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Grazie, Mrs. America

Annalena Benini

La guerra dell’ambizione dentro alla guerra per la parità. Conservatrici, progressiste e l’incubo color pastello. In quanti modi si può essere una femminista? Il brivido della liberazione e il conflitto della sete di conquista

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Auna riunione a Washington con Barry Goldwater, senatore repubblicano candidato alla presidenza degli Stati Uniti nel 1964, Phyllis Schlafly spera di riuscire a consigliarlo sulla politica nucleare. Sa tutto, ha studiato, ha cresciuto sei figli, ha spazzolato la giacca al marito ogni sera, ha scritto libri di successo, conosce il potere e ne è attratta: vuole un posto tutto per sé. Alla riunione sono tutti maschi, e Phillys Schlafly con il suo tailleur rosa pastello, i capelli biondi scolpiti e il sorriso che manda scintille di ghiaccio e di speranza. Sa che cosa dire, sa come dirlo, quello è il suo momento, da ragazza per mantenersi al college ha fatto anche la modella, saper camminare aiuta, la bellezza aiuta. Ma ha appena iniziato a parlare in quel suo modo suadente e altolocato, e uno degli uomini la interrompe: “Potrebbe prendere appunti? Lei di certo ha la calligrafia migliore”. Il sorriso di Phyllis si sgretola per un attimo, e da quell’istante è chiaro qual è la vera guerra. Non quella tra femministe e anti femministe (la vera Phyllis Schlafly, morta nel 2016, ha fatto della opposizione al femminismo e all’Era, l’Equal rights amendament, per l’uguaglianza dei diritti senza distinzione di sesso, la sua riconoscibilità politica): la guerra tra uomini e donne per il potere, la guerra perché non mi venga chiesto di prendere appunti a una riunione di uomini, la guerra per non avere quattro volte la mano sulla spalla dell’uomo che mi ha invitato alla riunione per il nucleare, ma mi ha anche invitato a cena dopo la riunione.

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Auna riunione a Washington con Barry Goldwater, senatore repubblicano candidato alla presidenza degli Stati Uniti nel 1964, Phyllis Schlafly spera di riuscire a consigliarlo sulla politica nucleare. Sa tutto, ha studiato, ha cresciuto sei figli, ha spazzolato la giacca al marito ogni sera, ha scritto libri di successo, conosce il potere e ne è attratta: vuole un posto tutto per sé. Alla riunione sono tutti maschi, e Phillys Schlafly con il suo tailleur rosa pastello, i capelli biondi scolpiti e il sorriso che manda scintille di ghiaccio e di speranza. Sa che cosa dire, sa come dirlo, quello è il suo momento, da ragazza per mantenersi al college ha fatto anche la modella, saper camminare aiuta, la bellezza aiuta. Ma ha appena iniziato a parlare in quel suo modo suadente e altolocato, e uno degli uomini la interrompe: “Potrebbe prendere appunti? Lei di certo ha la calligrafia migliore”. Il sorriso di Phyllis si sgretola per un attimo, e da quell’istante è chiaro qual è la vera guerra. Non quella tra femministe e anti femministe (la vera Phyllis Schlafly, morta nel 2016, ha fatto della opposizione al femminismo e all’Era, l’Equal rights amendament, per l’uguaglianza dei diritti senza distinzione di sesso, la sua riconoscibilità politica): la guerra tra uomini e donne per il potere, la guerra perché non mi venga chiesto di prendere appunti a una riunione di uomini, la guerra per non avere quattro volte la mano sulla spalla dell’uomo che mi ha invitato alla riunione per il nucleare, ma mi ha anche invitato a cena dopo la riunione.

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La guerra dell’ambizione, dentro la guerra per la liberazione, e anche la guerra fra le donne: “Mrs. America” è una magnifica serie FX in nove episodi, appena andata in onda in America, basata su quello che è davvero successo negli anni Settanta nel movimento di liberazione delle donne, e ogni episodio porta il nome di una di queste donne, fino all’elezione di Ronald Reagan, su cui Phyllis Schlafly aveva deciso di puntare tutto. Ma gli uomini sono un contorno, gli uomini, illuminati e non, si siedono a tavola, gli uomini sorridono dei successi, ma soprattutto degli insuccessi, delle loro donne, e quando Phyllis Schlafly torna dalla riunione di Washington esausta e umiliata, avendo preso appunti e tolto mani dalle spalle, il marito vuole fare l’amore e lei no. E tutto quello che non ha voluto subire a Washington, Phillys lo subisce adesso a casa sua, da suo marito.


