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Consigli per la quarantena - 46

L'indiano di Oz

Mariarosa Mancuso

C’è il suo “Quichotte” in libreria, ma per Salman Rushdie tutto è partito dal film con Dorothy e il mago

C’è il “Quichotte” di Salman Rushdie fresco fresco in libreria (esce da Mondadori). Chissà quale nuova vita ha inventato per il poveraccio uscito di testa per colpa dei libri (pensate a uno spot più convincente per tenere lontani dalla lettura: non ne esistono). Tutte le volte che l’anglo-indiano ha ripreso storie altrui – ha sfidato “Le mille e una notte”, misurandosi con Shehérazade – il risultato è stato perlomeno interessante. C’è il dettaglio che ora Quichotte ha la mente annebbiata dai talk-show (e il paragone con l’intossicazione da lettura non regge granché).

 

Salman Rushdie racconta di essere cresciuto in una cameretta tappezzata con i personaggi di Walt Disney, Bombay era un posto di mondo. A dieci anni scrisse il suo primo racconto, ispirato al film “Il mago di Oz”. Dodici pagine battute a macchina su carta velina, poi andate perdute, poi ritrovate dal padre (che forse si era lasciato trasportare dalla fantasia, i fogli non saltarono fuori mai più). Racconta tutto nel “Mago di Oz”, un libretto appartenente a una bellissima collana del British Film Institute – per dire, oltre a lui c’è Camille Paglia che racconta “Gli uccelli”. Il giovane Rushdie inventò la storia di un ragazzino di Bombay che dove finisce l’arcobaleno trova la pentola dell’oro (in famiglia, girava anche qualche leggenda irlandese): il luogo dove tutto può succedere. Rimase folgorato: “‘Il mago di Oz’ fece di me uno scrittore”. Con gli occhi del romanziere adulto, racconta il film con gli occhi dello spettatore locale: “La bionda Glinda che arriva nel paese dei Mastichini dentro la sua bolla magica” (citiamo dalla versione pubblicata nelle edizioni Linea d’Ombra, 1992) “può sembrare strana a Dorothy. Per gli spettatori indiani arrivava come una dea deve arrivare: ex machina”.

 

Ricostruisce la tormentata lavorazione, quasi peggio di “Via col vento”: registi cacciati dal set, sceneggiatori che di giorno scrivevano i battibecchi di Rossella e di Rhett e la notte cercavano di finire la commedia per cui avevano già un contratto (ma al film dei film non si poteva resistere). Nel romanzo di Frank Baum, la Città di Smeraldo era tale solo perché gli abitanti portavano occhiali con le lenti verdi. Le scarpette magiche non erano rosse bensì d’argento, fino alla terza sceneggiatura almeno. Si alternarono dietro la macchina da presa quattro registi, Victor Fleming lasciò il set a riprese non ancora finite proprio per girare “Via col vento”. “Un testo senza autore”, commenta Rushdie (peccato che i critici che credono a una simile chimera non escano mai dalle biblioteche).

 

“Il mago di Oz” – questo di Rushdie – è uno spasso, una chiacchiera, un modo di far dell’autobiografia parlando d’altro (di tutti, il più interessante). E’ irritato soprattutto dal ritorno a casa, come se davvero Judy Garland-Dorothy (o qualsiasi altro essere sulla faccia della terra) potesse preferire il grigio Kansas al variopinto Regno di Oz. Le ragazzine sveglie (come gli scrittori bravi) sanno quanto la realtà sia sopravvalutata.

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