sopracciglio quando si accorge che l’osservo, e finge di rimproverarmi e giudicarmi colpevole del reato di ammirarla, e questo è un do. Mi fa una domanda: ‘Non hai niente di utile da fare?’ ed è come un re che chiede di essere ascoltato”. I protagonisti sono impersonati, ne Il mandolino del capitano Corelli di John Madden, da Nicolas Cage e Penelope Cruz e la storia è ambientata durante la Seconda guerra mondiale, a Cefalonia, prima e dopo l’eccidio della Divisione Acqui massacrata dai tedeschi. L’amore di un ufficiale racconta l’Italia che ama la musica più della guerra e ricopre di tremoli gli spari. Piaccia o no, ma nuovamente il mandolino rivendica la scena e la bandiera.

 

Gliele restituirà a Roma, nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica, un grande evento in onore di Giuseppe Anedda patrocinato dalla Federazione Mandolinistica Italiana, che vedrà il 27 febbraio prossimo la partecipazione di oltre 300 strumentisti provenienti da Bolzano a Taormina (già dieci ensemble hanno aderito, tra cui due circoli di Milano e uno di Udine). Promotore dell’iniziativa è il decano dello strumento in Italia: Aldo Arbusti, settant’anni compiuti da poco di cui cinquantanove dedicati al mandolino. Faccia da duro e cuore generoso di quei romani quasi estinti d’una volta, Arbusti è stato allievo di Anedda e ha suonato nelle orchestre dei maggiori compositori di colonne sonore: Morricone, Piovani, Ortolani, Bacalov, cumulando aneddoti e ricordi che potrebbe srotolare per ore. “Ero iscritto all’Unione Musicisti di Roma, una cooperativa che a seconda delle occasioni procurava lavoro ai vari strumentisti su piazza. Nel registro dei mandolinisti, all’epoca eravamo iscritti solo in due: io e Luigi Del Vescovo, un ex violinista testaccino di rara bravura. Quando si registra per un film si va sempre di fretta, sicché una volta che gli stamparono la parte al contrario e mancò il tempo di sostituirla lui fu in grado di suonarla ugualmente alla perfezione. Peccato che lo zavorrasse la gelosia della moglie: guai se non le telefonava tra una prova e l’altra per rassicurarla che sarebbe rincasato presto…”.

 

L’incontro del maestro Arbusti con il mandolino avvenne grazie a un meritevole professore di scuola media, così appassionato dello strumento da insegnarlo ai ragazzi: “Si chiamava Erminio Porri e veniva da Naso, in provincia di Messina. Dopo quattro anni disse: ‘Ti ho trasmesso tutto ciò che so’. Così, mi presentò ad Anedda”. Con lui, Arbusti perfezionò la tecnica fino ad accompagnarlo in tournée in Svizzera assieme ai Solisti Veneti di Claudio Scimone, poi gli fece da supplente quando gli assegnarono la prima cattedra di mandolino istituita in Italia, al Conservatorio Pollini di Padova nel 1975. E anche se a Roma non ne è stata ancora istituita una a Santa Cecilia, la Capitale vanta rinomate orchestre a plettro come l’Associazione Mandolinistica Romana e il Circolo Mandolinistico Costantino Bertucci, intitolato a uno dei virtuosi della Belle époque più apprezzati dalla regina Margherita, alla quale dedicò anche la stampa dei suoi Diciotto Studi musicali. “Ma l’obiettivo di noi tutti – auspica Arbusti – è che prima o poi il mandolino, tipicamente italiano, trovi un posto fisso nelle scuole per offrire ai giovani l’opportunità che quell’illuminato maestro messinese diede a me nel 1961”. Servirebbe certo a perpetuare questo popolo di mandolinisti, che chissà perché di tanto in tanto continua a vergognarsi fingendo di non riconoscere il tremolo nell’aria.


L’amore di un ufficiale racconta l’Italia che ama la musica più della guerra e ricopre di tremoli gli spari. Ancora il mandolino protagonista 


 

Rimasto un giorno con se stesso, ormai di mezz’età, un giornalista napoletano più per ripararsi dalla pioggia che per fame entra in un’antica pizzeria e ordina una “margherita”. Mentre aspetta si ricorda di trent’anni prima, quando andava al ginnasio là vicino e più per fame che per pioggia comprava una pizza. Ma trent’anni prima non c’era qualcos’altro, là dentro, che ora non trova? Eccolo lì: dalla penombra appare un minuscolo suonatore di mandolino, che toglie dal sacchetto di tela lo strumento e se l’appoggia al ventre mentre scandisce i primi accordi e magari è lo stesso motivo di allora. Quel giornalista di mezz’età abbastanza noto nella sua città si chiamava Mario Stefanile e stese questo racconto di pizza e mandolino, tra il forno a legna e una scordata canzonetta, nel 1958. Però gli si potrebbe rubare la firma o sostituirla con quella di qualche altro giornalista di mezz’età, che rimpiange senza vergogna una “margherita” e un mandolinista che sembrava vecchio anche quando eravamo giovani. Solo le vene delle sue mani sono adesso un po’ più blu e più prominenti mentre tengono la posizione sulla tastiera e ribattono, col tremolo, il “piacevole lamento” su questa Terra desolata (pure l’unica possibile). Che è suppergiù la stessa d’allora, ma con molte meno note e niente serenate negli immobili notturni estivi. Mannaggia alla poesia, che ancora ce lo viene a ricordare. Come voce ‘e notte.

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