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Siamo tutti Mrs Dalloway

Annalena Benini

La protagonista del capolavoro di Virginia Woolf è sopravvissuta all’epidemia di Spagnola del 1918. L’euforia e la paura di Clarissa verso il brulicare della vita che riparte. La festa della convalescenza

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La signora Dalloway aveva in sé qualcosa di un uccellino, di una gazza, un che di verdazzurro: se ne stava dritta sulla vita come appollaiata su un ramo. Lieve, vivace, anche se aveva “varcato la cinquantina” e i capelli erano diventati molto più bianchi dopo la sua malattia.

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La signora Dalloway aveva in sé qualcosa di un uccellino, di una gazza, un che di verdazzurro: se ne stava dritta sulla vita come appollaiata su un ramo. Lieve, vivace, anche se aveva “varcato la cinquantina” e i capelli erano diventati molto più bianchi dopo la sua malattia.

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La sua malattia. La malattia di Clarissa Dalloway è spesso accennata nei pensieri di chi la guarda con ammirazione ma la trova un po’ invecchiata, e anche nella preoccupazione del marito, Richard, che le ricorda di seguire il consiglio del dottore e di dormire almeno un’ora dopo colazione. La malattia si sente per le strade di Londra, come si sente la fine della guerra, lo sfinimento e la rinascita. La malattia, che ha imbiancato i capelli alla signora Dalloway, la signora di mezza età più famosa del mondo (che grande gesto ha compiuto Virginia Woolf: creare un’eroina che ha tutto dentro di sé e che si sente “d’un tratto avvizzita, vecchia, coi seni cadenti”, una donna che invecchia!) è il virus influenzale del 1918: l’epidemia che in due anni uccise cento milioni di persone.

 

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L’influenza ha imbiancato i capelli e indebolito il cuore di Clarissa e ha offerto solennità nuova al semplice fatto di vivere. Virginia Woolf aveva deciso che doveva esserci tutto, in quelle 80 mila parole: la vita e la morte, la saggezza e la follia, il tempo perduto


 

Clarissa Dalloway ha avuto l’influenza spagnola, che ha indebolito il suo cuore ma ha anche offerto una nuova, particolare solennità al semplice fatto di vivere, e di vivere proprio lì, a Westminster, nel centro di Londra. E sentire il passato e il presente dentro di sé: le occasioni non colte, la giovinezza perduta, eppure ancora l’amore per gli istanti della vita, per il giovedì che segue il mercoledì, per l’aria fresca del mattino, per i rintocchi del Big Ben. Clarissa è stata malata, e adesso sente con grande nitidezza lo sfavillare della vita. Virginia Woolf ha ambientato questo romanzo un mercoledì di metà giugno del 1923, a cinque anni dall’inizio della pandemia. La signora Dalloway è una sopravvissuta e ha da poco compiuto cinquantadue anni. Virginia aveva quarantatré anni nel 1925, quando il romanzo venne pubblicato, era stata malata ed era tornata da qualche tempo a Londra con il marito, ne aveva bisogno per scrivere, lo aveva supplicato e lui come sempre aveva acconsentito. “Il mio romanzo sta diventando più analitico e più umano, mi sembra; meno lirico; ma sento di avere allargato i limiti a sufficienza e di poterci riversare tutto. E mi piace Londra, per scrivere questo libro; in parte perché, come dico, la vita ti sostiene; e con il mio cervello a gabbia di scoiattolo è una gran cosa non dover più girare in tondo. Poi vedere creature umane, liberamente e rapidamente, è per me un infinito vantaggio. E posso fare rapide sortite fuori casa a rinfrescare il mio ristagno”, annotava nel Dario di una scrittrice. Virginia sente il piacere della fine del suo isolamento, e lo trasmette a Clarissa.

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Nella prima stesura aveva fatto morire la signora Dalloway, ma poi aveva cambiato idea, con l’immenso potere che hanno gli scrittori: Clarissa Dalloway deve vivere ancora, ma esclamerà dentro di sé: “Oh, nel bel mezzo della mia festa, ecco la morte”. Questa certezza, invece di distruggerla, la renderà felice. Virginia Woolf aveva deciso che doveva esserci tutto, in quelle ottantamila parole: la vita e la morte, la saggezza e la follia, e un esercito di altre persone, intente a vivere, a rimpiangere, a flirtare, a sentire l’estasi o a morire: Septimus ha trent’anni e si butta dalla finestra, Septimus “aveva buttato via tutto”, ma gli altri continuano a vivere e a entrare nelle stanze illuminate della signora Dalloway che dà la sua festa, che festeggia la propria apoteosi e che intanto approva la morte.

