Per fortuna anche Philip Roth non ha smesso di scrivere dopo il ritiro ufficiale

Mariarosa Mancuso

Speriamo che l'archivista non faccia la vedova gelosa

Annunciano che smetteranno di scrivere, ma farlo non è facile come dirlo. Dopo una vita passata a scrivere frasi e a girarle, a scriverne altre e a girare pure quelle – con meravigliosi risultati, va detto – Philip Roth non ha smesso di colpo. Dopo oltre mezzo secolo (i tic alla catena di montaggio vengono per molto meno) bloccarsi può avere contraccolpi. Infatti di scrivere non ha smesso, dal novembre 2012 fino alla morte, giusto due anni fa).

 

Dopo il ritiro ufficiale, Philip Roth ha scritto pagine e pagine. Lo racconta l’amico Benjamin Taylor in un memoir appena uscito da Penguin: “Here We Are: My Friendship With Philip Roth”. Lo sa per certo: si frequentavano e spesso tornava a casa con manoscritti e fascicoli. Come regalo di compleanno, come regalo senza occasione, come tesoretto per la vecchiaia, come devoto e futuro archivista. Non uno capace solo di mettere in ordine le scatole, e neppure un noioso filologo. Un amico, a sua volta romanziere, del genere che trova materiale nella propria vita.

 

Benjamin Taylor aveva undici anni, il 22 novembre del 1963. Era a Forth Worth, con sua madre, tra la folla riunita per salutare John Fitzgerald Kennedy in partenza per Dallas. Poche ore più tardi, viene a sapere dall’insegnante in lacrime che hanno sparato al presidente. Da qui comincia “Il clamore a casa nostra”, il romanzo pubblicato nel 2018 da Nutrimenti.

 

Sistemato l’archivista – speriamo non si comporti come certe vedove gelose che non mollano neanche un rigo, oppure decidono di camparci sopra, e rilasciano un pezzetto per volta – avrà fatto Philip Roth il suo testamento letterario?) vediamo quel che resta di scritto. Benjamin Taylor parla di self-justification, con pesantezza jewish (basta leggere quel che Sigmund Freud dice della colpa). Con un linguaggio lontano dalla psicologia spicciola, lo scrittore del “Lamento di Portnoy” – ma l’avete letto? e allora che aspettate, un’altra quarantena? – fa i conti con il passato.

 

Con la moglie Claire Bloom, per esempio. Non si era piaciuta affatto leggendo “La controvita”, per rintuzzare le malevolenze del marito romanziere scrisse “Leaving a Doll’s House” , “Via dalla casa delle bambole”. Nel manoscritto “Notes for My Biographer” (stava per essere pubblicato, poi fu ritirato), Philip Roth accusa l’attrice inglese (scoperta da Charlie Chaplin e scritturata in “Luci della ribalta”) di avergli rovinato la vita. Macchiando la sua reputazione al punto da privarlo per sempre del Nobel (dopo quel che abbiamo saputo dell’Accademia svedese, siamo alla classica accoppiata: finti virtuosi e veri puttanieri).

 

Benjamin Taylor racconta le molte operazioni subìte da Philip Roth, che temeva di risvegliarsi dall’anestesia privo di memoria. Aveva quindi l’incarico di interrogarlo sui personaggi storici americani. Roth li sapeva tutti, e per doppio controllo recitava a memoria l’inizio dei “Racconti di Canterbury. “In Aprile, quando la dolce pioggerella cade e nutre le radici della terra, i fiori cominciano a sbocciare”.

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