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Viaggio nel luogo che non c’è

Gaia Manzini

Isole inventate, deserti ostili, montagne inesistenti. E’ sempre il desiderio della scoperta a spingerci altrove

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La Justo Sierra solcava le acque scure del Golfo del Messico. I membri della spedizione giuravano di essere vicini alla meta, così dicevano le loro carte nautiche: l’isola Bermeja compariva già su una cartina del 1539 e poi in molte altre mappe del XIX secolo. Lo spagnolo Alonso de Chaves l’aveva avvistata a metà del Cinquecento dal ponte della sua nave e l’aveva descritta come “biondastra e rossastra”. Bermeja doveva trovarsi a qualche miglio marittimo da dove si trovavano loro, ne erano certi. Giunti alle coordinate indicate, la nave batté la zona a tappeto, fin quando il comandante non decise di mandare in perlustrazione l’elicottero. Già, l’elicottero. La Justo Sierra non era una nave dell’antichità: l’equipaggio era un team multidisciplinare di scienziati ingaggiati dall’Universidad Autònoma de México e l’anno dell’esplorazione il 2009. I rilevamenti sonori e le scansioni dell’area dall’alto servirono a dare un’unica certezza: Bermeja, che compariva sulle carte fino al 1921, era sempre stata un fantasma. L’interesse per quell’isola disabitata nasceva dall’esigenza di Messico e Stati Uniti di dividersi le acque del Golfo e i relativi giacimenti di petrolio. Per la Repubblica messicana l’isola doveva esistere e continuò a esistere per un po’. José Angel Conchello, il presidente del Pan (Partido Acción National) nutriva parecchi sospetti sul fatto che Bermeja fosse stata fatta sparire deliberatamente dalla Cia.

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La Justo Sierra solcava le acque scure del Golfo del Messico. I membri della spedizione giuravano di essere vicini alla meta, così dicevano le loro carte nautiche: l’isola Bermeja compariva già su una cartina del 1539 e poi in molte altre mappe del XIX secolo. Lo spagnolo Alonso de Chaves l’aveva avvistata a metà del Cinquecento dal ponte della sua nave e l’aveva descritta come “biondastra e rossastra”. Bermeja doveva trovarsi a qualche miglio marittimo da dove si trovavano loro, ne erano certi. Giunti alle coordinate indicate, la nave batté la zona a tappeto, fin quando il comandante non decise di mandare in perlustrazione l’elicottero. Già, l’elicottero. La Justo Sierra non era una nave dell’antichità: l’equipaggio era un team multidisciplinare di scienziati ingaggiati dall’Universidad Autònoma de México e l’anno dell’esplorazione il 2009. I rilevamenti sonori e le scansioni dell’area dall’alto servirono a dare un’unica certezza: Bermeja, che compariva sulle carte fino al 1921, era sempre stata un fantasma. L’interesse per quell’isola disabitata nasceva dall’esigenza di Messico e Stati Uniti di dividersi le acque del Golfo e i relativi giacimenti di petrolio. Per la Repubblica messicana l’isola doveva esistere e continuò a esistere per un po’. José Angel Conchello, il presidente del Pan (Partido Acción National) nutriva parecchi sospetti sul fatto che Bermeja fosse stata fatta sparire deliberatamente dalla Cia.

