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Nella crisi in cui siamo immersi sono in gioco la vita e il suo senso. La lezione di Havel

Ubaldo Casotto

Il coronavirus ci ha colti impreparati, sanitariamente, economicamente, ma soprattutto esistenzialmente. E’ giusto ascoltare gli esperti. Ma chi è l’esperto del mio io?

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Mercoledì scorso nel suo “Buongiorno” Mattia Feltri ha scritto: “Noi ora non dobbiamo solamente salvare delle vite, dobbiamo pensare alla sopravvivenza della comunità: è molto diverso, è una sfida molto più grande e richiede grandi sacrifici. Ma ricordiamoci che settantacinque anni fa si rischiava la vita per la libertà. Ora si rischia la libertà per la vita. Speriamo che questo non dica qualcosa di noi”.

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Mercoledì scorso nel suo “Buongiorno” Mattia Feltri ha scritto: “Noi ora non dobbiamo solamente salvare delle vite, dobbiamo pensare alla sopravvivenza della comunità: è molto diverso, è una sfida molto più grande e richiede grandi sacrifici. Ma ricordiamoci che settantacinque anni fa si rischiava la vita per la libertà. Ora si rischia la libertà per la vita. Speriamo che questo non dica qualcosa di noi”.

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Questo dice molto di noi. Non voglio aprire, non interessa a me e credo meno ancora a chi legge, un dibattito ideologico fra i primatisti delle libertà costituzionali (tra cui quella di spostarsi), “non negoziabili” si sarebbe detto solo poco tempo fa, e i tardo-realisti del primum vivere deinde philosophari. Mi interessano le domande che riemergono potenti in questi giorni di fronte alla morte di tanti: a che serve la vita? A che serve la libertà?

 

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Nell’ultimo anno ho letto molto i libri di Václav Havel, lo scrittore, il dissidente, il presidente della Cecoslovacchia liberata, uno che si è fatto più di cinque anni in carcere, che in galera si è ammalato e ha rischiato di morire, che uscito dal carcere ha rifiutato la proposta dell’esilio e di una vita più tranquilla in occidente accettando di dover tornare altre volte dietro le sbarre.

 

L’ho riletto, dopo aver letto Mattia e dopo aver ricevuto questa testimonianza di un uomo di Bergamo che ha perso la madre: “Mia moglie mi ha detto: ‘Tua madre è una donna che lascia molto di più di quel che toglie con la sua mancanza’. […] Questa è la lezione che ho imparato da mia madre, contadina, poi operaia, poi casalinga, madre a cui è morta un’adorata figlia a diciassette anni e poi l’adorato marito. Ha sempre chiesto ragione di tutto questo con virilità, senza strepiti al Dio che fa tutte le cose, senza mai distogliere occhi e cuore dalla realtà. Perfino negli ultimi giorni ha lottato come una leonessa. Non si è lasciata andare. Lasciarsi andare per non soffrire è una cosa da borghesi. Perché la vita non è un diritto. E’ un dono e occorre esserne grati in qualunque situazione ci troviamo a viverla”.

 

Perché sono andato a rileggermi Havel?

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Perché Havel diceva che in questione non c’è il potere, l’ideologia, il sistema economico, ma – esattamente come l’amico di Bergamo – la vita. E la vita non è tale se non ha un significato: “Sin dall’infanzia sento che io non sarei me stesso, un essere umano, se non vivessi in continua e costante tensione verso un ‘orizzonte’, sorgente di significato e di speranza”. E aggiungeva: “Ciò che io intendo per ‘senso della vita’ non è solo un’informazione o una merce che può essere trasmessa liberamente. Ogni tentativo di afferrare il senso della vita come se fosse conoscibile in questo modo, solleva la questione di che cosa venga esattamente offerto quale presunto significato della vita. L’ipotetica risposta diventa così soltanto un modo per offuscare la domanda. Tutto quanto di significativo sia stato mai detto a questo proposito (compreso qualsiasi annuncio religioso) è, al contrario, degno di nota per la sua drammatica apertura. Non è una conferma, quanto piuttosto una sfida o un appello; qualcosa che ‘sta avendo luogo’ nel senso più alto, che sta accadendo. Tende piuttosto a suggerire un determinato modo con cui convivere con tale interrogativo. Convivere con questa domanda non significa niente di più che ‘rispondervi’ continuamente o, piuttosto, essere in una forma di ‘relazione vivente con il significato. Il senso della vita non è un punto alla fine della vita, ma l’inizio di una esperienza più profonda della vita. Essere perennemente in contatto con questo mistero ci rende infine autenticamente umani”.

 

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Il coronavirus ci ha colti impreparati, sanitariamente, economicamente, ma soprattutto esistenzialmente. Non ci basta la nostra esperienza di umanità, corriamo a rivolgerci agli esperti. “L’individuo si arrende alla propria umanità rinviandola all’ufficio di un esperto (ancora Havel, ma anche Finkielkraut). Giusto ascoltare i virologi, ma chi è l’esperto del mio io?

 

La drammatica alternativa posta da Mattia nel suo “Buongiorno” – rischiare la vita per la libertà o rischiare la libertà per la vita – mi ha riportato agli anni del pacifismo militante: “Meglio rossi che morti”. Questo slogan – diceva Havel – è il meglio che ogni potere si possa augurare, “è un segnale infallibile che colui che lo pronuncia ha rinunciato alla propria umanità come capacità di rispondere di persona per qualcosa che lo supera, e perciò di sacrificare, al limite, anche la vita per il suo senso.

 

[…] Questo slogan in realtà proclama che niente vale il sacrificio della vita. Ma senza l’orizzonte del sacrificio supremo perde senso ogni tipo di sacrificio. Ovvero: nulla ‘vale la pena’. Nulla ha senso. E’ la filosofia della negazione totale dell’umanità. Non riesco a liberarmi dall’impressione che la cultura occidentale sia minacciata assai più da sé stessa che dai missili sovietici”.

 

Allora vorrei tornare a Bergamo, a Casnigo per la precisione, un paesino di tremila anime che ha visto ammalarsi il suo arciprete, don Giuseppe Belardelli. Hanno fatto una colletta e comprato un respiratore per il loro sacerdote, il quale all’infermiere che glielo portava avrebbe detto, secondo qualche ricostruzione: datelo a un giovane. E’ morto, “ma a che vale la vita se non per essere data?”, diceva Paul Claudel. Non credo si debba essere tutti eroi come don Giuseppe o come Havel, credo si tratti di tornare a guardare con stupore sé stessi – lo stesso stupore che ci suscitano i medici, gli infermieri, gli insegnanti che seguono con creatività e dedizione i ragazzi a casa, gli italiani che stanno raccogliendo milioni in aiuti, gli italiani che al 97 per cento stanno rispettando le restrizioni imposte (l’obbedienza è l’unica virtù e per esercitarla ci vuole molta libertà) – e “dare in letizia ciò che abbiamo” (Claudel).

 

Accettare che la vita sia mistero non vuol dire capirla, vuol dire iniziare a viverla veramente.

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