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I figli viziati della storia

Giulio Meotti

“Siamo svenevoli come tante suore e non più abituati al pericolo”. Parla la filosofa francese Chantal Delsol

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"Non siamo più abituati a essere in pericolo. Siamo le prime generazioni nella storia a non aver vissuto la guerra, la miseria o il dispotismo. Educhiamo i nostri figli all’idea che nulla è serio e che tutto è possibile. Siamo i figli viziati della storia. Ma tutto questo è un sogno. La guerra, la miseria, il dispotismo, possono sempre accadere. Il panico che abbiamo mostrato al momento di questa crisi sanitaria dimostra come il primo dramma collettivo che ci sia capitato da tanto tempo ci abbia colto alla sprovvista. Pensavamo di aver cambiato il mondo. In realtà, è ancora il nostro mondo, anche se per molto tempo l’abbiamo nascosto”. Chantal Delsol, la filosofa allieva di Julien Freund, fondatrice dell’Istituto Hannah Arendt e membro dell’Accademia di scienze morali e politiche, la famosa “cupola” della cultura francese, ha visto nella pandemia una crisi di maturità.

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"Non siamo più abituati a essere in pericolo. Siamo le prime generazioni nella storia a non aver vissuto la guerra, la miseria o il dispotismo. Educhiamo i nostri figli all’idea che nulla è serio e che tutto è possibile. Siamo i figli viziati della storia. Ma tutto questo è un sogno. La guerra, la miseria, il dispotismo, possono sempre accadere. Il panico che abbiamo mostrato al momento di questa crisi sanitaria dimostra come il primo dramma collettivo che ci sia capitato da tanto tempo ci abbia colto alla sprovvista. Pensavamo di aver cambiato il mondo. In realtà, è ancora il nostro mondo, anche se per molto tempo l’abbiamo nascosto”. Chantal Delsol, la filosofa allieva di Julien Freund, fondatrice dell’Istituto Hannah Arendt e membro dell’Accademia di scienze morali e politiche, la famosa “cupola” della cultura francese, ha visto nella pandemia una crisi di maturità.

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Il cardinale Robert Sarah sul Figaro si è chiesto se la chiesa abbia ancora qualche funzione nella società, a parte accompagnare i carri funebri. “Questa crisi, e questo tipo di crisi in generale in cui sono in gioco valori vitali, avvicina senza dubbio le persone alla spiritualità” dice al Foglio Delsol, autrice di saggi importanti, da ultimo “Le Crépuscule de l’universel” (Éditions du Cerf). “Un’intera popolazione che pensava principalmente al consumo, al tempo libero e alla carriera, si è trovata improvvisamente di fronte alla possibilità della malattia e della morte. Ci siamo resi conto che la cosa più importante erano le attività di cura e guarigione, cioè le uniche veramente spirituali. Tuttavia, questo ritorno alle domande spirituali non significa un riavvicinamento giudeo-cristiano. Ci sono molte spiritualità sviluppate nell’immanenza, quelle della saggezza, che hanno affascinato le nostre società già da mezzo secolo. E’ molto probabile che, non appena la crisi sarà finita, la maggior parte di noi riprenderà la sua vita di consumo, di svago e di carriera. Tuttavia, la consapevolezza della nostra fragilità sanitaria a livello globale si aggiungerà alla consapevolezza della nostra fragilità ambientale: potrebbe spiritualizzare la nostra vita”.


“Non dobbiamo raccontarci favole: stiamo assistendo alla fine della cristianità in Europa. E’ un momento molto doloroso e raro”


 

Rinuncia dunque alla possibile rinascita del cristianesimo in questa Europa ultrasecolarizzata. “Non dobbiamo raccontarci favole: stiamo assistendo alla fine della cristianità. E’ un momento doloroso e raro, poiché è la fine di una storia di due millenni. Naturalmente questa è la fine della cristianità, non del cristianesimo. E’ la fine di una società la cui morale, leggi, costumi sono ispirati dal cristianesimo. Possiamo datarlo negli anni Sessanta, con le cosiddette riforme sociali (le manifestazioni per la legalizzazione dell’aborto o il voto sul divorzio in Italia). Ma il cristianesimo aveva iniziato a sgretolarsi molto prima, dal XVII secolo. D’ora in poi avremo società in cui la morale e le leggi dipenderanno dai comitati etici costituiti da membri di tutte le correnti di pensiero e di tutte le religioni. Di conseguenza, i cristiani non cessano di esistere, ovviamente, ma diventano minoranze. Per loro, lo status di minoranza è completamente nuovo e non hanno compreso appieno cosa significhi”.