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C’è sempre una verità vibrante pulsante nei luoghi immaginari e fittizi. C’è sempre nascosta una speranza. In questo momento, in cui ci sono preclusi gli spostamenti e i viaggi, nel mio caso torna a farsi sentire una vecchia passione: quella per le cartine e per le guide. Da bambina sopra il mio letto era stata appesa un’imponente cartina del globo: una bellissima foto scattata dal satellite con colori vividi, oceani increspati, deserti dorati, foreste cangianti, ghiacci violacei. Era il mondo da esplorare con gli occhi. Da adulta quando ancora lavoravo in ufficio, mi piaceva andare in pausa pranzo in libreria. Non facevo altro che consultare guide turistiche e cartine geografiche. Lonely Planet della Malaysia, del Guatemala, della Nuova Zelanda... Leggevo le introduzioni, mi creavo in testa un possibile tour a bordo di autobus e mezzi pubblici; mi annotavo costi e pernottamenti. Certo non si trattava di luoghi immaginari, piuttosto di luoghi immaginati: impastati per sempre con la mia fantasia. Luoghi dove non sono mai andata, perché in fondo era come se li avessi già visitati. Ho sempre amato la geografia, perché la geografia regala delle certezze fatte di punti cardinali e direzioni da prendere. Ho sempre amato le guide, perché le guide sono una promessa di movimento e di entusiasmo – l’estasi della scoperta. E’ custodita in ogni viaggio la spinta a fuggire da se stessi, il desiderio di rinascita in un altrove che consideriamo perfetto, o semplicemente migliore. E io ho desiderato rinascere per molto tempo, perché quello che avevo non mi bastava mai. In questo gioco dei luoghi immaginari o immaginati, il confine tra realtà e proiezione è sempre labile. Judith Schalansky nel 2013 ha scritto e disegnato l’Atlante delle isole remote (Bompiani). La scrittrice e designer tedesca ha messo insieme cinquanta isole inesistenti e irraggiungibili, ma perfettamente credibili. Luoghi da cui vorremmo scappare oppure, al contrario, dove vorremmo rintanarci, perché questo sono le isole: microcosmi racchiusi dalle correnti e protetti nella loro purezza dal mondo; oppure terre murate dal mare, sospese nel mezzo di un deserto d’acqua, da cui è impossibile andarsene. Approdi o luoghi ignoti da coltivare come retropensieri. Come se dell’immaginario della lontananza e dell’altrove avessimo sempre e comunque bisogno.


L’interesse per quell’isola disabitata nasceva dall’esigenza di Messico e Stati Uniti di dividersi le acque del Golfo e i relativi giacimenti


 

Lo scrittore e poeta britannico Lawrence Durrell diceva di aver scoperto un elenco di malattie ancora non classificate dalla scienza medica. Tra queste annovera l’insulomania, la folle passione di alcune persone per le isole: quando si trovano su un territorio circondato dal mare, sono colte da un’indescrivibile frenesia. Nell’Atlante immaginario di Edward Brooke-Hitching (Mondadori, 2017), si racconta di un gruppo di danesi che per sfuggire alla prima guerra mondiale si stabilì in un arcipelago a trecento chilometri dalla Florida. Ebbrezza della scoperta, dell’esplorazione, della conquista. Una volta arrivati su queste isole, le considerarono di loro proprietà e aprirono una fitta corrispondenza con il dipartimento di Stato americano nella quale rivendicavano l’indipendenza e le sovranità del loro Principato di Atlantide. 

 

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E’ così potente l’idea di avere un proprio paradiso terrestre, o una propria utopia, che a volte le isole potevano considerarsi pegni d’amore. Pedro Sarmiento de Gamboa, esploratore e navigatore spagnolo, aveva disegnato nel XVI secolo alcune mappe dello stretto di Magellano. Lì compariva un’isola mai registrata da altre cartine. Quando gli inglesi lo catturarono, gli chiesero di quel territorio e lui – m’immagino – scoppiò a ridere. Doveva avere una moglie molto sensuale, Pedro Sarmiento. Una moglie che andava e veniva dal suo studio con passi morbidi e rotondi, mentre lui lavorava e disegnava mappe. Quell’isola, aveva risposto lo spagnolo, doveva chiamarsi l’Isola della moglie del pittore o qualcosa del genere, perché sua moglie gli aveva suggerito all’orecchio di inserire là in mezzo al mare una terra tutta per sé. Che regalo meraviglioso per una donna: un posto da tenere nell’immaginazione, un luogo tutto suo dove andare e dove rintanarsi. Una terra che nessun esploratore avrebbe mai potuto trovare.

