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"Morricone raccontava la nostalgia e dava voce alla bellezza". Il ricordo di Carlo Verdone

Gianmaria Tammaro

L'amore per Roma ("dall'alto è sempre bella"), i film buoni che con la sua musica diventavano capolavori e quel fischio che ancora oggi lo commuove. Il regista e attore romano parla dell'ultima visita al compositore scomparso oggi

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Carlo Verdone ha saputo della morte di Ennio Morricone “stamattina, appena sveglio, dai messaggi degli amici. Ho subito controllato i giornali e, mi creda, mi è dispiaciuto veramente tanto”. La voce viene fuori leggera, posata, sempre a metà tra ricordo e presente. “L’ultima volta che ci siamo visti”, racconta, “è stato dieci mesi fa, a casa sua. Era tanto tempo che non lo vedevo. È stata una mattinata bellissima. Un incontro molto piacevole, fatto di ricordi e di emozioni passati insieme”.

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Carlo Verdone ha saputo della morte di Ennio Morricone “stamattina, appena sveglio, dai messaggi degli amici. Ho subito controllato i giornali e, mi creda, mi è dispiaciuto veramente tanto”. La voce viene fuori leggera, posata, sempre a metà tra ricordo e presente. “L’ultima volta che ci siamo visti”, racconta, “è stato dieci mesi fa, a casa sua. Era tanto tempo che non lo vedevo. È stata una mattinata bellissima. Un incontro molto piacevole, fatto di ricordi e di emozioni passati insieme”.

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Da dove siete partiti? 

“Da Sergio Leone”.

È stato lui a farvi conoscere.

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“Mancavano pochissimi giorni all’inizio delle riprese di Un sacco bello. E Leone mi disse: sei sicuro di aver completato la troupe, sì? Ci sono tutti? E io: certo. E lui: sicuro? Io allora rifeci un controllo veloce e gli dissi che sì, ero sicuro. Vie’ con me, mi fece Leone. Ma ‘ndo annamo? Da quello che manca: er musicista!”.

E andaste a casa di Morricone.

“Quando venne ad aprire la porta, mi prese un accidente. Per fargli capire che tipo di film stessi facendo, cominciai a fare tutti i personaggi di Un sacco bello”.

Tutti?

“Tutti. Fu una fatica improba”.

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E Morricone? 

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“Non capì niente, secondo me. Leone gli disse che ci voleva un po’ di malinconia e un po' di poesia, nella musica. Morricone sembrava essersi convinto. Ma Leone insistette: se nun te fa le voci, nun capisci mica. E a me: faglie senti’ le voci. E io ricominciai a recitare. Morricone un po’ rideva e un po’ sembrava confuso”.

Alla fine, però, vi siete trovati. 

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“Al pomeriggio gli mandammo il copione, disse che gli era piaciuto, ma che voleva vedere il girato prima di iniziare a lavorare. Quando vide il film, allargò l'orchestra e mi invitò al Trafalgar per assistere alle registrazioni”.

Come andò? 

“Era molto esigente. Sentiva tutto e parlava con tutti. Violino, tromba. Non gli sfuggiva niente. Voleva dolcezza, voleva velocità e voleva lentezza. E le voleva tutte insieme”. 

 

 

La sua musica è sempre stata protagonista, mai comparsa.

“Se un film era buono, con la sua musica diventava un capolavoro. Morricone sapeva leggere i copioni, e li sapeva leggere molto bene”.

Ma chi era veramente? 

“Era il musicista dei grandi spazi, dava voce alla bellezza, fotografava l’epicità. Raccontava la nostalgia. Ed era molto bravo, nei piccoli film come i miei, a dare un tocco di delicatezza. Creava temi immortali. Quelli di Un sacco bello e di Bianco, rosso e Verdone sono rimasti nel cuore delle persone”.

Il fischio di Un sacco bello, come ha detto Andrea Minuz, incarna perfettamente la malinconia dell’estate romana

“Il finale di quel film mi commuove ancora oggi. Vedere il personaggio di Leo che risale Via Garibaldi con quel fischio in sottofondo, e con quell’aria di archi, mi colpisce ogni volta come fosse la prima”.

Perché? 

“Perché quella è una Roma che non esiste più. E poi c’era il senso della vita, la sua essenza. E c’era la solitudine. Un sacco bello, dopotutto, è questo: un film sulla solitudine”.

Morricone era molto legato a Roma. 

“La amava profondamente. Diceva: sono parte di questa città, e questa città è parte di me; senza questa città non sarei quello che sono, senza questa città non riuscirei a vivere”.

E infatti non se ne era mai andato. 

“Quando sono andato a trovarlo, gli ho chiesto perché aveva deciso di lasciare piazza Venezia e di trasferirsi all’EUR”.

E lui che cosa le ha risposto? 

“Sto più tranquillo. Vedo Roma dall’alto, e dall’alto Roma è sempre bella. Nei dettagli, gli ho fatto notare io, Roma non è più la stessa: non è più quella di Un sacco bello. Ma che me frega dei dettagli, mi ha detto Morricone; io c’ho l’illusione che sia sempre bella e mi colpisce e mi stupisce sempre. Ci lasciammo così, con questa considerazione”. 

 

 

Cos’altro ricorda, di quell’incontro? 

“Il telefono che squillava in continuazione. Premi, incontri, dediche. Era un continuo. Non ce la faceva più. Oramai aveva dato quello che voleva e poteva dare. Non era stanco, ma c’era un tempo per tutto e Morricone faceva il possibile”.

Il sodalizio con Leone rimane insuperabile. 

“Sono stati un’unica cosa, loro due; una sola anima. Difficile pensare all’uno senza l’altro. Morricone veniva da una scuola molto colta, era stato allievo di Goffredo Petrassi. Erano musicisti di nicchia, quelli; musicisti che sperimentavano. Nuovi accordi e nuove sonorità”.

È il segreto della sua unicità.

“Quella cultura gli ha permesso di essere un artista estremamente eclettico. Aveva un arrangiamento musicale che non aveva nessuno. Forse solo Miklós Rózsa, che ha firmato le musiche di Ben-Hur, e Bernard Hermann, che ha lavorato a L’oro del demonio. Ma Morricone, in un certo senso, superava anche loro”.

Come? 

“Con l’anima. Con il cuore”. 

 

 

Morricone, dice qualcuno, era una rockstar.

“I gruppi musicali finiscono. Passano come passa il tempo. E i grandi compositori restano. La loro è una musica eterna. Quando ero a casa sua, per scherzare, gli feci questa domanda: mi vuoi dire quanto prendi de diritti in America? E lui: c’è uno che prende cinque volte quello che prendo io. E chi è?, gli chiesi. Ottorino Respighi, mi rispose; con la sua Trilogia romana, è diventato immortale”.

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