 

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Non è d’accordo con Alain Finkielkraut quando evoca il nichilismo. “Non è perché rifiutiamo i principi della nostra tradizione che diventiamo nichilisti; di solito adottiamo altri principi. Ad esempio, la fine del cristianesimo non provoca, a mio parere, il nichilismo, ma l’adozione di saggezze che sono risposte più semplici ed elementari all’angoscia esistenziale. Il paganesimo e le saggezze sono come un brodo primordiale: ci torniamo appena non abbiamo più niente. Mentre il nichilismo è una postura rara, assunta dagli intellettuali, assolutamente non praticabile e molto spesso ipocrita. Il nichilista capovolge i principi antropologici elementari e rovescia il tavolo: Diogene, Sade, Foucault... Gli ateniesi trovavano Diogene divertente, diceva che si dovrebbe dormire con la madre e mangiare il padre, ma non gli avrebbero dato i loro figli da educare. Sade diverte gli intellettuali di Saint Germain des Près ma chi lo prende sul serio? Il nichilismo è una schiuma di pedanteria che fa molto rumore ma non porta lontano. Se ci arrendiamo, come lei dice, allora, piuttosto, torniamo ad essere pagani”.

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“Tutti i discorsi pubblici sono lisci e dolci, pieni di buoni sentimenti e di melodrammi. E’ un fenomeno tipico dell’umanitarismo”


 

Nel suo “Elogio della singolarità” (in Italia per Liberilibri), Delsol ha denunciato l’avvento di un individuo mellifluo e malleabile, democratico ma simile a quello che obbediva ai totalitarismi. “Con questa pandemia siamo lontani dal post-umanesimo e dalla ‘morte della morte’, che sciocchezza abbiamo accarezzato”, continua al Foglio. “L’individuo sovrano e che si presume onnipotente si rende conto che il suo destino non è interamente nelle sue mani. Si rende conto di avere un terribile bisogno degli altri, e che i gesti più semplici sono i più sostanziali. La prima caratteristica dell’uomo moderno è che ignora sia il dramma sia la tragedia, e si comporta come se non esistessero. Il dramma è la situazione in cui è in gioco l’essenziale. La tragedia è la situazione in cui due valori antitetici si combattono senza speranza di vittoria. La pandemia è una tragedia perché è in gioco la vita. E’ una tragedia perché la salute e l’economia sono essenziali e antitetiche. Non siamo più abituati a questo tipo di situazioni, convinti di aver conquistato un’esistenza tranquilla, dove non ci sono domande senza soluzioni. Da circa vent’anni la doxa cerca di farci credere che ognuno di noi sia un’isola. E che solo una cosa conta: la possibilità per l’individuo di fare ciò che vuole in ogni momento. Ciò che questa dottrina dimentica è che i legami interumani sono essenziali. Ma i legami interumani non si basano sulla nostra totale libertà, ma sulla nostra responsabilità, e quindi su certi sacrifici delle nostre libertà. Se voglio vivere in una famiglia unita, dovrò sacrificare un po’ della mia libertà personale. In Francia impariamo nella culla la frase rivoluzionaria: ‘La mia libertà si ferma quando inizia la libertà dell’altro’, ed è uno scherzo. Perché la mia libertà si ferma piuttosto dove inizia la mia responsabilità, verso le mie comunità grandi e piccole. E’ chiaro che gli esseri umani privati delle loro comunità impazziscono. Far credere che l’individuo sia un’isola era un inganno”.

