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La resistenza di Olympia

Valentina Bruschi

La prostituta ritratta sul letto accanto alla sua serva con i fiori. Il quadro più famoso di Manet che fece scandalo per il nudo oggi potrebbe essere accusato di razzismo. Lezioni di storia dell’arte

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Sir Ernest Gombrich, il grande storico dell’arte fuggito dal nazismo in Inghilterra, afferma che il nostro modo di leggere le immagini condiziona il nostro modo di vedere il mondo. Osservare un’opera d’arte non è un’operazione passiva ma significa reagire a uno stimolo. La nostra reazione è percettiva ma anche culturale, influenzata dal vissuto quotidiano di una società. Parlando per paradossi, in “questi tempi interessanti” come potrebbe essere considerata un’immagine iconica come l’Olympia di Édouard Manet? Considerata capolavoro dell’Impressionismo e una finestra sulla modernità capace di infrangere le convenzioni dell’Ottocento. E’ lecito domandarsi se il suo destino sia ancora oggi quello di scandalizzare i benpensanti, come accadde al Salon parigino del 1865 quando un giornalista del tempo riferisce che il pubblico, sconcertato, tentò di colpire la tela con gli ombrelli e la stampa non risparmiò critiche impietose. Nonostante il nudo femminile fosse nella tradizione tizianesca, disturbava che questo dipinto presentasse un corpo di donna realistico e non idealizzato come le tante divinità coeve che, invece, non stupivano affatto nella loro perfezione scultorea che rimandava alla statuaria classica. Olympia è ritratta con i modi e i simboli di una prostituta, lo sguardo sfrontato, senza pudore. In più è dipinta a grandezza naturale, distesa sul letto disfatto, in attesa di “un prossimo incontro”. Tale immagine urtava la morale conformista borghese dell’epoca, in quanto evocava l’atmosfera di una casa di appuntamenti. Le tante critiche fecero sì che l’opera fosse rimossa ma oggi è esposta nella collezione del Musée d’Orsay. Oggi si potrebbe parlare di come gli artisti uomini hanno raffigurato le donne come oggetto erotico? E che dire poi della fantesca nera in posizione subalterna che le porge un mazzo di fiori inviato da un galante habitué? Potrebbe essere oggetto di critica perché espressione di quel mondo aristocratico-coloniale di Rossella O’Hara in Via col Vento, film storico che ha riscosso tanto clamore ultimamente perché rimosso temporaneamente dal catalogo del canale satellitare Hbo?

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Sir Ernest Gombrich, il grande storico dell’arte fuggito dal nazismo in Inghilterra, afferma che il nostro modo di leggere le immagini condiziona il nostro modo di vedere il mondo. Osservare un’opera d’arte non è un’operazione passiva ma significa reagire a uno stimolo. La nostra reazione è percettiva ma anche culturale, influenzata dal vissuto quotidiano di una società. Parlando per paradossi, in “questi tempi interessanti” come potrebbe essere considerata un’immagine iconica come l’Olympia di Édouard Manet? Considerata capolavoro dell’Impressionismo e una finestra sulla modernità capace di infrangere le convenzioni dell’Ottocento. E’ lecito domandarsi se il suo destino sia ancora oggi quello di scandalizzare i benpensanti, come accadde al Salon parigino del 1865 quando un giornalista del tempo riferisce che il pubblico, sconcertato, tentò di colpire la tela con gli ombrelli e la stampa non risparmiò critiche impietose. Nonostante il nudo femminile fosse nella tradizione tizianesca, disturbava che questo dipinto presentasse un corpo di donna realistico e non idealizzato come le tante divinità coeve che, invece, non stupivano affatto nella loro perfezione scultorea che rimandava alla statuaria classica. Olympia è ritratta con i modi e i simboli di una prostituta, lo sguardo sfrontato, senza pudore. In più è dipinta a grandezza naturale, distesa sul letto disfatto, in attesa di “un prossimo incontro”. Tale immagine urtava la morale conformista borghese dell’epoca, in quanto evocava l’atmosfera di una casa di appuntamenti. Le tante critiche fecero sì che l’opera fosse rimossa ma oggi è esposta nella collezione del Musée d’Orsay. Oggi si potrebbe parlare di come gli artisti uomini hanno raffigurato le donne come oggetto erotico? E che dire poi della fantesca nera in posizione subalterna che le porge un mazzo di fiori inviato da un galante habitué? Potrebbe essere oggetto di critica perché espressione di quel mondo aristocratico-coloniale di Rossella O’Hara in Via col Vento, film storico che ha riscosso tanto clamore ultimamente perché rimosso temporaneamente dal catalogo del canale satellitare Hbo?

