Quel sottile confine tra fame e rabbia che ci lega ancora a "Furore" di Steinbeck

All’India di Roma Massimo Popolizio porta in scena l'opera del premio Nobel. Una storia di migranti americani che riaccende il dolore dilagante di vite non vicine

Eugenio Murrali

L’importante, a teatro, è non attualizzare. Massimo Popolizio lo sa e porta in scena all’India di Roma, fino al 1° dicembre, "Furore" del premio Nobel John Steinbeck, consapevole che quella storia di contadini americani, impoveriti come i loro terreni e costretti a migrare negli anni Trenta verso ovest, parla al pubblico più di qualsiasi pièce dallo sfondo contemporaneiggiante. "The Grapes of Wrath", questo è il titolo originale, letteralmente “I grappoli di furia”, arrivò in Italia già nel 1940, su suggerimento di Elio Vittorini all’editore Valentino Bompiani, che ne scelse il titolo "Furore" e pubblicò la traduzione di Carlo Coardi. L’intuizione coraggiosa degli intellettuali italiani fu guastata in parte dai tagli imposti dalla censura fascista. Nel lavoro che oggi vede arrivare "Furore" a teatro, ottant’anni dopo la prima edizione americana, Popolizio ed Emanuele Trevi, curatore dell’adattamento, hanno potuto contare sulla traduzione nuova e integrale di Sergio Claudio Perroni, uscita nel 2013.

 

Quell’azione generalmente insensata di prendere un capolavoro della letteratura e trasformarlo in una messa in scena assume qui significato per quel che la forza di Popolizio sa dare di diverso rispetto alla lettura solitaria del romanzo. In questa fase iniziale l’allestimento vede sul palco solo l’attore accompagnato dal musicista Giovanni Lo Cascio, eppure anche questa mise en lecture è uno spettacolo pieno e compiuto. La scena è una spianata di terra rossa, memoria delle tempeste di polvere, reali e metaforiche, che, nel periodo ricordato come Dust Bowl, “conca di polvere”, durante la crisi scatenata poco prima dal crollo di Wall Street, colpirono l’area centro-meridionale degli Stati Uniti provocando l’esodo di centinaia di migliaia di contadini. Su questo spazio simbolico si snoda la storia di un popolo in fuga, efficacemente divisa in capitoli, e prende corpo nella parola agita di Massimo Popolizio che cammina sulla strada dei ritmi di Giovanni Lo Cascio, come i mezzadri correvano per la Route 66, attraversando gli Stati Uniti, in fuga dalla miseria, dopo aver lasciato le loro terre assediate dai delegati delle banche.

 

Sullo sfondo si sussegue una partitura di immagini in continuo dialogo con le parole di Steinbeck, in particolare le foto di Dorothea Lange e Walker Evans, scatti voluti dal presidente Roosevelt, conservati nella Biblioteca del Congresso e capaci di descrivere con durezza e poesia la Grande Depressione americana. Perché nell’adattamento di Trevi si è scelto di raccontare il sentimento epico e drammatico di quell’esodo posando lo sguardo sul movimento di massa più che sulle vicende della famiglia Joad protagonista del romanzo. Per farlo è stato importante tenere presenti gli articoli pubblicati da Steinbeck sul San Francisco News a partire dal 1936, una costante denuncia delle condizioni di miseria, di sofferenza, di malattia dei migranti americani.

  

Attuali non sono i fatti, attuale è il sentimento e Popolizio ha il dono di un’interpretazione comunicativa che porta lo spettatore a percepire la crescita emotiva di questo furore, l’ira montante di chi ha perso beni e speranza, perché “uno ha tanta libertà quanta se ne può comprare” e loro non possono comprare neanche un copertone per proseguire l’esodo. “Come faremo a vivere senza le nostre vite”, si chiedono le persone, mentre lasciano il proprio passato caricando a più non posso le loro macchine, “vecchi catorci” restati a migliaia sulla Route 66. Negli occhi di questa gente “c’era la fame” e Popolizio insegna con Steinbeck che “il confine tra fame e rabbia è sottile”, lo insegna non perché lo dice, ma perché lo fa sentire. A questo sentire lo spettatore crede molto più che a qualsiasi predica e ci crede perché considera assai più convincente il passato rispetto al presente, ascolta, osserva quella sofferenza fissata nella luce e nelle parole, quei volti proiettati ― e anche esposti nel foyer nella mostra "The Grapes of Wrath" ―, quelle case abbandonate con le porte sbattute dal vento, quelle fiumane di sperduti in cerca di lavoro sulle strade della California, le facce di chi fugge dalla miseria per andare incontro alle alluvioni e allo sfruttamento. Popolizio sa portare in sala il dolore dilagante di vite non vicine, non nostre, questo è il suo modo di far politica, per analogia di stati d’animo, senza manipolare il passato, senza citare goffamente il presente, levando alto il canto del furore, con una cronaca cruda di un’epopea che non ci riguarda, eppure ci riguarda.

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