 

La fatalità del progresso appare arretrare. “L’idea del progresso come fatalità ha cominciato a regredire cinquant’anni fa, dopo il maggio del ’68. All’epoca eravamo così sicuri che tutto sarebbe andato sempre meglio che non abbiamo nemmeno tenuto conto degli eventi drammatici. La pandemia del 1968-69 ha causato, almeno in Francia, più morti del Covid (30 mila nel dicembre del 69), ma nessuno se n’è accorto! I servizi di emergenza sono stati sopraffatti da questa spaventosa malattia respiratoria, ma è stata presa in giro dalle riviste. E’ strano questa trasformazione della coscienza in mezzo secolo: la certezza di un progresso fatale ha cessato di esistere. Da allora ci si affeziona a piccoli particolari progressi, miglioramenti o emancipazioni che riguardano gruppi specifici. Non si tratta più di un grande piano verso il Progresso universale e totale. Ma non avevamo bisogno della pandemia per capire questo. In precedenza ci sono stati fallimenti economici, e i nostri fallimenti nel condividere la democrazia e i diritti umani. E’ da decenni che non crediamo più a queste illusioni della modernità. L’epoca postmoderna, al contrario, è piuttosto pessimista, come aveva notato con grande anticipo Camus: siamo arrivati a un punto in cui dobbiamo ‘impedire che il mondo si distrugga’. Il Progresso, con la P maiuscola, è dietro di noi. Quando abbiamo visto la Russia ex comunista tornare al dispotismo, e le rivoluzioni arabe che producevano mullah, abbiamo capito allora che non c’era senso della storia”.

 

Usciti dalla quarantena, siamo tornati a dividerci su gender, come nel caso di J.K. Rowling, e razza. “Le nostre università riprenderanno presto le loro teorie indigeniste e i sostenitori del gender non saranno sconfitti da un’epidemia. Tuttavia, c’è stato un vento di realtà che ha spinto queste teorie al secondo posto. Può darsi che questo cambiamento di priorità dia luogo a nuove meditazioni, nuovi pensieri, nuovi punti di riferimento”.


“L’idea del Progresso ha cominciato a regredire dopo il ’68. Oggi abbiamo piccoli progressi di piccoli gruppi minoritari”


 

In America e Inghilterra il giorno dopo la fine del lockdown si sono abbattute statue con una furia mai vista. “Ho applaudito quando ho visto i nostri vicini dell’Europa centrale decapitare le statue di Lenin ... C’è una differenza tra un intero popolo sofferente che si sbarazza di una tirannia recente e piccoli gruppi isterici che mettono in discussione tutto il passato. C’è una differenza tra voler abolire alcuni simboli vividi e offensivi e voler cancellare tutte le tracce. Non possiamo cancellare le tracce del passato, è come un dolore, solo il tempo può offuscarle”.

 

Molti suoi colleghi nelle lettere francesi hanno accarezzato la quarantena come un balsamo per la terra. “Credo che la vita delle élite raffinate, come lei giustamente dice, rappresenti una sorta di artificio che, per la sua stessa irrealtà, si stanca alla lunga. Le élite cosmopolite dei nostri paesi industrializzati sono costantemente in viaggio, vivono ovunque, cambiano moglie e persino figli. Sono atomi che ruotano di continuo da ogni punto di vista, negando ogni radice, proiettando costantemente nuovi piaceri, nuovi amori, nuovi viaggi. Credo che sia un’esistenza di snobbismo, cioè di artificio: conduciamo questa vita per darci una certa immagine e non per vivere veramente. Quando questo tipo di esistenza è costretta a fermarsi per un lungo periodo di tempo, allora vediamo tutto ciò che perdiamo, siamo presi da una sorta di nostalgia per il reale. Ma alla fine è un po’ come la regina che voleva interpretare la moglie del contadino, è fallace. Quanto a lodare il confinamento perché gli aerei non volavano più, è stato sciocco: se vogliamo una natura senza aerei e senza inquinamento, dobbiamo tornare indietro di due secoli, in tutti i campi, economici e sociali. Avrete notato che gran parte della popolazione, coloro che vivono in piccole città, coloro che non viaggiano, non hanno visto una grande differenza, perché sono persone che hanno una vita normale. Al momento mi trovo in un villaggio delle Alpi dove la gente non ha sentito molta differenza. Detto questo, non appena le cose torneranno alla normalità, le nostre raffinate élite riprenderanno la loro sfrenata, esaltante, drogata esistenza”.