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Nel 1865 a Parigi il pubblico, sconcertato, tentò di colpire la tela con gli ombrelli, e la stampa non risparmiò critiche impietose


 

Nelle ultime settimane, a seguito dell’uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis il movimento Black Lives Matter sta infiammando gli Stati Uniti e non solo. Un episodio tragico che ha sollevato la questione della persistenza e pervasività della questione razziale insieme alla necessità di risolverla ed esprimere, finalmente, nuovi valori condivisi, anche nelle istituzioni museali. L’argomento è stato al centro della riunione annuale della American Alliance of Museums, che si è svolta online il 3 giugno scorso ed è disponibile al pubblico. In un mondo dove il razzismo è ancora un’emergenza, è auspicabile un cambiamento profondo, non la superficiale ipocrisia del filtro politically correct che rischia di distogliere l’attenzione dai veri problemi e, nello specifico, altera la lettura di opere d’arte negando lo spirito critico dello spettatore. 

 

(Mickalene Thomas, “Tamika sur une chaise longue avec Monet”, 2012)

 

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Nel nostro tempo dove “la memoria è pigra e l’oblio veloce”, come afferma Salvatore Settis, la dialettica, lontana dagli eccessi, invita ad approfondire un confronto sull’impegno dei direttori di musei e degli storici dell’arte per reinterpretare il passato e le storie delle opere che pensavamo di conoscere. Con questo approccio è stata realizzata una mostra epocale, poco raccontata nel nostro paese, concepita proprio in quella università di New York che forse dovrà cambiare nome perché l’attuale è in memoria di Cristoforo Colombo, diventato simbolo dell’America bianca che ha usurpato le terre dei nativi americani, un altro aspetto, non risolto, della costruzione complessa della società americana. Nonostante la difficoltà di trovare il sostegno economico da parte dei grandi musei americani, dopo essere stata allestita nella Wallach Art Gallery della Columbia University, nel cuore di Harlem, l’anno scorso l’esposizione, dal titolo, “Posing Modernity: The Black Model from Manet and Matisse to Today” è arrivata esattamente al Musée d’Orsay. Si inizia quindi dall’Olympia di Manet, per rileggere la storia dell’arte attraverso lo studio della rappresentazione delle persone di colore nelle arti visive, dalla lunga storia che portò all’abolizione della schiavitù in Francia (1794-1848) ai nostri giorni. La mostra si concentrava principalmente sulla questione dei modelli, e quindi sul dialogo tra l’artista che dipinge e il modello che posa. La curatrice è Denise Murrel, donna d’affari afroamericana diventata curatrice d’arte contemporanea per passione e anche per raccontare la storia di Laure, la cameriera che porge i fiori a Olympia, tema della sua tesi di dottorato, poi diventata la mostra di cui sopra. Evidentemente Laure non era una figura marginale per il modo in cui l’aveva dipinta l’Impressionista francese, anche se questa innegabile verità non sembrava interessare i professori di storia dell’arte della Murrel che, a suo dire erano concentrati ad analizzare nudo di donna distesa, identificata con Victorine Meurent, modella, che ritroviamo sempre nuda tra due uomini vestiti nel celebre, e altrettanto “indecente” dipinto, Le Dejeuneur su l’erbe.

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Una mostra curata da Denise Murrel rilegge la storia dell’arte attraverso la rappresentazione delle persone di colore nelle arti visive


 

Questi storici dell’arte sembrano non accorgersi della presenza di una seconda figura femminile perché l’approfondimento della storia di lei non rientrava nelle loro narrative. Al massimo, alcuni critici le avevano dato il ruolo di dettaglio esotico ma nulla di più. Già Griselda Pollock, autorità internazionale dei gender studies, analizzando il quaderno di appunti di Manet, aveva scoperto il nome della modella, annotato dall’artista, “Laure, très belle négresse”, ritratta in tre dipinti diversi. La Murrel segue l’indizio lasciato dal pittore: l’indirizzo accanto al nome di Laure che si trovava nello stesso quartiere dove all’epoca vivevano e lavoravano gli Impressionisti, il 9° arrondissement a nord del centro di Parigi, zona ad alta densità di migranti dopo il decreto di abolizione della schiavitù nelle colonie francesi nel 1848. 

