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Fare L’amore, fare la guerra

Marina Valensise

Le lettere del poeta-soldato Apollinaire alle sue amanti sono un inno all’erotismo che diventa arte

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E pensare che Guillaume Apollinaire poteva essere italiano. In effetti, era nato a Roma, in Piazza Mastai, all’alba di un giorno di fine agosto del 1880, e dalla levatrice trasteverina era stato registrato all’anagrafe come figlio di madre anonima e padre ignoto. Un mese dopo fu battezzato nella parrocchia di San Vito, nei pressi di Santa Maria Maggiore, e due mesi dopo la madre, un’improbabile ventunenne fuggita da Trinità dei Monti e residente in via del Boschetto, lo riconobbe davanti a un notaio. Romano per caso, Apollinaire in realtà era un apolide di sangue misto. La madre, polacco-lituana ma russa di passaporto, era nata in Finlandia da un militare spiantato di antico lignaggio, Apollinaris Kostrowitzky, che darà il suo nome al nipote. Perse le fortune di famiglia quando Minsk era diventata russa, dopo aver servito nell’esercito dello zar, essere rimasto ferito nell’assedio anglofrancese di Sebastopoli nel 1854, essersi ritirato a vita civile mietendo non poche frodi, questo bizzarro personaggio un po’ mitomane che era il nonno di Apollinaire pensò bene di riparare a Roma, dove la moglie se l’era data a gambe levate per sfuggire alle violenze coniugali. Alla viglia della breccia di Porta Pia, Kostrowitzky riuscì persino a ottenere la benedizione di Pio IX e la nomina di cameriere onorario di cappa e spada alla corte pontificia. Il padre ignoto, invece, figura sulla quale Apollinaire fu sempre assai misterioso e pudico, era con ogni probabilità un napoletano, anch’egli militare in disarmo, già capitano dell’esercito di Ferdinando II delle due Sicilie, si era destinato, dopo l’Unità d’Italia, a una gozzoviglia di rango. Secondo la ricostruzione postuma dei biografi, si trattava di un Francesco Flugi d’Aspermont, detto Franz, originario dei Grisoni, di vent’anni più vecchio della sua concubina, che ben presto abbandonerà facendole perdere le sue tracce, e costringendola a riparare a Montecarlo, dove un fratello d’Aspermont ufficiava come direttore della neonata abbazia nullius diocesis di Monaco.

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E pensare che Guillaume Apollinaire poteva essere italiano. In effetti, era nato a Roma, in Piazza Mastai, all’alba di un giorno di fine agosto del 1880, e dalla levatrice trasteverina era stato registrato all’anagrafe come figlio di madre anonima e padre ignoto. Un mese dopo fu battezzato nella parrocchia di San Vito, nei pressi di Santa Maria Maggiore, e due mesi dopo la madre, un’improbabile ventunenne fuggita da Trinità dei Monti e residente in via del Boschetto, lo riconobbe davanti a un notaio. Romano per caso, Apollinaire in realtà era un apolide di sangue misto. La madre, polacco-lituana ma russa di passaporto, era nata in Finlandia da un militare spiantato di antico lignaggio, Apollinaris Kostrowitzky, che darà il suo nome al nipote. Perse le fortune di famiglia quando Minsk era diventata russa, dopo aver servito nell’esercito dello zar, essere rimasto ferito nell’assedio anglofrancese di Sebastopoli nel 1854, essersi ritirato a vita civile mietendo non poche frodi, questo bizzarro personaggio un po’ mitomane che era il nonno di Apollinaire pensò bene di riparare a Roma, dove la moglie se l’era data a gambe levate per sfuggire alle violenze coniugali. Alla viglia della breccia di Porta Pia, Kostrowitzky riuscì persino a ottenere la benedizione di Pio IX e la nomina di cameriere onorario di cappa e spada alla corte pontificia. Il padre ignoto, invece, figura sulla quale Apollinaire fu sempre assai misterioso e pudico, era con ogni probabilità un napoletano, anch’egli militare in disarmo, già capitano dell’esercito di Ferdinando II delle due Sicilie, si era destinato, dopo l’Unità d’Italia, a una gozzoviglia di rango. Secondo la ricostruzione postuma dei biografi, si trattava di un Francesco Flugi d’Aspermont, detto Franz, originario dei Grisoni, di vent’anni più vecchio della sua concubina, che ben presto abbandonerà facendole perdere le sue tracce, e costringendola a riparare a Montecarlo, dove un fratello d’Aspermont ufficiava come direttore della neonata abbazia nullius diocesis di Monaco.

