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Perfide lettere

Mariarosa Mancuso

E’ lì che John Fante giudicava gli scrittori italiani incontrati negli anni 50, molto somiglianti a quelli d’oggi

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Molti frigoriferi fa, un ritaglio appiccicato a mo’ di magnete ricordava che: “Le strade sapevano di gorgonzola acido. La domenica andavano tutti sotto le finestre del Papa. La forma più bassa di vita umana era lo scrittore italiano”. Recitiamo a memoria, il prezioso pezzo di carta è andato perduto. Né abbiamo avuto cuore di ripercorrere l’opera completa di John Fante – era lui il sublime ritrattista, americano nato in Colorado nel 1909 da genitori italiani – per trovare la citazione (e una pezza d’appoggio per gli scettici).

 

Roba di pregio. E di grande utilità, tutte le volte che abbiamo visto scrittori italiani portarsi in giro come un incrocio tra Dickens e Balzac, discesi in terra a mostrare i loro imperdibili capolavori. A discrezione, un incrocio tra James Joyce & Foster Wallace, per chi tratta l’Ottocento romanzesco come il mobile tarlato della nonna. Abbiamo doppiamente goduto quando gli scrittori impresentabili in società erano proprio quelli che – se portati in società, alle presentazioni, ai premi letterari, in televisione – celebravano lo scrittore italoamericano e la sua controfigura Bandini.

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Non abbiamo mai condiviso la passione per John Fante (ora un po’ scemata, le mode vanno come son venute). C’erano scrittori americani più vicini al nostro gusto – e soprattutto più lontani dalla canottiera e dal fiasco di Chianti che sempre si indovinano nelle sue pagine. Tutta la perfidia e l’ironia finisce nelle lettere. A quelle aveva affidato il giudizio sugli scrittori italiani incontrati a Roma negli anni Cinquanta, molto somiglianti a quelli d’oggi. Le società letterarie cambiano più lentamente dei paesi circostanti, lo sfottò di Dino Risi sul premio Strega – nei “Mostri”, anno 1963 – sembra fatto l’altro ieri (al netto delle oltre mille pagine su Benito Mussolini, trionfanti l’anno passato).

 

Non erano stati solo gli scrittori a impressionare John Fante, quando alla fine degli anni Cinquanta visitò per la prima volta nella terra degli avi. Già a New York, 130 italiani a bordo “hanno pianto e hanno agitato le braccia in direzione degli amici e parenti che li avevano accompagnati. Ho avuto l’orrenda sensazione che fossimo tutti condannati”. Le prove sono in “Tesoro, qui è tutta una follia”, scelta di lettere pubblicata da Fazi più o meno all’epoca di quel frigorifero, quindi fuori catalogo (e di ebook naturalmente non si parla, poi uno dice che la gente non legge).

 

Arrivato a Roma con un contratto di dieci settimane per scrivere una sceneggiatura (il suo copione di “Full of Life” era stato candidato all’Oscar) il mondo del cinema non fa a John Fante migliore impressione. Scrive alla moglie Joyce, dissuadendola dal fare progetti per raggiungerlo: “Non ci si può fidare di questa gente, semplicemente; un giorno è tarallucci e vino e offerte da capogiro, il giorno dopo non ricordano neanche una parola di quel che hanno detto”. Molto peggio sta lo stomaco: “Devi stare di guardia alla tua minestra come un poliziotto, se no un cameriere ti carica, la annega nel formaggio, versa l’olio di soppiatto”.

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