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Il paradosso di Craxi, che non seppe sganciarsi da una politica vecchia

Umberto Ranieri

In Italia mancarono le condizioni “maggioritarie” per una svolta. Prigioniero di Pci e dorotei, rinunciò alla grande riforma

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Di Craxi si discuterà ancora, permarranno, come accade per tutte le personalità politiche che lasciano un segno nella storia della Repubblica, valutazioni e giudizi diversi. Questo non dovrebbe impedire di rendergli omaggio, a venti anni dalla scomparsa, dedicandogli una via a Milano, la città in cui nacque e visse.

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Di Craxi si discuterà ancora, permarranno, come accade per tutte le personalità politiche che lasciano un segno nella storia della Repubblica, valutazioni e giudizi diversi. Questo non dovrebbe impedire di rendergli omaggio, a venti anni dalla scomparsa, dedicandogli una via a Milano, la città in cui nacque e visse.

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Bettino Craxi moriva venti anni fa, nel gennaio del 2000, in solitudine e lontano dall’Italia. Socialista di ferme convinzioni autonomistiche. Fra i pochi che si erano sottratti alle molteplici peregrinazioni opportunistiche tra le correnti che caratterizzarono la decadenza socialista dopo l’insuccesso del tentativo nenniano. Senza alcun complesso di inferiorità culturale nei confronti del Pci. Cosa che i comunisti non gli perdoneranno mai, neanche quando diventeranno “Quercia”. Per loro, osserva Luciano Cafagna, l’interesse positivo di un personaggio politico esiste solo se, e in quanto, sia suscettibile di diventare un “compagno di strada”, non importa per quanto tempo e in che misura. Bettino Craxi ebbe l’intuito e la prontezza di un grande tattico ma perseguì un disegno strategico coerente con le sue forti convinzioni autonomiste: recuperare al socialismo italiano la fisionomia originaria che aveva smarrito nella morsa della doppia subalternità al Pci e alla Dc.

 

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Egli fece del confronto sul profilo ideale e culturale della sinistra il terreno su cui condurre la battaglia. L’autonomia culturale che i socialisti rivendicavano aveva la propria ascendenza ideale nel socialismo liberale. Fondamentale fu la rivista “Mondoperaio” diretta da Federico Coen. Polemiche come quella avviata da Norberto Bobbio sul marxismo e lo Stato o le successive su Gramsci e l’egemonia, sul togliattismo e la democrazia, lasciarono un segno nella storia della sinistra. La Conferenza programmatica di Rimini del 1982 segnò il punto più alto di elaborazione. In quella sede fu ripresa la formula dell’eguaglianza delle opportunità che anticipava il dibattito sulla riforma del welfare. Il Psi attrasse in quegli anni notevoli energie intellettuali intorno all’idea di un riformismo da sinistra di governo. La risposta che la cultura comunista oppose alla sfida fu inadeguata, si arroccò nella difesa di schemi tradizionali. Enrico Berlinguer liquidò con sufficienza la discussione che si svolgeva su “Mondoperaio” come “roba da professori che non hanno letto neppure un rigo di Marx”! Osserverà alcuni anni dopo Biagio de Giovanni: “l’offensiva culturale di “Mondoperaio” fu per me uno spartiacque. Avvertii che il Pci subiva una sconfitta culturale e teorica, avevamo poche armi tra le mani per rispondere…”. In realtà eravamo tutti, nel Pci di quegli anni, dentro un orizzonte teorico e pratico di cui non coglievamo la fragilità, la forza di erosione che lo stava frantumando, l’urgenza quindi di un nuovo pensiero.

 

In tanti ritennero che la visione strategica di Craxi mirasse ad una evoluzione mitterrandiana della sinistra. In realtà mancarono in Italia le condizioni che avrebbero reso possibile quell’evoluzione. Furono i meccanismi maggioritari della Costituzione gollista, insieme allo spostamento del centro di gravità politico dai comunisti ai socialisti, che consentirono alla sinistra francese di realizzare in dieci anni l’alternativa. Il mitterrandismo nacque e si consolidò nella opposizione al centrodestra; il craxismo provò ad affermarsi in un aspro gioco di collaborazione e conflitto con la Dc senza, tra l’altro, trovare mai la comprensione e il sostegno del Pci. Un gioco che alla lunga logorò i socialisti. Craxi tentò di sottrarre il Psi a questa logica assumendo la presidenza del Consiglio ma non fu sufficiente a modificare i rapporti di forza. D’altro canto, l’estenuante lentezza con cui il Pci si liberava dall’involucro ideologico che ne tarpava le potenzialità di governo rendevano più difficile l’aprirsi di una fase nuova nella politica italiana.