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Il padre ignoto era forse Francesco Flugi d’Aspermont, detto Franz, originario dei Grisoni, di vent’anni più vecchio della sua concubina


 

A dispetto di queste rocambolesche ascendenze, Apollinaire guardò per tutta la vita con amore all’Italia, paese in cui aveva imparato a parlare e dove aveva vissuto fino all’età di sette anni. “Italie / Toi notre mère et notre fille quelque chose comme une sœur / J’ai comme toi pour me réconforter”, scriverà in piena guerra nell’omonimo poema dedicato a Ardengo Soffici, che figura in Calligrammes, la raccolta del 1918. Dell’italiano in effetti, il poeta postsimbolista, presurrealista, cubista e futurista, che ha inventato l’estetica contemporanea, lo scrittore d’avanguardia amico di Braque, Picasso, Dérain, il giornalista, editore, critico d’arte e poligrafo, che per sbarcare il lunario sfornava romanzi libertini, aveva conservato molti dei tratti salienti. Era noto infatti per l’energia vitale straripante, la sensualità a fior di pelle, un senso spiccato, e molto libero, della mitomania, il gusto per il lamento continuo, la capacità di planare con un sorriso sulle disgrazie più atroci, di guardare al tragico mantenendo il baricentro del proprio io, e soprattutto per l’amore sfrenato per quella realtà surrettizia e parallela, creata in ragione delle proiezioni psichiche più audaci, e frutto di immaginazione incontinente.

 

Era un uomo che amava la vita, curioso di tutte le sue forme e le sue manifestazioni, un cultore della letteratura medievale e delle leggende slave, un amante della velocità, un bulimico dell’amore e fondamentalmente un malaimé, sempre in cerca di una sorta di compensazione sentimentale, forse per liberarsi di quella madre impossibile, bellissima e sfuggente, passionale e violenta, sempre presa da qualche sua misteriosa avventura venale, eppure attentissima all’educazione dei figli e con loro severissima, sino a trattarli, da adulti, come bambini di sei anni. “Costei era una grande mondana e quando anche l’ultima traccia fu spenta della sua bellezza, si arruolò belle case da gioco come ‘uccello di richiamo’”, scriverà Alberto Savinio, che di Apollinaire fu amico, ne dipinse un ritratto molto più bello di quello, premonitore, realizzato da suo fratello Giorgio De Chirico, e volle pure vendicarlo da quella polacca e rapace genitrice che ne seguì il feretro “piumata, ridipinta, infalpalata”, ridendo e impennandosi davanti agli amici che cercavano di confortarla: “Mio figlio un poeta? Dite piuttosto un fannullone”.

 

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Fu così che per tutta la vita, sin da quando era un adolescente patito di saghe medievali, Apollinaire poeta coltivò l’amore, l’amore e l’amore, perseguendo il sogno della bellezza e della pienezza dell’esistenza. Inseguì donne impossibili, ora sadiche, ora instabili, ora dispotiche, ora impalpabili, fedeli e infedeli, indifferenti o salvifiche, bionde, brune e soprattutto rosse, cercando sempre di sedurle e conquistarle, di aggiogarle e dominarle, consegnandosi a loro anima e corpo, fino alla resa finale, sua per estenuazione, loro per i continui tradimenti o la pressione impossibile. Insomma un tipo umano dalla personalità caleidoscopica, mobile e interessantissimo non solo sul piano della creazione artistica, ma su quello della vita, dello slancio vitale, dell’impulso primigenio e sorgivo e dell’immediata spontaneità che ne ispirava gesti, scritti, opere e parole, rinnovando ogni volta la tradizione, e reinventando il lascito di un’erudizione infinita.

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Descrive in dettaglio l’intreccio dei corpi e l’anatomia della lussuria, le sorprese della lascivia e i segreti da maestro del sadismo


 