 

Siamo diventati incapaci di percepire un pericolo esistenziale e di agire di conseguenza. “I governi non hanno previsto la possibilità di un disastro, perché il dramma è impossibile, non succede più. Quando il pericolo reale, il pericolo vitale, è annunciato, prima di tutto non ci crediamo. Mi ha colpito il tono melodrammatico dei media in questo periodo. In televisione si parlava dei morti e dei malati come nei film di serie B, con un’enfasi scenica e lamentosa. Va detto che questa svenevolezza è caratteristica della morale umanitaria contemporanea. Avete notato che le nostre società finiscono per assomigliare ai conventi delle suore? Tutti i discorsi pubblici sono lisci e dolci, pieni di buoni sentimenti e di melodrammi di cui non abbiamo bisogno. Niente a che vedere con quello che Max Scheler chiamava ‘lo sguardo chiaro e freddo dell’amore cristiano’, perché il sentimento cristiano è spirituale, è interiore, mentre in un’epoca senza trascendenza il sentimento deve uscire, attraversare ogni poro, espiare se stesso senza alcun imbarazzo, per dimostrare che esiste”.

 

Si è detto che la “società degli esperti” ha fallito. “Le nostre società di consumo sono società di flussi e non più società di stoccaggio. Tutto deve muoversi e tutto deve essere costantemente consumato. Non conserviamo mascherine! Non facciamo scorta di respiratori! Sarebbe uno spreco e un affronto al consumo. I nostri esperti sono programmati in questo modo. In Francia l’eccessiva centralizzazione è responsabile. E’ necessario che tutto parta dall’alto, in spregio ai corpi intermedi, e che tutto sia uguale ovunque, a causa dell’unica e indivisibile Repubblica. Il risultato è che al culmine della crisi si è parlato solo di servizi di rianimazione sull’orlo del collasso mentre un gran numero di cliniche private o piccole unità ospedaliere erano vuote e in attesa con attrezzature inutilizzate. I nostri esperti hanno una visione talmente burocratica che la realtà gioca loro degli scherzi: si devono avere una dozzina di timbri amministrativi, altrimenti è meglio farne a meno. E’ così che ci è mancato tutto”.


“Le élite vivono ovunque, cambiano moglie e figli. Quando è arrivata la pandemia sono entrate in crisi, costrette a fermarsi”


 

Ha scritto che in occidente, la ricerca della felicità ha sostituito l’aspirazione alla verità. Ma la ricerca della felicità in sé non porta a una sorta di frustrazione collettiva? “Passare dalla ricerca della verità alla ricerca della felicità significa passare dal cristianesimo al paganesimo, dalla filosofia alla saggezza. E’ una specie di ritorno ai vecchi stoicismi ed epicureismo, se vuoi. Questo è ciò che ci sta accadendo oggi. Chiedete se non c’è frustrazione? La verità ci mancherà, la felicità non è abbastanza. Ma devi capire che la ricerca della verità è qualcosa di occidentale. La maggior parte delle culture ne fa a meno e vive nei miti, vale a dire nelle storie inventate e raccontate per dare un senso alla vita. Le culture asiatiche non vivono nella frustrazione. Guarda da vicino le giovani generazioni nei nostri paesi: sono agnostiche e alla ricerca della felicità; assomigliano ad antichi epicurei o asiatici. E’ una vera inversione culturale”. E una fuga, tanto che oggi affermare certe verità collettive a scapito della felicità individuale è diventato peccato. “Le verità che sono diventate una vergogna sono le verità antropologiche” conclude Delsol. “Ci sono certezze antropologiche che non possiamo rifiutare, ciò che Marcel Mauss chiamava ‘la roccia’ e che era stato definito per la prima volta dal vostro grande Vico: l’essere umano è caratterizzato da matrimonio, filiazione e morte. Questo è quello da cui oggi stiamo cercando di scappare”.

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