 

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Ho guardato, in queste settimane in cui cerchiamo spiegazioni, apocalissi e categorie di giudizio, le foto in bianco e nero, di intere famiglie di cento anni fa, durante la Spagnola, uomini e donne con la mascherina di stoffa bianca, e a volte in braccio gatti con la mascherina anch’essi, e le fotografie dei sanatori, e delle infermiere, le foto delle barelle: adesso siamo incredibilmente più vicini a quegli sguardi, a quella paura negli occhi, o al sollievo di chi si è rialzato dal letto. E ci chiediamo anche come racconteremo un giorno questo evento gigantesco della nostra vita, della vita di tutti, se troveremo mai le parole, e se usciremo da qui e andremo di nuovo nel mondo con lo sguardo mutato per sempre, più vivido o più stanco. Sta per finire, ormai lo sappiamo, o almeno sta per cambiare. Virginia Woolf ha raccontato che cosa si sente, dopo: senza mai dirlo, ma mostrando una giornata di Clarissa Dalloway, una sopravvissuta, fuori e dentro.

 

Virginia Woolf sentiva l’euforia di progettare “La signora Dalloway” e poi di galoppare, in meno di un anno, verso il suo compimento, e confessò nel diario l’unica difficoltà: “Trattenermi dallo scrivere ancora”. Sperava di venderne duemila copie in tutto, e il libro vendette, solo il primo anno e solo in Inghilterra, 2.236 copie, annotate dal marito Leonard.

 

E’ bello dire, con totale sicurezza: questo libro è un capolavoro. Nella prima pagina, proprio sotto la prima frase, “La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei”, si apre un passaggio segreto da cui esce una mano che ti afferra e ti trascina dentro fino a Bond Street, nel traffico di carrozze, automobili, furgoni, uomini-sandwich: ecco il capogiro dell’esaltazione, “ecco la vita, Londra, e quell’attimo di giugno”, ed ecco il movimento interiore di sconosciuti adesso incredibilmente vicini. Clarissa, Richard, Peter, Sally Seton, Septimus, tutti con un passato da rievocare, e tutti cambiati dal tempo che passa. I sani e i pazzi insieme. In questo romanzo c’è la considerazione del tempo perduto e della felicità ancora possibile, la compassione verso l’esistenza e verso la certezza della morte, c’è la critica al sistema sociale. C’è tutto l’amore per la vita di Clarissa Dalloway, la convalescente.

  

A rileggere adesso pagine così piene di gratitudine e di terrore per la vita, si viene perfino assaliti dal dubbio che “La signora Dalloway” potesse essere un romanzo sulla convalescenza: sui pensieri limpidi che si hanno dopo una malattia, come il cielo al mattino spazzato per tutta la notte dalla pioggia. Sui sensi che dopo un lungo isolamento sentono vibrare anche un uccellino sopra un ramo. Sulle forze che ritornano, ma non del tutto. Sulla paura e il desiderio di fare ancora parte del mondo.

 

Clarissa Dalloway è uscita di casa, a metà di giugno, a guerra finita, “e ovunque, sebbene fosse ancora presto, c’era in aria uno scalpiccio inquieto di puledri galoppanti”. La vita è ricominciata e Clarissa con tutti i sensi all’erta nota anche “giovani audaci e ridenti fanciulle in trasparenti vesti di mussola, le quali pur ora, dopo aver danzato tutta la notte, portavano a spasso certi buffi cani lanosi”. Ci sono di nuovo le feste, si può ballare tutta la notte. E Clarissa nutre una passione, per tutto questo movimento, per questa frenetica speranza: è il suo talento, amare la vita, essere curiosa degli esseri umani. Clarissa è anche una snob, considerata frivola da molti, non conosce la differenza fra turchi e armeni, non legge quasi niente, non sa nulla di storia, né di lingue. Ma adesso, adesso è totalmente assorta nella contemplazione degli esseri umani, e molto di più: li sente dentro di sé, li comprende più che mai, ne sente il dolore, la gioia, il rimpianto. Ha attraversato il parco ripensando alle sfuriate di Peter quando l’amava, ripensando alla giovinezza e al fatto che ha sposato un altro uomo, convincendosi di avere fatto la scelta giusta per evitare la rovina di entrambi, e davanti ai cancelli del parco si ferma un momento, vuole pensare ancora, e guardare gli omnibus passare in Piccadilly.