Per avere una dimostrazione lampante di tutto ciò, a cent’anni dalla morte avvenuta nel novembre 1918 per i postumi di una ferita alla testa provocata da una granata in guerra, sommati alla spagnola, dobbiamo tuffarci nell’orgia epistolare che è la sua corrispondenza con le sue cinque muse, le cinque donne che amò negli ultimi anni della sua vita: la pittrice Marie Laurencin, con cui visse per cinque anni tumultuosi fino al giugno 1912, l’aristocratica mattoide Louise de Coligny-Châtillon, la melensa Madeleine Pagès, incontrata su un treno e ripescata dopo la rottura con Louise, la poetessa Jeanne Burgues-Brun, madrina di guerra che gli mandava platonicamente i suoi versi, e Jacqueline Korb, la pittrice che egli finirà per impalmare sei mesi prima di morire. Scrivendo alle sue muse, Apollinaire nutrì i desideri più sfrenati, alimentò i sogni proibiti dell’allievo ufficiale prima e del soldato in trincea dopo; e immaginando l’amore in tutta la sua innocenza e la sua perversione riuscì a sopravvivere al trauma della guerra, al caos della morte e della distruzione, tenendo a bada l’angoscia, la solitudine, la disperazione. Appena uscito, un libro strepitoso a cura di Jean-Pierre Guéno (Guillaume Apollinaire, Faire l’amour et faire la guerre, Le Passeur, 672 pagine, 11,90 euro), quantunque privo di note e di apparato critico, raccoglie adesso in un unico volume la corrispondenza inedita di Apollinaire con le sue amanti. E’ una lettura ipnotica. Il libro infatti si può leggere come un’antologia dei deliri erotici di un genio, come il diario di un apolide che, fremente patriota, decide di partire volontario e su due piedi si arruola nell’esercito per smuovere l’ultima sua preda, e per ottenere la cittadinanza francese, ma a ben vedere è soprattutto il sismografo di un artista dall’immenso talento, in grado di infondere ogni giorno la poesia nella vita, e di estrarre ogni giorno dalla vita la poesia, sino a trasfigurare in schegge luminose gli aspetti più vieti e sordidi dell’esistenza.

 

Il fatto è che Apollinaire era un poeta e prendeva molto sul serio il suo mestiere, tanto da respingere senza indulgenza l’ironia di chi per questo lo ridicolizzava, come la famosa Lou, la Lou delle Lettres à Lou, la Lou adorata, dalla capigliatura dorata, gli sguardi irresoluti, la peluria ambrata, alla quale dedicherà centinaia di lettere e 76 poemi dai versi indimenticabili. Esempio: “Nous lirons dans le même lit / Au livre de ton corps lui-même / C’est un livre - qu’au lit on lit - / Nous lirons le charmant poème / Des grâces de ton corps joli”. Lou era Louise de Coligny-Châtillon, la nobildonna liberata, divorziata di fresco, futura aviatrice incontrata in una trattoria di Nizza nell’autunno 1914, e sua amante fino alla primavera del 1915: “Mi serve la tua vita, il tuo sangue, ogni respiro del tuo petto, ognuno dei tuoi desideri e l’intero asservimento della tua volontà, del tuo corpo, del tuo spirito. Il che significa che nulla della tua vita passata può sussistere in te come piacere. Devi dimenticare tutto per essere solo mia”, le scriveva Apollinaire, completamente invasato il 18 gennaio 1915 da Nîmes, mandandole un assegno di 111 franchi.

 

Per quanto imperativo nei toni, e convinto del dominio assoluto che doveva esercitare su di lei e della gloria avrebbe trovato lei accanto a lui, assolvendo alla missione di musa del grande poeta, Apollinaire era costretto a riconoscere l’indifferenza della signora. Lou, pur avendo ceduto alla torrida passione, continuava a puntare anche su altre sponde, come quella del suo ex, Toutou, presto inglobato nel ménage a trois, come quella dei tanti sconosciuti con cui flirtava e si portava a letto per una passade, o come quella dei piaceri solitari perseguiti con sommo disappunto del poeta. In più, era completamente inaffidabile. Prometteva a Apollinaire di scrivergli lunghe lettere, ma neanche leggeva le sue, e quel che è peggio lo prendeva in giro perché faceva il poeta. “So che non lo fai per cattiveria, ma rischi di prendere l’abitudine”, replicava lui difendendo ruolo, missione e categoria, e puntando con pazienza sulla pedagogia: “Poeta viene dal greco e significa creatore”. Oltre alla filologia, poi, c’era la vita che premeva: “Essere poeta non dimostra che non si possa fare altro. Molti poeti sono stati anche altro e pure ben… Nulla accade in terra, nulla appare agli occhi degli uomini se prima non è stato immaginato da un poeta. Persino l’amore, è la poesia naturale della vita, l’istinto naturale che ci spinge a creare la vita, a riprodurre. Ti dico questo per mostrarti che io non esercito il mestiere di poeta solo per avere l’aria di fare qualcosa e di non fare nulla in realtà. Io so che quelli che si consacrano al lavoro della poesia fanno qualcosa di essenziale, di primordiale, di necessario prima di ogni cosa, qualcosa insomma di divino. Non parlo dei semplici versificatori. Parlo di quelli che con fatica, con amore, in modo geniale, a poco a poco possono esprimere una cosa nuova e muoiono nell’amore che li ispirava”.