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Nel 2005 un rappresentante del Geographers’ A-Z Street Atlas rivelò che la mappa di Londra conteneva almeno cento strade inesistenti


 

Un’isola tutta sua ce l’ha anche la scrittrice Annalena McAfee. Si chiama Fascaray ed è protagonista di un romanzo: Ritorno a Fascaray, per l’appunto (Einaudi, 2019). Fa parte dell’arcipelago delle Fascaridi, lassù in Scozia, con la sua montagna il Beinn Mammor, la sua baia, Finnverinnity Bay, “con colline e loch, altopiani e pianure, boschi e torbiere, spiagge di bionda erba machair e sabbia d’avorio cosparse di conchiglie e massi tondeggianti, alte falesie e grotte profonde”. Fascaray è una specie di “Scozia in miniatura”. E’ un luogo fittizio, ma non mitologico, un luogo letterario ma assolutamente verosimile, dove mettere in scena tutte le contraddizioni delle piccole patrie: dimidiate tra comunitarismo e individualismo, tra tradizione e modernità, tra regionalismo e integrazione nazionale.

 

La Terra di mezzo di Tolkien, l’isola di Ea dove vive la maga Circe, la contea di Yoknapatawpha di Faulkner, i regni ultraterreni di Dante, la Macondo in Cent’anni di solitudine… Luoghi frutto della fantasia di un autore, ma anche luoghi fittizi che hanno ispirato utopie in cui le persone avevano bisogno di credere. Da Atlantide al Paradiso Terrestre, passando per il regno della regina di Saba: di questi luoghi non è tanto interessante la geografia ma il sistema di umane illusioni che si sono andate a costruire intorno a loro, diceva Umberto Eco nella sua Storia delle terre e dei luoghi leggendari (Bompiani, 2013).


E’ così potente l’idea di avere un proprio paradiso terrestre, o un’utopia, che a volte le isole potevano considerarsi pegni d’amore


 

Se c’è qualcosa che ci spaventa e allo stesso tempo ci affascina sono gli spazi vuoti. Nel 2007, avevo cominciato a fantasticare sul luogo della terra che più innescava la mia voglia di fuggire. Dopo molte letture, lo avevo trovato. Si trattava di un deserto a più di 3.000 metri sulle Ande boliviane: il Gran Salar de Uyuni è il più grande deserto di sale di tutto il pianeta, un’infinita distesa di bianco. A differenza di altre mete, questa non era difficile da immaginare. Quello che era difficile da figurarsi erano le sensazioni di chi si trovava ad attraversarlo. Cosa mette in moto un luogo come quello? Come si solca una pagina bianca? Quali sono le parti che ci tocca riscrivere di noi stessi? E così ci sono andata per davvero, con un amico. Immersi nella luce accecante che si rifrangeva sui cristalli di sale, ci siamo fotografati creando strani giochi di prospettiva. Diceva Lucio Fontana che lo Spazialismo nell’arte poteva nascere solo in Argentina, in quella vastità dei territori che si stendono uniformi nella loro immensità: d’altronde, il vuoto è un’accelerazione creativa senza pari. L’esploratore francese Binger, in una conferenza pubblica della Société de Géographie, abbatté un’intera catena montuosa lunga seimila chilometri con poche parole. Aveva percorso il Niger dal Mali fino al regno di Kong, nel nord della Costa d’Avorio, convinto che alla fine della lunga traversata avrebbe trovato un’imponente catena montuosa. Fece invece un’altra scoperta: all’orizzonte non si vedeva neanche una collina. Le montagne di Kong non erano mai esistite. Comparivano sulle mappe dell’Africa fino all’800, perché i cartografi non sapevano come riempire quell’immenso spazio vuoto all’interno del continente. In alcune mappe ottocentesche si vede un’increspatura scura che divide orizzontalmente tutta l’Africa, dall’Atlantico fino ad arrivare in Etiopia. E nel nulla pare siano finiti anche due continenti, quello di Mu e quello di Lemuria. Lemuria piaceva moltissimo agli occultisti. Secondo Madame Helena Blavatsky, cofondatrice della Società teosofica, il continente era esistito ai piedi dell’Himalaya ed era abitato da una razza scomparsa di ermafroditi ovipari semiumani che raggiungevano in media una statura di due metri e si accoppiavano con gli umani.