 

(Jean-Léon Gérôme, “A vendre. Esclaves au Caire”, 1873)

 

Come sappiamo l’obbiettivo degli Impressionisti era quello di raccontare l’atmosfera della città moderna che per loro era il nuovo campo d’indagine della ricerca artistica, rivoluzionando i temi mitologici, storici o di paesaggio che fino ad allora avevano dominato la scena. Vestita con gli abiti del proletariato francese, Laure è una persona reale, una donna libera che fa parte integrante del nuovo racconto della metropoli moderna e multi razziale, discostandosi in maniera netta dai coevi ritratti esotici di donne a seno nudo delle pitture orientaleggianti, dove si cercava anche il contrasto estetizzante tra i corpi bianchi e neri, come nel dipinto con le, Schiave in vendita al Cairo, di Jean-Léon Gérôme. Se gli storici avevano dimenticato la presenza di Laure, l’artista al contrario, con la sua visionaria capacità di esprimere lo spirito del tempo in maniera universale, le aveva riservato uno spazio uguale a quello della protagonista nell’economia delle dimensioni dell’opera. Come suggerisce la critica Hilarie M. Sheets del New York Times, Laure sembra quasi consigliare a Olympia in maniera pragmatica: pensaci prima di rifiutare un cliente, oppure prendi questi fiori ragazza e fatti pagare!


Che dire della fantesca nera in posizione subalterna che le porge un mazzo di fiori? Potrebbe essere oggetto di critica oggi?


 

Da questo incipit, la mostra (visitabile virtualmente sul sito della Wallach Art Gallery) racconta tante storie simili attraverso oltre cento dipinti, disegni, sculture, fotografie conservate in istituzioni di tutto il mondo. Numerose le opere di Matisse che, come la curatrice ha ricostruito, visitò New York ben quattro volte negli anni Trenta. Leggendo le sue lettere, ha scoperto che di giorno visitava il Metropolitan Museum ed era ospitato dai Rockefeller, ma di notte visitava jazz club e frequentava il “teatro nero”, affascinato dalla cultura afroamericana che ha, in modo significativo, ispirato la sua estetica. In un rimando di influenze, la famosa artista contemporanea Mickalene Thomas (classe 1971), la prima a ritrarre l’ex First Lady Michelle Obama nel 2008, attinge sia dall’intensità decorativa di Matisse che dall’interesse di Manet per una sensualità consapevole espressa nei suoi coloratissimi ritratti realizzati con strass, smalti e acrilico di donne afroamericane spavalde e ribelli che sembrano uscite da un b-movie anni Settanta alla Quentin Tarantino. Lei stessa descrive le sue modelle nello stesso modo in cui oggi possiamo guardare Olympia, considerando sia il tema della razza quanto quello del genere: “Le donne che ritraggo guardano il pubblico con consapevolezza di sé, chiedendo di essere viste mentre loro stesse danno l’impressione di vedere attraverso lo spettatore”.


Se gli storici avevano dimenticato la presenza di Laure, l’artista le aveva riservato uno spazio uguale a quello della protagonista 


Così Olympia di Manet, ancora oggi, conserva la sua complessità e il suo potere formale, che ha ispirato tanti artisti e che è stata decostruita a piacimento in forme diverse come le riletture di Cézanne, la copia di Gauguin del 1891, le Odalische di Matisse e le numerose reinterpretazioni all’interno della Harlem Renaissance, Pop Art e arte contemporanea. Da questo punto in poi sarà anacronistico raccontare l’opera parlando solo della prostituta e non della domestica. Oggi che abbiamo più informazioni dobbiamo usarle per rileggere il passato che, come diceva William Faulkner, “Non muore mai. Non è nemmeno passato”.

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