Il poeta guardò per tutta la vita con amore all’Italia, paese in cui aveva imparato a parlare e dove aveva vissuto fino all’età di sette anni


 

Da questa edizione a senso unico purtroppo mancano le lettere delle muse, perciò non sappiamo come la prese Lou, la dea delle nuvole, l’ombra del suo amore sulla quale Apollinaire proiettava una completa mitografia della perversione, assegnandole la lasciva crudeltà di Salomè, la bellezza fatale di Elena, i grandi occhi cerchiati di nero di Cleopatra, la bocca voluttuosa della Regina di Saba, nonché la rassegnazione della carmelitana La Vallière, sedotta e abbandonata da Re Sole, i silenzi della Maintenon, moglie morganatica dello stesso, e la fedeltà nell’infedeltà della creola Josephine….. Sappiamo solo che l’amore per Lou, seppure irresistibile e intenso fino alla follia, durò soltanto pochi mesi, salvo permanere nel tempo come un monumento della letteratura. E infatti, al momento dell’epilogo, quell’amore miracolosamente generò la promessa di un libro. “Da domani ti manderò delle lettere le cui parti che non saranno intime formeranno un libro, Lettres à Lou, o Correspondance avec l’ombre de mon amour. Le scriverò solo sul retto delle pagine, in modo che possano essere stampate, lasciando fuori le parti intime. Le scrivo a te, ma tu me le ripresterai per la stampa e io poi te le restituirò. Ogni giorno ti manderò quel che avrò scritto, ma ogni lettera non sarà scritta in un giorno, tu le riceverai in più giorni”.


Prendeva molto sul serio il suo mestiere, tanto da respingere senza indulgenza l’ironia di chi per questo lo ridicolizzava, come la famosa Lou


 

Che Apollinaire mettesse una cura maniacale nella sua corrispondenza lo dimostra il proliferare di versi che nascono dalla prosa e dalla vita quotidiane. In balia di un fiume in piena di parole e sensazioni, il poeta amante e soldato passa continuamente dall’immaginazione alla creazione. Come un ossesso rivive sulla carta l’incontinenza del desiderio, che si tende come l’arco di Nemrod, rivive la passione della carne, l’esaltazione erotica, la presa irresistibile dei sessi, la torsione dei corpi, vita, gambe, ventre, schiena. Descrive in dettaglio l’intreccio dei corpi e l’anatomia della lussuria, le sorprese della lascivia e i segreti da maestro del sadismo, che ama soffrire e fa soffrire chi ama. Sul verso della pagina stende un resoconto in presa diretta: “Per il momento ti adoro come un pazzo. Penso ai tuoi occhi quando mi ami, alla tua bocca, ferita profonda. Mi ricordo l’adorabile posizione che hai preso sabato, natiche in alto in tutto il loro splendore, e tra loro quella spessa perlina di carne bruna e grassa in cui s’apre la bocca muta e perpendicolare che adoro. S’apre ogni volta che agiti la groppa. Sembra sul punto di parlare, ed io, padrone armato della frusta della giustizia, percuoto questo mappamondo meraviglioso. Se tu soffri nel tuo orgoglio, tu patisci e l’amore trasforma in voluttà la sofferenza che provi… La prossima volta dovrai allargarti meglio in modo che io possa battere anche quel punto ombroso tra le natiche dove c’è quella pasticca gialla di cui sei tanto avara. L’altro giorno i tuoi spasmi erano bruschi come quelli di una carpa uscita dall’acqua”. E intanto però sul recto della stessa pagina lascia germogliare versi sontuosi: “Le vice n’entre pas dans les amours / sublimes. Il n’est pas plus qu’un grain de sable / dans la mère, / Un seul grain descendant dans les / glauques abîmes”. Tant’è che a leggerlo nella sua straordinaria dovizia, questo carteggio a senso unico sembra dischiudere il serbatoio più prezioso dell’immaginario erotico del Novecento, e offrire al tempo stesso l’esempio più compiuto dell’erotismo sublimato nell’arte.

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