 

Quello di inventare luoghi e di crederli reali fino a prova contraria è un desiderio insopprimibile. E’ qualcosa che stimola la nostra megalomania, la nostra segreta ambizione di essere demiurghi, anche quando dichiariamo di farlo per ragioni specifiche. Nel 2005, un rappresentante del Geographers’ A-Z Street Atlas rivelò alla Bbc che l’edizione londinese delle loro mappe conteneva almeno cento strade inesistenti. Certo, si trattava una precauzione – sarebbe servito per dimostrare che gli eventuali rivali avevano rubato il loro materiale –, ma l’atto stesso della creazione di strade che s’inserivano prepotentemente nell’urbanistica della città doveva aver dato ai loro creatori un innegabile brivido di piacere.


L’esploratore francese Binger abbatté un’intera catena montuosa lunga seimila chilometri con poche parole 


Trentottesimo parallelo Nord e ventottesimo meridiano Ovest, una mattina di gennaio di quindici anni fa. Il mare è una coperta strappata dalla schiuma. La costa svetta sfidando il vento. Però c’è anche qualcos’altro, qualcosa che si muove tra le onde, colorato come l’arcobaleno. Agita braccia e gambe sinuosamente, ma non è una creatura marina. Rodrigo Delgado, un biologo marino che lavora per conto del Dipartimento di Oceanografia delle Azzorre sull’isola di Faial, lo vede passare. Assomiglia un uomo che danza silenzioso, incrociando braccia e gambe, annodandole e poi sciogliendole ancora, come in un film comico, ma con una grazia diversa. Poi arriva un’onda e la strana creatura si distende: è un vestito da Arlecchino. La nave cargo CP Valour è salpata qualche giorno prima dalle coste americane per la consueta traversata, ma una tempesta all’altezza delle Azzorre, l’ha fatta naufragare. Tra i container c’era anche quello che trasportava i costumi di Arlecchino servitore di due padroni, lo spettacolo con Ferruccio Soleri che il Piccolo Teatro di Milano aveva portato in tournée negli Stati Uniti per otto settimane. Alle operazioni di pulizia per eliminare dalla spiaggia i detriti di idrocarburi, partecipano persone di ogni età: qualcuno lavora al Dipartimento Oceanografico, qualcuno arriva dalla nave o da altre isole. C’è qualche pescatore, qualche comune cittadino. E anche alcuni attori. Fanno parte della compagnia amatoriale del Teatro de Giz. Da qualche giorno discutevano sulla stagione teatrale, indecisi su cosa mettere in scena, fin quando la notizia del naufragio non ha messo in allerta tutti i cittadini. Quando arrivano sulla spiaggia, tra i resti dei container, trovano anche i costumi, le parrucche, i manichini del Piccolo Teatro. E’ come un sogno, è un segno. Con le facce meravigliate e piene d’eccitazione, decidono di mettere in scena L’isola degli schiavi (altro luogo immaginario). Le Azzorre non sono un luogo fittizio; certo è che la storia del naufragio della CP Valour è talmente fantastica da fare dell’isola di Faial – con il suo Arlecchino disperso – un luogo fantastico a sua volta. Per sempre bloccato tra realtà e fantasia.

 

Abbiamo bisogno della lontananza, di luoghi remoti e irraggiungibili che non verranno mai scoperti, o altri da guardare sotto una luce nuova. Abbiamo bisogno del desiderio di scoperta e del senso dell’ignoto per sentirci degli eroi o dei demiurghi, o solo per alimentare la paura che ci conferma quanto la nostra vita cittadina sia la scelta migliore. Di nuove rotte ne abbiamo bisogno sempre. Oggi più che mai.

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