La lotta tra uomini e donne per il potere, la lotta perché non mi venga chiesto di prendere appunti a una riunione di uomini


 

Ci sono Betty (Betty Friedan), Gloria (Gloria Steinem), Bella (Bella Abzug), e Phillys Schlafly contro la quale tutte si trovano a combattere: l’antagonista, la protagonista, l’eroina e l’antieroina, il centro esatto del tormento dell’essere una donna e avere desideri. “Chi diavolo è Schlafly?”, grida a un certo punto Betty Friedan, attivista e teorica del femminismo, personaggio chiave del Novecento, l’autrice di un libro fondamentale e dirompente, “La mistica della femminilità” (“Non possiamo più ignorare quella voce interiore che parla nelle donne e dice: ‘Voglio qualcosa di più del marito, dei figli e della casa’”. Definizione della vita della casalinga borghese: “Un campo di concentramento confortevole”).

 

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Chi diavolo è Schlafly?

 

Schlafly è Cate Blanchett, anche produttore esecutivo della serie, ha gli occhi che mandano lampi, ha uno stuolo di casalinghe amiche adoratrici e sta per diventare, per il resto della vita, un’icona conservatrice. “Non sono contro le donne che lavorano fuori casa, è una scelta”, ed è la sua assoluta scelta anche se la sua battaglia è per “i privilegi” delle casalinghe contro la parità dei diritti. Lotta per le mogli, per la casa, per l’educazione dei figli, per l’America tradizionale, ma sta lottando per se stessa, per la propria carriera, per il suo desiderio di potere. Bella Abzug, leader del movimento di liberazione, depositaria della concretezza politica, ha paura di Phyllis Schlafly perché “è una vera femminista, è una donna libera”, ma dalla parte sbagliata. E’ così interessante l’illuminazione della parte sbagliata, l’illuminazione dell’altro sguardo, quello che ha perso, quello che non poteva vincere, quello che comunque ha contribuito alla lotta, lottando contro.

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E per chi come me ha trovato la strada spianata, non solo dal naturale movimento del tempo e della società, ma dal lavoro di queste donne, dalle loro notti in bianco, i volantini, la solitudine, le lacrime, i compromessi, gli anni passati a costruire la prossima occasione, “Mrs. America” è un brivido elettrizzante, e anche doloroso. E spostando il punto di vista su Phyllis Schlafly, mostra la complessità di quello che è accaduto, e di quello che continua ogni giorno ad accadere: chi diavolo è Schlafly? Chi diavolo siamo noi? Che cosa diavolo vogliamo? Che immensa domanda, e che grande tentativo di risposta in nove puntate.


Raccontare la complessità̀ del movimento che ci ha portate fin qui serve a capire quant’è̀ stato difficile. E quant’è appassionante essere una donna


 

Per questo è deludente leggere una specie di lineare freno all’entusiasmo, e quasi imbarazzo, sui giornali americani, New York Times, New Yorker, Variety: tutti dicono che “Mrs. America” è una bella serie, e che scrittura (la creatrice di “Mad Men”, Dahvi Waller, che ha trovato Phyllis Schlafly “un personaggio enormemente complesso”) e che eleganza, e che attrici, e quanto è inquietante Cate Blanchett, “un incubo color pastello”, ma con troppo spazio alla parte sbagliata, all’antifemminismo, al “fascino del conservatorismo bianco”. Il rischio, secondo questi commenti, è empatizzare troppo con Phillys Schlafly, che contro il femminismo ha combattuto e perso, e che non ha mai nemmeno ottenuto quel posto tutto per sé al Congresso. Si può empatizzare con un serial killer, con una banda di criminali, ma non si può rischiare di provare simpatia, dentro una serie tivù, per una donna che cercava il suo posto nel mondo e fra gli uomini. Come se, grazie alla grandezza di Cate Blanchett, si rischiasse di tifare contro la parità dei diritti, decidere di sfornare torte di mele per l’eternità e basta, uscire per strada a gridare: donne, tornate a sbucciare le mele in cucina”. Phyllis Schlafly lo fa, dopo una sconfitta personale si siede in cucina a sbucciare mele, non dice una parola e in quel movimento a spirale e perfetto del coltello sulla buccia della mela c’è tutto lo strazio interiore della sua delusione, del suo desiderio di potere non ancora, e probabilmente mai, appagato. Phyllis Schlafly perde, lo sappiamo, sappiamo chi ha ragione, ma per quale motivo dovremmo accettare l’impoverimento della nostra immaginazione e della nostra comprensione del mondo e del suo movimento per paura di ammiccare “al conservatorismo bianco”? Mentre si scrivono pezzi per dire che mai come adesso le donne devono lottare unite per la libertà, si prova fastidio per la libertà disallineata di una casalinga di successo, è più importante chiarire: aveva torto!, che dire: wow! La stessa Cate Blanchett in un intervento sul New York Times ha spiegato i motivi per cui ha deciso di interpretare un’icona conservatrice, un’antifemminista che toglie la giacca al marito quando lui torna a casa dal lavoro e che chiama Betty Friedan “zitella frustrata”, e parla di “donne sole alla soglia dei quarant’anni”. “Al primo incontro, Schlafly e io siamo, diciamo, due ospiti che non inviteresti alla stessa cena. Ma era proprio per questo che ero attratta dal ruolo. Sono stata attratta per indagare, illuminare, dare un senso e, si spera, comprendere l’apparente divario tra di noi”. Il New York Times ha titolato: “Io non sono Mrs. America”, perché il divario fosse ancora più chiaro e quindi più rassicurante la correttezza delle intenzioni.


