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Una stanza per il coronavirus

Simonetta Sciandivasci

Bere vino, rileggere Virginia Woolf, mantenersi inutili. Consigli per una quarantena libera

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Roma. Che crudele ironia esser costretti in casa come hikikomori, ed esserlo per il nostro bene, dopo che per anni abbiamo lanciato allarmi sociali, pure quelli per il nostro bene, temendo che hikikomori diventassimo tutti, rilevandone l’aumento vertiginoso, tanto che a un certo punto quasi ci era parso che hikikomori si stesse prendendo a nascere, che fosse una deviazione genetica. E adesso dobbiamo ricrederci, dobbiamo cercare i lati positivi della reclusione, del vivere nascosti e non per preservarci dal tedio e dalla corruzione della vita associata di modo da non compromettere la nostra felicità come prescriveva Epicuro, signori, qua il fine è assai più pragmatico, semplice semplice: dobbiamo rintanarci per avere salva la pelle, nostra e degli altri. Non c’è più gusto a esser misantropi, solitari, asociali, tutte cose splendidamente amorali nel mondo ante coronavirus, e adesso, invece, sommamente morali, etiche, necessarie. Utili. E niente è più nemico della libertà dell’utilità. 

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Roma. Che crudele ironia esser costretti in casa come hikikomori, ed esserlo per il nostro bene, dopo che per anni abbiamo lanciato allarmi sociali, pure quelli per il nostro bene, temendo che hikikomori diventassimo tutti, rilevandone l’aumento vertiginoso, tanto che a un certo punto quasi ci era parso che hikikomori si stesse prendendo a nascere, che fosse una deviazione genetica. E adesso dobbiamo ricrederci, dobbiamo cercare i lati positivi della reclusione, del vivere nascosti e non per preservarci dal tedio e dalla corruzione della vita associata di modo da non compromettere la nostra felicità come prescriveva Epicuro, signori, qua il fine è assai più pragmatico, semplice semplice: dobbiamo rintanarci per avere salva la pelle, nostra e degli altri. Non c’è più gusto a esser misantropi, solitari, asociali, tutte cose splendidamente amorali nel mondo ante coronavirus, e adesso, invece, sommamente morali, etiche, necessarie. Utili. E niente è più nemico della libertà dell’utilità. 

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Quando Woolf scrisse “Una stanza tutta per sé”, una delle cose che focalizzò era questa. E allora ci disse, ragazze, levatevi dalle stanze dove si fa da mangiare, si lava, si spettegola, si piange, si mangia, dove si educano i bambini, dove si fanno le cose che servono alla vita degli altri, e fate in modo di averne una vostra, di stanza, dove essere libere di non fare un niente, attività massimamente propedeutica al vivere, e poi al pensare, e alla preziosa somma delle due cose che è lo scrivere. Ed era il 1929, la qual cosa non è un dettaglio da poco, vista la pandemia di depressione che il mondo conobbe quell’anno. Sul suo diario, di ritorno da un ciclo di conferenze sulle donne e il romanzo, Woolf scrisse di aver incontrato “Giovani intelligenti, avide, povere, destinate a diventare nugoli di maestre. Ho detto loro di bere vino e di procurarsi una stanza tutta per sé”.

  

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Noi le stanze tutte per noi le abbiamo, anche se dentro appartamenti minuscoli, con pareti che lasciano passare anche i sibili (amici edili, ma cosa ci mettete dentro ai muri, gli hamburger vegani?) e nelle prossime settimane dovremo starci chiuse dentro per renderci utili prima di tutto agli altri e, di conseguenza, ma solo di conseguenza, anche a noi stesse. E in malora l’interruzione di quella subalternità dell’interesse privato delle donne rispetto a quello collettivo che Woolf invitava le ragazze a conquistarsi, rendendosi indipendenti, di modo da avere una stanza in cui non fare niente, pensare, scrivere, studiare e dotarsi di tutto quello che, poi, le avrebbe portate fuori, verso l’avventura, il mondo, le amiche, gli amanti, tutto.

 

Che fare, adesso? Prendere vino, accettare la quarantena, ricordarsi di essere inutili, porselo proprio come obiettivo, non appena questa parentesi di utilità della sociopatia forzosa sarà chiusa, perché la chiuderemo eccome, statene certi, non finiremo tutti a scrivere ad amici lontani “Qui non c’è nessuno, eccettuata la mia tosse”, come Katherine Mansfield, che a trent’anni s’ammalò di tubercolosi e per anni rimase chiusa in casa a scrivere di quanto desiderasse solo sigarette, cioccolata e chiacchiere perfide. Tutte cose di cui noi, invece, possiamo abusare, chiuse nelle stanze tutte per noi che ci siamo sudate anche grazie a Virginia Woolf.

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