Dario Franceschini inaugura i nuovi scavi a Pompei nel dicembre 2017 (foto LaPresse)

Il Franceschini 2, la cultura sviluppista

Maurizio Crippa

Parla il ministro dei Beni culturali, che si è ripreso anche la “t” del Turismo: “Sarà il punto centrale del mio mandato, questo è il ministero economico più importante”. L’Uomo vitruviano, i veti assurdi, i musei. La scommessa su Pompei

Roma. Come un Uomo vitruviano al centro del suo magnifico ufficio al Collegio Romano, il ministro Dario Franceschini che mentre parla non gesticola mai – chi dice sia feroce autocontrollo e chi dice flemma – prova a misurare le dimensioni e le direzioni del lavoro che lo attende. Per un’ora fuori dal lavoro più impegnativo, al momento, che è quello della partita politica e della politica politicata. Tra quadri e antiche librerie non si parla di Di Maio e nemmeno del Pd. Si parla di politiche per la cultura, e di che cosa significhi tutelare e promuovere il patrimonio immenso del nostro paese. L’idea di Franceschini è molto sviluppista. “Quando arrivai al ministero per i Beni e le attività culturali e per il turismo la prima volta dissi, e l’ho ripetuto adesso, che mi sentivo chiamato a guidare il ministero economico più importante del paese. Non era una battuta. Investire in cultura e turismo significa puntare su uno dei fattori più forti, e unici, che abbiamo in Italia. Non dovevo convincere gli operatori del settore, ma gli altri decisori politici. Perché l’investimento sulla cultura non solo è doveroso ma fa crescere il paese, aiuta l’export. In tutto il mondo dici Italia e pensano a bellezza e storia. E’ appena uscito l’indice mondiale che misura i ‘best countries for cultural influence’: ebbene, siamo al primo posto, sopra la Francia. Per influenza, non per quantità di opere d’arte”.

 

E a proposito di Francia, il ministro commenta con l’abilità di smussare il pasticciaccio all’italiana del prestito del disegno di Leonardo bloccato dal Tar su ricorso di Italia nostra: “Vista dal di fuori è difficile da capire. Ma le leggi e le diverse competenze vanno rispettate. Come le abbiamo rispettate noi. Sono andato a Parigi a firmare un memorandum, semplicemente un atto politico di impegno relativo a decisioni per il prestito di opere in cui tutti i livelli tecnici sono stati chiamati in causa e legittimamente lasciati liberi di decidere. Tanto è vero che, delle opere chieste dalla Francia, alcune sono andate e alcune no. Per questo c’è qualcosa che non funziona in quel provvedimento”. Non le sembra che questa vicenda sia la fotografia perfetta di un paese passatista e bloccato da una cultura del veto che pare irriformabile? “Io sono rispettoso e, da ministro, non posso esprimere giudizi sulle posizioni culturali, e non dirò nulla su queste decisioni. Ma se va a rivedere la vicenda dei direttori cosiddetti stranieri dei grandi musei, hanno subìto una decina di gradi diversi tra ricorsi, appelli, controricorsi e sentenze: finché alla fine abbiamo avuto ragione su tutto. Però questo ha avuto un effetto dissuasivo, perché una persona qualificata che magari dirige un’istituzione importante o una grande galleria all’estero, a questo punto prima di venire a portare il suo know-how in Italia si farà qualche domanda. E’ così. Non mi piace ma è così”. Adesso, dopo anni di polemiche ferocemente strumentali, i grandi musei e i loro direttori stanno tutti bene, no? “Perché lì si incrociano la riforma e la qualità dei direttori, italiani o stranieri. Mentre prima le direzioni dei musei erano uffici delle soprintendenze, non avevano autonomia, bilancio, comitato scientifico. Erano diretti da un funzionario agli ordini gerarchici della soprintendenza. Le soprintendenze in Italia hanno grande competenza e meriti enormi sulla tutela, ma non sulla valorizzazione. Oggi abbiamo più visitatori, incassi, attività scientifiche, mostre: ci si è messa un po’ di visione moderna. Non capisco perché ci sia gente, addirittura da sinistra, che si lamenta perché ci sono più cittadini che vanno al museo, o al cinema con il biglietto ridotto”.