 

Chi fu Craxi? Un leader che lavorò ad una modernizzazione della tradizione socialista o null’altro che un uomo politico interessato al potere per il potere? Craxi ebbe una concezione forte del potere e lo ricercò facendosi strada come un corsaro tra le insidie della politica italiana. I dirigenti del Pci non vollero intendere che il senso più profondo della politica socialista dalla fine degli anni Settanta consisteva nello sforzo di recuperare al Psi un proprio profilo autonomo. Mancò al gruppo dirigente comunista il coraggio di riconoscere che la sinistra avrebbe potuto candidarsi al governo del paese in alternativa alla Dc solo in presenza di un Psi capace di una propria originale caratterizzazione. L’ambizione dei socialisti a non rassegnarsi ad un ruolo minore determinò laceranti tensioni a sinistra e portò il Pci ad affermare che era intervenuta una mutazione genetica del Psi che ne aveva compromesso i caratteri di forza di sinistra. 

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Ogni volta che il Psi mostrava di non volersi rassegnare ad un ruolo secondario o subalterno e produceva uno sforzo teso a recuperare una propria fisionomia originaria ed autonoma veniva, nella sostanza, combattuto dal Pci. Accadde dopo il 1956, poi al sorgere del centrosinistra, infine con Craxi. Il tentativo avviato da Pietro Nenni con il centrosinistra di riconquistare un ruolo autonomo al Psi e di rilanciare la prospettiva del socialismo democratico in Italia, nel volgere di alcuni anni si arenò stretto nella morsa del doroteismo democristiano da un lato e delle rigidità schematiche della politica del Pci dall’altro. Craxi si cimentò con lo stesso problema: consentire al Psi di superare uno stato di frustrazione nei rapporti con alleati ed avversari di cui aveva dolorosamente sofferto sia nell’età frontista che in quella del centro sinistra.

 

Dopo l’89 Craxi commise l’errore politico di fondo. Non seppe sganciarsi da quella che era diventata “una alleanza opportunistica e priva di avvenire” con la Dc. Concluso il conflitto tra socialismo dispotico e socialdemocrazia, era giunto il momento di aprire la situazione politica italiana alla prospettiva dell’alternativa di governo. Era quanto gli aveva suggerito con parole accorate in una lettera alla fine del 1990 Norberto Bobbio: “Con l’autorità che ti viene dall’essere stato per quattro anni presidente del Consiglio e ora dal prestigioso incarico internazionale alle Nazioni Unite, puoi avviare un fecondo dialogo a sinistra per cercare di aiutare il corso della storia italiana e interrompere il sempre più insopportabile dominio democristiano. Solo tu puoi farlo”.

 

Appare ancora sorprendente che un politico di razza quale fu Craxi non si sia reso conto che il sistema politico italiano e le forze che ne erano state l’architrave fossero ormai giunti alla fine. Spia di questa cecità fu l’invito agli italiani che chiedevano un segno di cambiamento a disertare le urne per il referendum che aboliva la preferenza multipla nelle elezioni nel giugno del 1991. Nella difficoltà a cogliere l’esigenza di un mutamento del sistema politico che, dopo la caduta del Muro di Berlino, si poneva in tempi più rapidi di quelli cui probabilmente pensava Craxi, vanno rintracciate le cause della crisi irreversibile che colpì i socialisti.

 

Il Psi che aveva avuto il merito di porre per primo il tema della riforma dell’assetto politico istituzionale del paese, ripiegò, nella seconda metà degli anni Ottanta, sul mantenimento dello statu quo politico e istituzionale. Quello che era stato il partito della grande riforma finì per identificarsi con un sistema in crisi e precludersi la possibilità di intercettare l’onda crescente di dissenso che montava.

 

Quando il 3 luglio del 1992, prendendo la parola nell’Aula di Montecitorio, Bettino Craxi descrisse le degenerazioni del sistema di finanziamento della politica chiedendo che tutti se ne assumessero le responsabilità era troppo tardi. Il corrompimento della vita pubblica, con il diffondersi di “corruttele, abusi, illegalità”, aveva minato alla radice la credibilità del sistema politico. Gli anni Ottanta, scrive Galli della Loggia, “furono quelli in cui esplose la grande corruzione italiana, in cui la morale pubblica del paese andò in pezzi. Ma chiunque si sia occupato un po’ di queste cose sa che non ne porta alcuna responsabilità predominante la gestione craxiana del partito o del governo. Il craxismo fu un comprimario, un comprimario importante certamente, ma sempre in numerosa e qualificata compagnia”. Quando Craxi ricevette il primo avviso di garanzia nel dicembre del ’92 il mio commento in una dichiarazione all’Ansa fu il seguente: “Craxi paga errori politici e colpe con un tramonto atroce e repentino ma è raccapricciante ‘la soddisfazione selvaggia’ che lo circonda: è il segno di una ritornante barbarie non meno ripugnante del corrompimento della vita pubblica”.

 

Era nel giusto Luciano Cafagna quando ricordava che “la storia non procede mai per vie di assoluto lindore, ma qui forse, l’inquinamento diffuso passò il segno di un ragionevole limite del tollerabile, del riassorbibile”. A quel punto, la stessa possibilità di realizzare la “grande riforma” si collocava ormai al di fuori dei partiti. Quella referendaria appariva l’unica proposta in grado di cambiare le cose. Forse, nella “dignità dolorosa degli anni di Hammamet”, intorno a questo drammatico paradosso della vicenda politica socialista si sarà arrovellato Bettino Craxi.

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