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La Roma violenta degli psychopariolini

Simonetta Sciandivasci

Realtà e fiction. “Noi felici pochi”, romanzo di una città feroce, ma non ancora Gotham City

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Roma. Roma ha i suoi problemi ma non è Gotham City. L’ha detto il capo della polizia Franco Gabrielli (ma è una frase che si sente spesso, su Roma, diciamo un refrain) la scorsa settimana, quando l’assassinio di Luca Sacchi, 24 anni, sembrava ancora un fatto gravissimo ma semplice, una rapina finita male, dentro a una città che perde il conto delle rapine e delle cose che finiscono male, e che nessuno si fa sfuggire l’occasione di trasformare in metafore e diagnosi di incurabilità. Invece la storia di questo omicidio è complessa, annodata, chissà quando e se la sapremo tutta, e di Roma, per adesso, non racconta niente se non la spietatezza di chi fa di tutto per ridurla alla ragione sufficiente di tutto quello che le capita dentro, di tutti i delitti, di tutte le disfunzioni.

 

Il racconto su Luca Sacchi e la sua fidanzata Anastasia e i suoi spacciatori è già in caldo, e l’impasto di noia, futili motivi, gioventù bruciata, valori perduti, città perduta è sul tavolo. Una delle cose che si capiscono leggendo “Noi felici pochi”, il romanzo di uno scrittore che non esiste, è come queste narrazioni precostituite, affamate di moventi da cui trarre morali, incidono sul destino di certi ragazzi almeno quanto i fattori ambientali incidono sugli adolescenti di Scampia. Patrizio Bati (traduzione di Patrick Bateman, il ricco assassino figlio di puttana di “American Psycho”) è lo pseudonimo che un “laureato in legge” che “vive e lavora a Roma, sposato, ha una figlia e una collezione di foto segnaletiche di detenuti americani anni Cinquanta nel suo studio” ha usato per firmare un romanzo che è una confessione di fatti veri, botte vere, violenze continue, inutili, schifose che fondano l’amicizia di un gruppetto di ventenni pariolini, tutti di destra senza sapere cosa significhi, tutti machi senza il coraggio della solitudine, tutti spacconi senza la nobiltà di un gesto. Vanno allo stadio, a puttane, in Maremma, in barca, a ballare, quasi sempre strafatti, e non tornano mai senza addosso il sangue di qualcuno. Si vogliono bene, ma bene davvero. E si coprono. E si aiutano. E si capiscono, anche se non lo dicono, e sanno di essere i soli a conoscere, o poter immaginare, l’inferno di ciascuno – per tutti gli altri sono mostri da riverire per non passar guai, viziati da snobbare per non perder tempo. Sono certi che non la pagheranno mai, e anche che non durerà per sempre: vent’anni ce li hanno adesso, leoni possono esserlo adesso. Poi, però, hanno un incidente, la macchina sbanda, finisce in un burrone, a bordo ci sono loro e alcune ragazze, e sono tutti troppo ubriachi. Quello di loro che guida è destinato a una brillante carriera da magistrato per decisione di sua madre e suo padre, e sa che un incidente così manderà tutto all’aria. E allora architetta un piano per venirne fuori pulito, un piano che richiede il sacrificio di una persona, quindi un tradimento, e l’omertà di tutti, quindi un reato. Sanno, Bati e i suoi amici, come fare in modo che agli inquirenti l’incidente non sembri altro che una disgrazia, da raffinati abituali delinquenti coperti da cognomi intoccabili quali sono. Sono degli psychopariolini, e la violenza per loro non è uno sfogo, non è una conseguenza: è un mezzo, e se ne servono tanto per divertirsi quanto per salvarsi il futuro. 

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“Noi felici pochi” è il verso di una canzone del 1996 di Gabriele Marconi, ex giornalista romano, militante di estrema destra: “Noi pochi, noi felici pochi, noi manipolo di fratelli, non serve un castello per noi poca gente un buco è un rifugio più che sufficiente”, ed è anche una cosa che nell’“Enrico V” di Shakespeare il re dice ai soldati prima della battaglia di Azincourt, quella in cui 6 mila inglesi malridotti sconfissero 35 mila francesi gagliardi.

 

Roma non è Gotham City, però è piena di supereroi aspirazionali che credono che l’eroismo sia un’oligarchia fondata sul loro proprio arbitrio. E’ sul fare tutto ciò che si vuole e mai quello che si deve che si fonda il sentirsi e il proclamarsi eroi di questi ragazzi, la loro resistenza a chi si aspetta da loro che non siano vittime di niente, se non di loro stessi, e che se non si fanno bastare l’essere privilegiati per scegliere di fare il bene anziché il male, la responsabilità è del quartiere in cui vivono, della città, della famiglia, dello spirito del tempo, della destra che avanza. E invece no, scrive Bati. La responsabilità, a volte, è il punto in cui la vittima e il carnefice coincidono.

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