 

La seconda vita del ministro al Collegio Romano, il “Franceschini 2”, potrebbe essere contrassegnata da una “t”. La “t” della competenza per il Turismo che è tornata nell’acronimo Mibact, dopo lo stravagante accorpamento al ministero delle Politiche agricole nel governo Lega-Cinque stelle. “Il turismo è un motore imprescindibile di sviluppo, ed è proprio uno dei punti forti del mio mandato. Perché, possiamo dire, la riorganizzazione e il rilancio dei beni culturali e della tutela è già partita e sta procedendo. Mentre un punto difficile è il turismo, che riguarda anche il territorio, sui cui l’intervento e l’indirizzo sono stati in passato molto deboli”. Ma è paradossale – o forse è invece indicativo – che quando si è formato il nuovo governo i critici (la solita Italia nostra, ma non solo) non hanno attaccato Franceschini inteso come il notorio mercante e nemico del patrimonio culturale, e nemmeno il fatto che abbia immediatamente bloccato i decreti sull’organizzazione dei musei firmati in extremis da Alberto Bonisoli. No, i più alti lài hanno riguardato il fatto che il turismo fosse tornato a far coppia con la cultura. In Italia c’è chi, appena sente parole come valorizzazione e turismo, mette mano alla pistola. “E’ un pregiudizio tardo ideologico – commenta con un mezzo sorriso il ministro – che difficilmente mi spiego. Perché nell’articolo 9 della Costituzione tutela e valorizzazione ci sono sono già. Non c’è contrapposizione. In un paese come l’Italia è logico che la sede più naturale per le competenze sul turismo sia il ministero che si occupa di beni culturali, di paesaggio”.

 

Però ci sono anche i catastrofisti turistici. L’overtourism è un problema reale, ma quelli che vorrebbero chiudere tutto forse non capiscono la situazione, o la modernità. “Non ci sono solo le grandi navi a Venezia, su cui confermo quanto già dichiarato, che entro la fine di questo mio mandato non entreranno più nel bacino di San Marco. Il problema è più ampio e non si può affrontarlo da catastrofisti. Non si può impedire a chi viene in Europa una volta nella vita di vedere il Colosseo. E sono contrario ai ticket, al massimo si possono utilizzare dei contatori di accessi. Il vero problema è far crescere un altro tipo di turismo, più di qualità, moltiplicando gli attrattori turistici, che sono le città d’arte meno frequentate, i luoghi e i borghi fuori dai percorsi più sfruttati. Ci serve un turismo più lento, di qualità. E abbiamo la possibilità di un’offerta infinita rispetto ad altri paesi. Ci vuole più turismo per modificare il turismo. Non il contrario”. Siamo un po’ indietro però. “Sotto Napoli il turismo non ci va. Nel sud il rapporto tra bellezza, importanza dei siti e numeri è sproporzionato. Ma lì ci sono tanti temi da mettere a punto: la manutenzione, le infrastrutture, la ricettività, gli investimenti”.

 

