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Benedetta primavera. Storia della nostra incontenibile voglia di rinascere

Maurizio Crippa

Eccola anche in questo terribile anno. Piena di simboli. Un libro

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“Primavera non bussa, lei entra sicura / come il fumo lei penetra in ogni fessura”, cantava De André interpretando a suo modo – il modo dell’amore che travolge come una chimica sconosciuta – l’epitaffio di “Trainor, il farmacista” di Edgar Lee Masters. Oggi che da ogni fessura che teniamo sbarrata entra una minaccia più letale dell’amore, estatico o carnale, che si risveglia a primavera, è lo stesso impossibile non aprire le finestre, non uscire sul balcone chi ce l’abbia e lasciarsi incantare dalla primavera che arriva sicura, là fuori. E respirare a pieni polmoni, senza paura di Sars-CoV-2, la voglia di vita, di rinascita: la stagione nuova che questo calendario bisesto ci ha portato tre giorni fa, con la solita cesta fiorita di promesse a prova di “poetica delle illusioni”. Perché ci è così impossibile resistere al fascino della primavera, e persino alle sue malinconie, e ai suoi nuovi colori? Sarà la biologia, senz’altro. Ma di certo anche quella che chiamiamo psicologia, che sarebbe il surrogato dell’anima. Quanto alla malinconia, che è un altro dono della primavera come certe giornate uggiose, bisogna correre ai classici della poesia e della pittura, al Seicento del Guercino che fu tra i primi a dipingere la bellezza incontaminata di una primavera pastorale, e a infilarci però quel teschio con quelle parole enigmatiche scritte sotto, “Et in Arcadia ego”. Anche io, la morte, sono qui ad attendervi nella vostra natura felice.

 

Ma non è il caso di pensare alle trappole funeste. Non c’è altra stagione come la primavera, persino questa primavera, che porti con sé lo stesso struggimento di felicità, di correre fuori a ballare e cantare (La “Primavera”, la “Pastorale”, la “Sagra della primavera” e un milione di ballate popolari e canzonette pop: quanta musica è stata scritta per catturare in suono ciò che è profumo, luce, colore?) saltando a piè pari ogni malinconia. Non potendo uscire, può aiutare una passeggiata di parole per capire da dove viene, e perché, e come a un certo punto della nostra mutazione antropologica l’abbiamo rinchiusa fuori e perché dirompente ritorna (“come un fumo lei penetra”) nella nostra epoca più che mai – mito naturale e psichico. Una passeggiata che si può fare in compagnia di Alessandro Vanoli, storico e divulgatore, che ha scritto una saggio-rapsodia dal titolo “Primavera - La stagione inquieta” per Il Mulino. Con gli incanti di un miracolo antico: “A primavera, quando l’acqua dei fiumi deriva nei canali”, canta Ibico di Reggio tradotto da Quasimodo.

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Vanoli ci racconta tutti i significati che abbiamo dato a questo impetuoso risorgere della vita, della speranza e persino degli ormoni, a partire dalla Pesach ebraica (“Questo sarà per voi l’inizio dei mesi”), dalla Pasqua dei cristiani, che porta con sé tutte le simbologie vegetali e animali (le uova) della Resurrezione. Alle feste e ai fuochi di primavera che per tutta l’Europa, per secoli, sono rimasti pagani, agresti, trasgressivi. Le simbologie intrecciate di fecondità: della terra e femminile, ma anche maschile, se verde ha la stessa radice di “vir”, l’uomo. Alla sintesi romantica, “Primavera dintorno. Brilla nell’aria, e per li campi esulta” E si scopre come il verde – col blu il colore più visibile in natura – fu per lunghi secoli un colore negletto, anche perché difficile da comporre in modo stabile su vestiti e pitture, e dunque alchemico – e poi è diventato il colore più amato ed evocato degli ultimi secoli, fino ai fiori e colori dei figli dei fiori e delle rivoluzioni che, da un certo punto in poi, si chiameranno tutte “primavere”. E il ritorno del nostro struggente bisogno di verde nelle città, che i botanici inglesi d’epoca vittoriana teorizzavano sul Gardener’s Magazine, per dire perché la necessità di correre in un parco sia oggi una delle nostre peggiori (colpevoli?) privazioni. Ma non durerà a lungo, tutto rinasce: benedetta primavera.

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