La tirannia della correttezza per cui tutti corrono a dire: ma Phyllis Schlafly era sbagliata! “Io non sono Mrs. America”, titola il Nyt


 

“Quando ho iniziato a fare ricerche su di lei, ho appreso che inizialmente Phyllis Schlafly era molto interessata a una carriera nella difesa strategica e non ai problemi delle donne. Era una domanda a cui volevo rispondere: perché si opponeva? Cosa sperava di ottenere, opponendosi all’emendamento sulla parità dei diritti?”, ha detto Dahvi Waller, la creatrice della serie. Voleva il potere, voleva stare fuori casa, voleva laurearsi anche in legge, voleva stare sotto i riflettori, voleva essere riconosciuta per strada, voleva dimostrare a suo marito di essere più brava di lui, voleva stare nei posti in cui si decide, con i capelli verso l’alto e lo sguardo verso l’alto. “Phyllis ci ha insegnato tutto”, dicono le sue amiche casalinghe alla femminista pragmatica e con cappellino floscio Bella Abzug (quanto sono belli e profondi questi personaggi, quanto è reale il loro tormento). E lei: vi ha insegnato a battere a macchina? A fare un bilancio? A tenere una lista di contatti? A fare le fotocopie? A distribuire volantini? A organizzare una manifestazione? La risposta è: sì, sì, sì, sì, sì. “Lo vedete, allora siete delle lavoratrici”.

 

Siete delle lavoratrici, siamo delle lavoratrici. Alle riunioni con i bambini in braccio, il tacchino in forno, ai congressi negli anni Settanta di nascosto dal marito (“ho detto che andavo a trovare mia madre per il weekend, ti prego non dirgli che sono qui, dice che non è serio, e se torno a casa mi rimette incinta”). Il brivido è capire, oppure semplicemente godersi lo spettacolo di come siamo arrivate fino a qui. Virginia Woolf scriveva nel 1925: “Probabilmente tra cento anni le cose saranno completamente diverse”. E’ andata così, ed è stata una fatica immensa, è stato esaltante. Con enormi differenze, con un perenne conflitto non solo pubblico e con la competizione dentro la sorellanza, è stato un cammino identico, che eccede il confronto con gli uomini.

 

In una delle ultime puntate, Phyllis Schlafly litiga con sua figlia, perché scopre che si vergogna di lei, al college si è cambiata il nome per non essere riconosciuta e l’ha confidato alla zia, cioè alla cognata nubile di Phillys, che si occupa dei ragazzi quando lei non c’è e che ai comizi deve subire l’ironia di Phyllis verso le cinquantenni sole e disperate, e che quindi è segretamente compiaciuta di questo disprezzo. Phyllis rivolge alla figlia il suo sguardo fiammeggiante: mia madre lavorava ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, per permettermi di avere un’istruzione adeguata, e io non avrei mai osato vergognarmi di lei. L’ha zittita, ha vinto, ha appena dimostrato la complessità della sua battaglia, ha dato una lezione di sguardo a una ragazza viziata, ma è accaldata, affaticata, vuole tornare in camera sua. Sale le scale e si ferma un attimo, si toglie la giacca. Così noi vediamo, ma soltanto noi, la macchia di sudore sulla camicia di seta: è la menopausa.


“Schlafly e io siamo due ospiti che non inviteresti alla stessa cena. Ma proprio per questo ero attratta dal ruolo”, ha detto Cate Blanchett 


E’ la crudeltà della natura, è il freno che i maschi non hanno, un fuoco che dice: non so se puoi davvero avere tutto, conservatrice o progressista che tu sia, con gli occhiali da sole e i jeans, o con lo chignon e il filo di perle sopra il foulard. Con un figlio gay che hai tradito per il tuo desiderio di potere. Grazie, Phyllis Schlafly, non sapevo nemmeno che tu fossi esistita, e ora ho visto anche la vera Betty Friedan litigare con te in un dibattito televisivo negli anni Settanta (aveva ragione Betty Friedan), ma ora capisco meglio quanto è stato difficile, quanto è sempre difficile. Quanto è appassionante essere una donna.

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