Investire, tutelare i siti d’arte e promuovere il paesaggio sono tre parole che sono tutt’uno, se si tolgono i paraocchi. E’ il caso di Pompei, che a Franceschini sta particolarmente a cuore. E’ appena stato rivelato il ritrovato affresco dei “gladiatori”. E’ il frutto del lavoro di nuovi scavi, che come ha dichiarato il ministro sono anche il frutto di ingenti finanziamenti europei ben utilizzati. Non cresce solo il numero dei turisti, crescono dopo molto tempo le richieste di archeologi da tutto il mondo per poter venire a scavare qui. Ma fuori dall’area archeologica c’è una Pompei da rimodernare, da mettere in sicurezza: non ci può essere una divisione, se non tecnica, tra questi aspetti. A proposito di investimenti, tornando a musei e grandi istituzioni pubbliche, molti dicono che serva ancora più autonomia. Per reperire fondi e soprattutto per risolvere la mancanza di personale. Su questo, il punto di vista di Franceschini è articolato e cauto. “E’ un bel tema di discussione, ma complesso. Posso dire che i cda torneranno nei musei. Ma la loro rimarrà un’autonomia dentro al sistema museale dello stato. E’ un sistema fatto di grandi e piccole istituzioni, e questo è forza. Perché rinunciare a questa forza, penso ad esempio alla politica dei prestiti, lasciando che ognuno faccia per sé?”. Ma se manca il personale, non è giusto che ognuno badi al suo fabbisogno? “Anche io pensavo fosse interessante andare verso questa prospettiva, Però ho visto ad esempio il caso francese. In Francia lo hanno fatto al Pompidou, che a differenza degli altri musei in cui il personale è dello stato ha avuto autonomia anche sul personale. Ma si sono pentiti, perché mentre in un sistema unico esiste la possibilità di spostare le persone in base a esigenze e meriti, facendole crescere e migliorando le professionalità, in un sistema completamente autonomo, se sei agli Uffizi resti lì”. Quindi l’idea di fare nascere fondazioni pubblico-privato, come è ad esempio la Scala di Milano, per una miglior gestione pratica ed economica non la convince? “Non vedo i vantaggi. Può capitare, come nel caso del Museo Egizio, ma è un caso particolare. I grandi musei funzionano bene così”. Allo stesso modo, sia chi teme le privatizzazioni sia chi le chiede fa polemiche inutili: “I sacerdoti della conservazione dicono che qualsiasi privato si avvicini al pubblico lo dissacra. Ma chi vuole privatizzare tutto forse non sa che nessun museo al mondo fa utili. Al massimo, la miglior fondazione americana arriva al 30, 40 per cento con biglietteria e bookshop, il resto sono donazioni private o contributi pubblici. In mezzo c’è la strada mediana, che è valorizzare una modernizzazione restando pubblici”.

 

Ma le risorse servono, in questa via mediana. Una strada introdotta proprio da lei quattro anni fa è l’Art bonus. Ha funzionato? “Ha ingranato molto bene, 386 milioni di euro in donazioni da quando esiste. E sono tutti soldi vincolati, con destinazione certa, non è che si buttano nel calderone. Naturalmente è poco se ci confrontiamo con paesi come Stati Uniti o Regno Unito che hanno da decenni incentivi fiscali di questo tipo, lì è maturata una vera cultura del mecenatismo. Ma il bonus le imprese dovrebbero utilizzarlo di più, avendo il 65 per cento di credito d’imposta”. Si può potenziare? “Bisogna far crescere il crowdfunding, ad esempio i musei dovrebbero crescere sulle piccole donazioni anche da dieci euro, legate al luogo che si è appena visitato, creando un rapporto virtuoso col pubblico. L’altro problema è che c’è un gap tra una regione e l’altra drammatico. Alcune hanno usato bene il bonus, altre zero. Infine si potrebbero estendere le attività che ne hanno diritto. Vorrei inserire quest’anno gli istituti di cultura italiani all’estero. Ma ovviamente ogni cosa costa, va convinto il ministero dell’Economia”. A proposito di costi, un’indagine di Intesa Sanpaolo e Mediocredito appena pubblicata rileva che il valore, in pil, della nostra industria culturale e creativa è fermo all’1,7 per cento. In Gran Bretagna è al 2,8. Molte aziende creative, soprattutto giovani, hanno un grave problema di accesso al credito. Cosa si può fare? “E’ un altro degli obiettivi del mio mandato, la valorizzazione di ciò che è nuovo. Se la Gran Bretagna è più avanti di noi, con un patrimonio culturale oggettivamente inferiore, è perché ha saputo investire e spingere su quello che è in generale industria culturale: dalla creatività ai prodotti trasformati in brand, in mode. Ci sono da finanziare startup, da creare regole di agevolazione per il credito. E’ un tema di sviluppo fondamentale”. Per finire, torniamo in zona Uomo vitruviano: se la Soprintendenza di Milano mettesse un vincolo sullo stadio di San Siro? “Rispetterei la decisione della Soprintendenza senza intervenire, nel rispetto della sua autonomia. In tema di vincoli, la politica deve stare lontana. E il mio parere non lo dico, non voglio influenzare”.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"