 

Il tempo è dilatato: il tempo interiore di Clarissa non corrisponde affatto al tempo delle campane che suonano le ore (Virginia Woolf aveva pensato di intitolare questo romanzo “Le ore”), e che forse suonano anche i morti. Questo tempo serve a contenere e a mostrare i pensieri di una donna che è tornata nel mondo: sono i pensieri di una sopravvissuta.

 

“Si sentiva assai giovane; e al tempo stesso, indicibilmente attempata. Penetrava attraverso la vita come una lama di coltello; e al tempo stesso restava al di fuori, ad osservare. Aveva la perpetua sensazione, anche guardando il via vai dei tassì, di essere altrove, altrove, in mare aperto e sola. La sensazione che fosse molto, molto pericoloso vivere anche un giorno soltanto”.

 

Il mondo è meraviglioso, il mondo è terrificante. La vita è magnifica, la vita è spaventosa. La vita può finire, e forse è già stata vissuta, forse in fondo è già passata, e allora contano soltanto i ricordi. E’ molto, molto pericoloso vivere anche un giorno soltanto: questa sensazione di pericolo da che cosa deriva se non dalla vicinanza (e anche dalla voluttà) della morte?

 


La festa della signora Dalloway è un’offerta alla vita, al posto della morte sfiorata. Riunire le persone. Non si è mai sentita tanto felice. “Ecco la vita, Londra, e quell’attimo di giugno”. E la certezza che fosse molto pericoloso vivere anche un giorno soltanto 


 

“Ma che importava, allora, si domandava procedendo verso Bond Street, che importava ch’ella dovesse, ineluttabilmente e completamente, cessare di vivere? Tutto questo sarebbe continuato senza di lei; le dispiaceva, forse? o al contrario la consolava credere che con la morte tutto finisce? ma che in qualche modo nelle strade di Londra, nel fluire e rifluire delle cose, qui, là, sarebbe sopravvissuta, e anche Peter, l’uno nell’altra, lei essendo parte, ne era sicura, degli alberi di casa sua; e anche di quell’edificio laggiù, così brutto e degradato; parte di gente che non aveva mai incontrato; sospesa come una nebbia tra le persone che conosceva meglio, che la sorreggevano come aveva visto i rami degli alberi sorreggere la nebbia, ma si dispiegava così lontano, quella vita che poi era lei. (…) Questa ultima età dell’esperienza del mondo aveva scavato in tutti loro, uomini e donne, un pozzo di lacrime. Lacrime e dolori, coraggio e sopportazione, un portamento perfettamente eretto e stoico”.

 

Non solo la guerra ha scavato in tutti loro un pozzo di lacrime. Anche la vita stessa, la malattia, le scelte sbagliate, il tempo che passa, il dolore dei giorni.

 

Dov’è adesso, signora Dalloway, la tua frivolezza? La frivolezza sembra sparire dentro una giornata qualunque che contiene la vita intera, una giornata che è come la rivelazione dell’intero di un’esistenza: la giornata di festa offerta al posto della morte sfiorata, e comunque vicina, e infatti la signora Dalloway questo avrebbe risposto a Peter, se lui le avesse chiesto un po’ sdegnato che cosa significavano insomma quelle sue serate, quelle sue feste da frivola e perfetta padrona di casa, da signora snob e banale che scende le scale di casa in abito da sera, che mette insieme persone, che riempie le stanze di fiori. Lei gli avrebbe risposto, ma senza pretendere che gli altri capissero: “Sono un’offerta”. Un’offerta per amore dell’offerta, un’offerta alla vita, l’offerta di riunire le persone insieme nelle stesse stanze, offrendo loro qualcosa di illuminato da guardare, qualcosa da vivere insieme, danzando o semplicemente ricordando quello che è stato. Alla festa della signora Dalloway ci sono tutti, e sono invecchiati, come in un pericolo scampato, ci sono anche quelli che non sono stati invitati ma hanno sentito della festa e sono arrivati, come Sally Seton, amica (e amore) di giovinezza di Clarissa e Peter. Alla festa della signora Dalloway c’è la vita com’è adesso, con il tempo che è passato sopra i volti, con l’esperienza che fa crescere la sensibilità (Sally dice che il suo corpo ha cinquantacinque anni, ma il suo cuore è quello di una ragazza di venti), con i figli che guardano altrove, la testa per aria, ignari di quanto sia pericoloso vivere anche solo un giorno. Clarissa invece sembra consapevole di tutto, e non si è mai sentita tanto felice: per essersi sperduta per i meandri della vita, e poi averla ritrovata. In piedi, così, vestita da sera.

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